L’iconica antenna di Alexanderplatz dista appena 30 minuti di U-Bahn da qua, ma ci troviamo nel vero centro di gravità sociale della Ost Berlin – dalle parti di Koepenick – dove soffia un vento anticonvenzionale, solidale e popolare. Da ormai 40 anni. È l’affascinante storia della società più anticonformista che ci sia, ultimo baluardo della storia sportiva della defunta DDR: l’Union Berlin.
Doverosa una premessa: in questa storia troveremo di tutto, tessere sparse di un puzzle variegato e frammentario, assemblato con pazienza inesauribile da un popolo unito e ribelle. Quello di Koepenick e della sua squadra, l’Union Berlin. È la parabola orgogliosa e forse irripetibile di una società diventata cult senza mai aver vinto un trofeo. Diversi fra i diversi. Perché l’Union nasce e si sviluppa nel cuore est di Berlino, in un contesto storico in cui la parola Germania veniva costantemente affiancata da un punto cardinale: Est o Ovest. Linea geo-politica ed ideologica di divisione del mondo.

E a Koepenick siamo decisamente spostati ad Est, nel cuore della DDR. Anche se a giudicare da quello che succede in curva non sembrerebbe affatto. Eppure ci troviamo a pochissimi chilometri di distanza da MagdalenStrasse, con i suoi spazi ampi e gli alberi in fila, con quel profilo severo dominato da un unico ed inavvicinabile edificio: il Ministerium für Staatssicherheit (Ministero della Sicurezza di Stato). Tradotto: la sede centrale della Stasi.
Gli uffici di Erich Mielke e Erich Hoenecker si trovano al secondo piano di questo blocco di edifici dal taglio razionale. Sono, sostanzialmente, i due uomini che controllano ogni aspetto della vita all’interno della DDR. Il primo è il capo assoluto della Stasi: alto ufficiale dell’esercito, tra i fondatori del servizio segreto tedesco che guiderà dalla sua nascita fino alla caduta del Muro. L’altro è il Presidente del Consiglio Nazionale e Presidente del Consiglio di Stato della DDR: il politico egemone che supervisiona e decide su qualsiasi avvenimento al di qua del Muro. Insomma, non esiste bisbiglio di cui i due non siano a conoscenza.

Ma a pochi chilometri dalle loro finestre oscurate con gli infissi in acciaio, una piccola curva all’inglese canta incessantemente cori contro la Stasi e la nomenklatura del partito, sfidando apertamente le autorità. Dando così voce e parole ad un sentimento di rivalsa popolare dall’interno di uno strano stadio dal nome romantico e strampalato: An der Alten Forsterei. Letteralmente: Alla Vecchia Foresteria.
Con un nome così non può che essere un luogo singolare. E lo è. Un catino simile agli stadi inglesi degli anni ’10 del Novecento, con le tribune incassate a picco sul terreno di gioco e l’assenza di reali barriere. Qui dentro si respira un’aria anarchica e solidale, anticonformista ed incredibilmente coesa. È un unicum nel panorama tedesco. È un pericolo da tenere sotto sorveglianza per la Stasi di Mielke: un lusso che non si può correre. I tifosi dell’Union abitano in questo quartiere, all’interno di quei sobborghi razionali a pianta rettangolare disegnati a tavolino attorno al verde della Vecchia Foresteria.
Sono il quartiere, sono Koepenick. E il grigiore architettonico di questo blocco stride col popolo variegato e passionale che ogni sabato affolla quel piccolo stadio fatiscente dal nome favolistico. Un connubio strettissimo. I tifosi dell’Union non sono certo un pubblico “medio”: tra le loro fila si possono trovare impiegati e carpentieri, punk ed eroinomani, bambini ed interi nuclei familiari. Tutti pronti a sostenere una squadra modesta che non vincerà nessun titolo, ma che andrà sempre in direzione ostinata e contraria. Sia ad Est che ad Ovest. Autarchia pallonara all’ennesima potenza.
In quest’ottica, i derby contro la Dinamo Berlin rappresentano al meglio la situazione. La Dinamo è la squadra della Stasi, l’emanazione diretta dell’Io di Erich Mielke. È spartana, affidabile e razionale. Estendendo la metafora si potrebbe definire robotica. Qualcosa che si avvicina più al direttorio del KGB che non alla comune concezione di una squadra di calcio. L’Union Berlin è rossa, scompigliata e anarchica. Così sugli spalti e così in campo. È l’anima di un popolo soffocato dalle spire di un controllo totalizzante, che non molla e, anzi, rilancia con (in)coscienza ed entusiasmo la propria natura naif e socialista: totalmente autonoma. Il tutto all’interno di un campionato, la DDR-Oberliga, disputato secondo un regime dilettantistico, data l’incompatibilità del professionismo sportivo con l’ideologia comunista.

I derby giocati sul terreno della Vecchia Foresteria non hanno quasi mai storia. La Dinamo è come un treno inarrestabile che schiaccia sotto i suoi clangori metallici ogni resistenza. È la versione calcistica del Trans Europe Express di kraftwerkiana memoria: un dispositivo che si auto-controlla e si muove in autonomia, lasciando dietro di sé tutti gli altri grazie alla sua corsa regolare e incessante. Ha alla base una preparazione atletica e mentale di altissimo spessore. Come da rigorosa scuola sportiva della DDR.
Ma sugli spalti non c’è storia. Su quelle gradinate, quelli di Koepenick riescono a fare e dire di tutto: cori e canti contro la Stasi, contro Erich Mielke e in favore dell’altra squadra di Berlino, l’Hertha. Quella che gioca al di là della Sprea, quelli dell’Ovest. Scavalcando così muri e confini ideologici, guerre fredde e controlli oppressivi, rigide abitudini e cupezza diffusa. Sviluppando una radicata coscienza comune che non si può e non si potrà più fermare: è un popolo poco numeroso ma orgoglioso e libero, ricco di fantasia e coraggio. Un’oasi colorata di rosso nel cuore grigio cemento di Berlino Est.
Su quelle gradinate stipate c’è pure una bambina che saltella sulle ginocchia del padre ogni sabato pomeriggio; e che un giorno diverrà un’icona da queste parti, riuscendo a fuggire dalla DDR e ad imporsi nella Londra incendiaria del 1977. Sarà la regina della new-wave e del post-punk tedesco: una ragazza dal trucco pesante e dalla chioma un po’ folle, con un’attitudine punk e dissacratoria sviluppata proprio in quello stadio. È Nina Hagen; una che va indifferentemente a cena con Vivienne Westwood e Johnny Rotten; una che, un giorno, scriverà e canterà l’inno che tutt’oggi risuona all’ingresso in campo dell’Union Berlin nella Vecchia Foresteria. Synth, chitarre distorte e stilettate contro il regime e le sue regole imposte.

Ma per una tifosa d’eccezione, ne esistono migliaia che si sono guadagnati le prime pagine dei quotidiani grazie alla loro fede incrollabile. Si fanno chiamare Eisern Union – “Uomini di Ferro” – e sono la frangia più cult del tifo dell’Union Berlin. Sono quelli che hanno letteralmente ricostruito la Vecchia Foresteria. Quello stadio glorioso che, all’inizio del nuovo millennio, stava cadendo a pezzi. Oltrepassando continui ritardi politici e burocratici, hanno preso la situazione in mano. Con mazzuoli, pale, mattoni e calcestruzzo. Anzitutto tifosi, ma anche artigiani, muratori, geometri e volontari del cemento: esponenti della classe operaia che qua la fa ancora da padrona.
Il documentario sulla ricostruzione (letterale) dello stadio da parte dei tifosi dell’Union.
Hanno organizzato cene sociali e raccolte fondi: un’operazione di crowdfunding 1.0 che ha portato decine di migliaia di euro su base totalmente volontaria e che ha così permesso di ridare nuova forma e vita a quello stadio unico. Gli Uomini di Ferro hanno speso quasi tutti i week-end, le ferie e il tempo libero nella costruzione di questo sogno operaio: il rifacimento totale del catino della Foresteria. Da queste parti, per anni, è stato normale scorgere decine di abitanti del quartiere passare il sabato a mischiare rena e acqua, pranzare insieme, bere una lager e posizionare assi di legno in fila. Una storia popolare, una saga working class che ha preso forma e sostanza. Mattone su mattone. Cementando una grande famiglia attorno ad un vecchio stadio dimenticato dalle autorità, ma non da loro.

E gli Eisern, con il loro nome da romanzo fantasy à-la Tolkien, si sono guadagnati pure un monumento: una stele in ferro, dominata da un elmo da operaio color rosso fuoco. Il colore della passione, il colore dell’Union. Grazie a loro è rimasta pure una piccola e affascinante testimonianza dell’impianto che fu: il tabellone manuale che segna punteggio e minuto della partita. È congelato sul risultato di 8-0. Rifilato pochi anni fa proprio agli storici antagonisti della Dinamo Berlin, squadra oramai decaduta nei gironi delle serie regionali: malinconica testimonianza del lato oscuro della vertiginosa crescita del calcio tedesco (esclusivamente dell’Ovest) e dell’oblio per i club storici dell’ex DDR.
Quel risultato è una cesura epocale. Un tocco retrò che fa tanto Goodbye Lenin, o se vogliamo Ostalgie, come la chiamano a queste latitudini. Con la differenza che adesso l’Union Berlin non gioca più in Oberliga ma in Bundesliga 2, cioè l’equivalente della nostra Serie B. Così il sogno popolare si è avverato e il puzzle ricomposto. È la lunga e intensa parabola del riscatto sociale di un quartiere speciale: l’Union Berlin è la via fai-da-te al Socialismo. Con buona pace della nomenklatura e del compagno Mielke. Perché il tempo, a volte, sa davvero essere galantuomo.