La Voce del Padrone. 5 sparate di Vittorio Cecchi Gori diventate cult - Zona Cesarini

La Voce del Padrone. 5 sparate di Vittorio Cecchi Gori diventate cult

Vittorio Cecchi Gori fa parte di quella ristretta schiera di figure che hanno segnato un’epoca di calcio e costume nostrano. L’ex presidente della Fiorentina è stato artefice e protagonista di parentesi indimenticabili, dentro e fuori dalle mura dello stadio Artemio Franchi. Emblema della scalata impossibile, dell’uomo sbagliato nel momento giusto, dell’ambizione che si trasforma prima in ossessione psicopatologica e infine in abisso. Ereditiero e battagliero, passionale e caricaturale: una meteora folkloristica nel contesto di un’Italia in cerca d’identità e nuovi equilibri di potere nel movimentato periodo post-Tangentopoli.

Vittorio, figlio di Mario, rimane nell’immaginario collettivo come il prototipo del presidente anni ’90 del calcio italiano: troppo ricco per essere considerato un semplice e novello padroncino del pallone, ma non abbastanza influente e smaliziato per ambire ad essere un colosso nazionale come Berlusconi e gli Agnelli. Figura tragica di un idealtipico tragitto all’italiana: soldi, calcio, apparizioni in politica, guai giudiziari, gossip, televisioni, droga e infine declino muto e inesorabile.

“La Fiorentina? Dico subito che non la vendo, piuttosto la disintegro con le mie mani. La comprò il mi’ babbo, è un fatto affettivo e, adesso, anche economico.”

Di Cecchi Gori si è detto tutto e il contrario di tutto. Anche oggi, a Firenze, l’uomo Vittorio è succube di una sindrome da giudizio schizofrenica: mai manichea. 50 sfumature di Vittorio, se si può passare la citazione ultra-pop. C’è chi lo ricorda ancora con nostalgia, c’è chi lo rincorrerebbe lungo i viali di Campo di Marte, c’è chi, infine, gli vorrebbe semplicemente chiedere com’è possibile incenerire un enorme patrimonio sportivo ed economico nel soffio di pochi anni. E c’è chi, come il sottoscritto, vuole ricordarlo con cinque sparate celebri che ne tratteggiano la personalità in ogni sfaccettatura. O quasi.

“Batistuta è incedibile”

16 maggio 1998. Ultima giornata di campionato in scena all’Artemio Franchi, di fronte Fiorentina e Milan. La partita termina 2-0 in favore dei Viola, sancendo definitivamente l’accesso alla Coppa Uefa per la squadra di Malesani, vera sorpresa del campionato. Lo stesso tecnico veneto, però, ha il destino segnato. La spada di Damocle di Vittorio si è abbattuta su di lui: dopo averlo scovato e trascinato in serie A, Cecchi Gori non instaura un buon feeling con il burbero tecnico veneto, idolo della curva Fiesole fin dalla prima giornata.

In questo scenario da improvvisi addii e felicità per un’Europa agognata e raggiunta, la preoccupazione del Presidente è rivolta verso l’umore della piazza. Gabriel Omar Batistuta è l’icona di Firenze: gli hanno dedicato una statua e con lui ogni impresa sportiva appare alla portata. Insomma, Batigol è Firenze. E viceversa. Un gioco speculare che rischia seriamente d’interrompersi, grazie alle malcelate dichiarazioni del cannoniere argentino: ogni estate chiede rassicurazioni sulla competitività ad altissimo livello della squadra e ogni estate Cecchi Gori gli risponde d’istinto, piccato. Fino al coup de theâtre di quel 16 maggio.

credits: old.fiorentina.it

È il tipico show da avanspettacolo à-la Cecchi Gori: uno striscione di 4 metri campeggia in tribuna d’onore, affisso su quella balaustra divenuta celebre per le forsennate esultanze del Presidente, e recita: Batistuta è incedibile. Firmato, il Presidente. Due estati dopo Vittorio lo cederà a peso d’oro alla Roma di Sensi, costretto dall’asfissia economica in cui aveva fatto scivolare la sua stessa creatura. In un’infinita telenovela dal sapore sud-americano; una di quelle soap-opera fatte di tira e molla, dichiarazioni e smentite, colpi di scena improbabili, lacrime e rimpianti. E, in questo caso, uno striscione cult.

Marcio Santos & Sharon Stone

Mondiali di USA ’94: a Pasadena trionfa il Brasile ai rigori. Una squadra quadrata e aggressiva, organizzata e dall’attitudine operaia, che ha messo in mostra più muscoli e pressing che talento carioca e fantasia. Escludendo l’estro letale di Romario e Bebeto, quello di Parreira è un Brasile atipico. Buona parte dei verdeoro si conquistano così una vetrina eccezionale che farà da trampolino di lancio per le loro carriere. In questa squadra muscolare, Cecchi Gori rimane folgorato da un difensore centrale mulatto dal fisico slanciato e dal mullet perennemente ingellato: Marcio Santos.

Vittorio non bada a spese: dà carta bianca al ds Oreste Cinquini per l’acquisto del difensore centrale dal Bordeaux: 6 miliardi di lire e Marcio sbarca a Firenze con le stimmate di campione del mondo e pilastro difensivo per la linea a 4 di Claudio Ranieri. Ma nella concezione del Presidente lo show del campione brasiliano in riva all’Arno doveva essere qualcosa di pirotecnico, vistoso. Così Cecchi Gori chiama a raccolta la stampa locale e piazza il virgolettato da titolo a nove colonne: “Se Marcio Santos arriverà a 7 gol, gli farò conoscere Sharon Stone. E gli pagherò pure la cena. Parola mia. Inserendo un bonus nel contratto del brasiliano che non avrà eguali nella storia del calciomercato.

Marcio Santos da San Paolo, oltre che difensore ricco di evidenti limiti tecnico-tattici, era un fan della prima ora del magnetico e sensuale fascino della diva americana. Probabilmente stordito dalla celebre accavallata di gambe filmata appena due anni prima da Paul Verhoeven in Basic Instinct.

Risultato finale? Marcio, nomen omen, si rivela centrale complessivamente inadatto e a tratti imbarazzante per un campionato di altissimo livello come quello italiano, riuscendo ad inanellare due gol leggendari. Nella propria porta. Verrà ceduto a prezzo di saldo, da Cecchi Gori in persona, all’Ajax a fine stagione. Con buona pace di Sharon Stone.

L’autogol capolavoro di Marcio Santos a Bari. Uno dei più incredibili degli ultimi 25 anni di Serie A.

Per un pugno di zafferano

È l’alba della fine dell’impero cecchigoriano, un’epoca crepuscolare. Di quelle dove può succedere di tutto quando i pezzi di un potere economico e mediatico vanno in frantumi e non resta che cercare una via d’uscita dignitosa da un periodo che riecheggia d’abisso. È il 2001 e la Fiorentina ha appena conquistato la Coppa Italia contro il Parma di Tanzi, ma si appresta a vivere l’anno più buio della sua storia.

Un copione fatto di smobilitazioni di massa, messe in mora, debiti insoluti e fallimento societario alle porte. Il timone è costantemente in mano a Cecchi Gori, che ormai strepita in stato confusionale su obiettivi gloriosi da raggiungere e tesi di complotto (forse) non del tutto infondate. È una di quelle notti estive accarezzate dal vento quando la Guardia di Finanza fa irruzione nei meravigliosi interni in marmo di Palazzo Borghese, residenza romana di Vittorio. Segue una scena che danza in bilico fra leggenda metropolitana e gossip da tabloid: Cecchi Gori viene sorpreso con la compagna, la formosa starlette Valeria Marini, intento in attività a luci rosse non ben specificate.

Nel blitz viene aperta una cassaforte dove, secondo le prime voci incontrollate riportate a mezzo stampa – e mai confermate, ndr – vengono scovati 9 chili di cocaina.

Vittorio non ci sta. Prima grida al complotto: “Quella non è roba mia, è stata messa qua dentro”. In seguito chiarirà l’equivoco davanti a taccuini e telecamere, accorsi alla ricerca di uno scoop fin troppo facile: “Cocaina? L’unica droga che conosco io è lo zafferano”. Una boutade grottesca, un dichiarazione d’istinto che gli si attaccherà addosso e lo farà ricordare ad libitum.

Quel fax da Bogotà

È l’estate del 2002. Mezza Firenze è in piazza attaccata – con passione mista a disperazione – a tv e radio che aggiornano con le news più incontrollate lo scenario da fuggi-fuggi venutosi a creare intorno alla società. Insomma, l’impero Cecchi Gori è un ricordo sbiadito da ancien régime e la chioma fluente di Batistuta una lontanissima immagine da custodire come un santino.

Il baratro pare infinito: si balla sull’orlo del fallimento per 22 milioni di euro di debiti pregressi dalla Fiorentina verso la società che fa capo allo stesso Cecchi Gori o sulla possibilità che gli stipendi e i costi dell’iscrizione al successivo campionato di Serie B siano sostenibili. Un miraggio. Nello psicodramma collettivo che attanaglia da settimane una città sull’orlo di una crisi di nervi, il termine ultimo è arrivato: serie B o fallimento con ripartenza dalla serie C2. Cecchi Gori, al solito, non si dà per sconfitto. Almeno pubblicamente.

È il 30 luglio e la scena è irreale: un numeroso gruppo di tifosi e appassionati si accalca sotto la sede societaria, in attesa di un ineffabile fax in arrivo dalla Colombia. O almeno, così ha assicurato Vittorio, dichiarando pubblicamente il reperimento di una liquidità sufficiente a garantire lo svolgimento dell’ormai prossimo campionato in serie cadetta. Questione di ore.

Questione di fusi orari. Perché la Fiorentina, nel delirio finale di Cecchi Gori, avrebbe dovuto salvarsi grazie ad un bonifico internazionale partito da una non meglio precisata banca colombiana con sede a Bogotà. L’annuncio fa il giro dei media e i tifosi viola – dopo fiaccolate, manifestazioni e striscioni appesi in tutta la città – cingono d’assedio la sede in attesa dell’ufficialità, o meglio della redenzione finale. Che, ovviamente, non arriva.

La realtà non fa sconti. Come nelle partite a poker: più alto il bluff, più fragorosa la caduta. Vittorio ha sparato l’ultima millanteria davanti ad un destino segnato. Forse per troppa vergogna, o per troppo amore. Tant’è: fallimento, serie C2 e fuga del Presidente. Senza passare da Bogotà.

La B-zona di Radice da Aldo Biscardi

È il gennaio del 1993 e la Fiorentina, fino alla sosta natalizia, è stata la vera sorpresa del campionato. Secondo posto con un gioco sfrontato e votato al pressing offensivo, marchio di fabbrica del mister Gigi Radice. Il ritorno dalla sosta, però, coincide con un capitombolo inatteso: sconfitta interna per 0-1 contro una modesta Atalanta.

Ed è in questa occasione che si consuma il dramma farsesco da cliché del calcio italiano anni ’90. Cecchi Gori, allora vice-presidente col padre Mario in pessime condizioni di salute, imbocca il tunnel degli spogliatoi del Franchi e si scaglia su Radice. Reo, a suo avviso, della sconfitta perché avrebbe schierato: “una squadra mascherata da una difesa a zona”.

La scena è tragicomica: un duello rusticano che vede l’allenatore soccombere sotto l’irruenza verbale del plenipotenziario vice-presidente. Appena uscito dagli spogliatoi, Radice affronta la stampa e dichiara senza troppi giri di parole di essere stato accantonato da Cecchi Gori in persona. Vittorio non si fa pregare e, paonazzo e sudato, ribadisce la sua decisione in quanto Radice: “Con questo gioco ci avrebbe portato tutti in B.

Viene in mente la celebre B-zona di banfiana memoria. Ma questo non è un film, tanto meno una commedia. La maschera tragica, che in tutta la vita di Cecchi Gori ricorre, stavolta è camuffata da quella dello stereotipo del presidente sanguigno e un po’ pazzo che non manda giù una sconfitta davanti al proprio pubblico. Inscenando un esonero in due giri di lancette d’orologio, per poi concludere l’opera il giorno dopo, a mente fredda, in diretta tv.

Va da Aldo Biscardi, nel pantheon di quell’Italia pallonara pronta a perdonare ogni scempio trasmesso via etere. È dal Processo del Lunedì che Vittorio lancia la sua personalissima fatwa contro tutto e tutti, trascinando dentro anche la salute fisica del padre e lo stress accumulato nell’ultimo periodo. È un j’accuse bilioso e a tratti disconnesso che batte spesso l’accento sui costi sostenuti per la squadra e per l’allenatore. Insomma, Vittorio tracima in diretta tv. Non si controlla, come spesso gli capita quando di mezzo c’è la sua Fiorentina.

Vittorio Cecchi Gori al Processo di BiscardiVittorio Cecchi Gori al Processo di Biscardi il giorno del licenziamento di Gigi Radice

Pubblicato da il calcio al tempo di Antognoni

Alla fine della stagione 1992/93, la Fiorentina retrocederà in serie B nonostante un’ottima rosa. Un patrimonio tecnico che Vittorio blinderà anche in serie cadetta, affrontando un campionato di B con giocatori del calibro di Effenberg, Flachi, Batistuta, Toldo e Baiano. Perché anche questo era Vittorio Cecchi Gori.

Presidente matto e figlio viziato, icona del tutto e subito; personalità senza filtri, pasionario sfrenato e irrazionale, padre padrone che pretende, e infine figura tragica dalla solitudine incolmabile.

“Il mio unico cruccio è stato quello di avere un figliolo bischero.” (Mario Cecchi Gori).