La Top 3 delle Africane ai Mondiali

Africa Mon Amour: la Top 3 delle cavalcate africane ai Mondiali

Qui in Camerun, il calcio è il nostro primo partito politico. È il football che ci unisce e che ci porta cose buone. Il calcio è la nostra finestra sul Mondo.

Sono parole che non valgono solo per i leoni camerunensi di Roger Milla. Hanno un valore universale, e quindi valgono anche per tutta l’Africa. Un continente disgraziato che, in diverse occasioni calcistiche, ha dimostrato grande voglia di riscatto e si è fatto conoscere al mondo.

Per questo ripartiamo dalla Storia dei Mondiali, una storia che affascina miliardi di persone, le cui gesta memorabili rimangono impresse per anni nella testa di ogni appassionato. I Mondiali di calcio sono da sempre l’evento sportivo più atteso.

Ogni bambino o grande che sia, aspetta con ansia le partite della propria nazionale e tutto ad un tratto, anche i più scettici, per un mese diventano patriottici e sono pronti a pitturarsi la faccia con i colori del proprio paese. Figuriamoci cosa può succedere tra Corno d’Africa e dintorni.

Oggi infatti vogliamo parlare di tre storie in particolare, a ritroso nel tempo, e partendo da Ovest e proseguendo geograficamente verso Est, in un ipotetico viaggio tra spazio e tempo. Tre storie accomunate da una terra che, fino a poco tempo fa, col calcio aveva poco a che spartire. Oggi parliamo dell’Africa e delle splendide cavalcate che hanno fatto conoscere questo continente sul palcoscenico calcistico internazionale.

Chi non ha fatto il tifo a più riprese per la nazionale africana del momento scagli la prima pietra, direbbe qualcuno. Noi di Zona Cesarini abbiamo voluto immortalare le più significative. Quelle di cui non ci scorderemo mai. Eccole servite.

Corea 2002. L’exploit de “Les Lions de la Teranga” e del CT Bruno Metsu

Non avevamo bisogno di un poliziotto, bensì di uno come noi. Di uno che desse consigli, non ordini. Qualcuno che ci sapesse motivare.” (El Hadji Diouf)

La nazionale del Senegal è chiamata così: Leoni della Teranga. Che vuol dire ospitalità. È infatti lo stato africano più famoso in quanto a disponibilità verso gli stranieri. Molto ospitali fuori quanto assetati di sangue in campo. Siamo nel 2002: Corea e Giappone. Quello senegalese è un collettivo straordinario, guidato dal Mister Bruno Metsu, il capellone di Calais, che purtroppo ci ha lasciato a causa di un inguaribile cancro al pancreas.

Quello del Senegal è un nuovo messaggio di speranza, verso coloro che pensano ancora che si possa prendere a calci un pallone al grido di allegria, gioia e passione. L’effetto prodotto è dei migliori. E se ne vadano al diavolo acume tattico e pressing alto. E per una Nigeria che chiude ultima con un solo punto il gironcino eliminatorio, ecco che quest’altra squadra africana desta stupore e fa il miracolo, come lo fecero 12 anni prima i cugini camerunensi.

L’artefice di questo collettivo ben riuscito è il CT francese, proveniente dall’esperienza in Guinea. Lui si definisce come “un bianco dal cuore da nero”, cosa chiedere di più? Le esperienze in terra natia non sono certo di livello, vedi Sedan e Valenciennes, ma nel cuore di Dakar dà il meglio di sé.

Capisce che il dialogo con i club che foraggiano i giocatori è fondamentale poiché si erano stancati di mandare i loro “diamanti neri” in giro per l’Africa. Ecco così che il buon Bruno, con una buona dose di ruffianeria, impara subito  che con certi soggetti è meglio fare l’amico e il compagnone anziché il CT di ferro.

Si parte per il Mondiale con alle spalle una Coppa d’Africa persa per un pelo ai rigori contro il Camerun di Patrick M’boma. Hotel sempre aperto a mogli e parenti ed atmosfera da “sagra dell’antilope“. Autogestione dello spogliatoio, sempre sotto l’occhio del demiurgo Metsu che cerca così di responsabilizzare gli stravaganti fenomeni del gruppo.

Già, perchè la rosa è composta da primedonne e atleti da 0 in condotta in quanto a comportamenti professionali. È la nazionale di El Hadji Diouf, Fadiga, Bouba Diop e Camara. Il primo di questi è la stella assoluta. Idolo incostratato in patria, al Mondiale rientrava in albergo alle 4 di mattina. Adesso gioca in Mali, dopo esperienze altalenanti in Gran Bretagna, su tutte quella al Liverpool, iniziata subito dopo l’effetto euforico dei Mondiali di Corea.

La partita che verrà ricordata di più in quella edizione dei Mondiali è certamente quella contro la Francia, la prima assoluta contro i campioni in carica. Bouba Diop è il nuovo Oman-Biyik: 0-1. Come il Camerun contro l’Argentina di Maradona & Co., con buona pace dei transalpini sconfitti da un proprio connazionale seduto nella panchina sbagliata.

La cavalcata prosegue spedita con 5 punti alla fine del girone e un paese in festa continua. I tifosi presenti in Asia preparano da mangiare, suonano i tamburi per tutti i “giocatori ballerini“. Si vive tutti assieme, perfino i giornalisti spediti dal Presidente della Repubblica a raccontare le gesta calcistiche, stanno con i calciatori.

Si va agli Ottavi di Finale e la Svezia di Ibrahimovic capitola. Finisce 2-1 per i leoni senegalesi che ai tempi supplementari, grazie ad un’altra zampata di Camara, stendono gli scandinavi e raggiungono lo storico traguardo dei quarti.

Potrebbe essere la prima squadra africana ad entrare in semifinale, ma il sogno svanisce contro una Turchia non così irresistibile. La classica buccia di banana su cui cadono i nostri eroi, per la serie all’improvviso uno sconosciuto: Ilhan Mansiz. L’attaccante turco di riserva entra e segna il golden goal. Si torna a casa.

Il sogno si spezza e la ferita rimane aperta per molti anni. Tant’è che da quella volta il Senegal non è più riuscito a qualificarsi per un mondiale.

Aspettiamo fiduciosi.

USA ’94. Le Aquile nigeriane planano sugli Stati Uniti

“Giocavamo con qualsiasi cosa, qualsiasi cosa vagamente rotonda. Poi quando abbiamo visto per la prima volta un pallone, beh, è stato fantastico”.

Parola di Jay Jay Okocha. Ci rituffiamo a capofitto in un’altra storia che parte dalla polvere e dal traffico caotico di Lagos e dintorni. Rispetto al Senegal, qui si parla inglese perchè la Regina d’Inghilterra venne a colonizzare gli indigeni, e siamo anche un po’ più ad Est, si confina proprio con i leoni camerunensi di cui parleremo dopo.

Poco sopra il Golfo di Guinea c’è la Nigeria, settimo paese più popoloso del mondo e con gravi problemi  di criminalità organizzata e disastri ad alto impatto ambientale per colpa del “Dio Petrolio“. Ecco che il calcio anche qui è la cartina al tornasole dell’istinto di un popolo che cerca una vendetta sportiva sulle tante disgrazie e calamità natural-sociali.

Aquile verdi o super aquile, chiamatele come vi pare, fatto che sta che nel 1994, la Nigeria si qualifica per la prima volta ai Mondiali di calcio, ed è subito calcio spettacolo. È la Nazionale dei vari Finidi, Oliseh, Okocha, Amunike,  Amokachi e Yekini. Stelle in patria che diventano star internazionali. Ragazzi che non superano i 25 anni d’età, almeno a quanto dicono le carte d’identità. Ma non vogliamo certo stare a questionare sull’efficienza dei punti anagrafici decentrati di Abuja.

La Nigeria si ferma agli ottavi ma nonostante questo, tutti ricorderanno i ragazzi terribili guidati dal CT Clemens Westerhof, che li ha presi per mano nell’89 e li ha portati a vincere una Coppa d’Africa nel 1994, prima di atterrare in America. È proprio dai risultati nella Coppa continentale che si capisce come andranno i Mondiali per le squadre africane qualificate.

I pronostici vengono abbondantemente rispettati e i ghepardi biancoverdi partono fortissimo. Giovani ventenni dalla tecnica cristallina e dalla velocità da centometristi professionisti. La difesa non è il massimo ma ci sta, ci si affida all’eclettismo fisico di Oliseh, alle giocate dell’ala destra Finidi, all’estro naturale di Okocha e alla concretezza offensiva di Amunike.

La Nigeria nel girone deve affrontare Bulgaria, Grecia ed Argentina. La prima partita è proprio contri bulgari guidati da Hristo Stoichkov, altra squadra rivelazione del torneo e che arriverà addirittura in semifinale. Le premesse sono esaltanti. Le aquile africane schiantano Stoichkov & Co. con un sonoro 3-0. Con l’Argentina va un po’ peggio, ma la sconfitta è solo di misura: 2-1 per l’Albiceleste. Ultima partita del girone. Si presenta la Grecia, e puntualmente viene bastonata con un secco 2-0.

Si comincia a parlare di questi giovani virgulti seriamente. Un altro spauracchio mondiale potrebbe mettere alle corde le più blasonate nazionali. Amokachi e Yekini mettono a frutto il gioco collettivo con una fame mai vista.

Siamo agli Ottavi di finale. Non si può più sbagliare. La sorte vuole che la Nigeria incontri l’Italia a Boston, il 5 Luglio 1994. La nazionale azzurra fino a quel momento non aveva certo brillato, si prospetta quindi un match durissimo. Bruno Pizzul è pronto a commentare una partita che rimarrà nella memoria di tutti gli sportivi.

La Nigeria come sempre gioca senza timori reverenziali e passa in vantaggio con Amunike al 26°, dopo un errore di Maldini su un calcio d’angolo avversario. L’attaccante anticipa Marchegiani e fa l’1-0. L’Italia prova a ripartire sfruttando la fascia specialmente con Benarrivo, ma il risultato non si sblocca. Si va al secondo tempo.

Le lancette continuano a scorrere e tranne che per una girata al volo pericolosa di Dino Baggio, la Nigeria sembra poter raggiungere i quarti di finale, bissando il miracolo camerunense di 4 anni prima. Invece da lì succede l’impossibile.

Il neoentrato Zola viene espulso al 74°. L’arbritro vede un fallo di reazione che invece non c’è. Italia in 10. Manca poco più di un quarto d’ora alla fine della partita, e quando tutto sembra finito e tutta Lagos è incollata allo schermo pronta ad esultare, arriva Roberto Baggio che all’88° pennella un piattone che batte l’incolpevole Rufai. Tempi supplementari.

Da lì la storia la conoscete tutti. Baggio sale in cattedra e con un pallonetto serve Benarrivo in area che viene steso. Calcio di rigore e trasformazione. L’Italia va sul 2-1. La partita finisce così, con un’Italia sulle gambe ma vittoriosa.

La Nigeria ci prova fino alla fine ma non c’è niente da fare, sembra che ancora una volta l’Africa si debba fermare sul più bello. I campioni di quella squadra proveranno a fare faville in Europa e anche in Italia, infatti, Sunday Oliseh verrà acquistato dalla Reggiana. Ma i successi personali non potranno mai essere pari a quella splendida avventura finita col groppo in gola e l’amaro in bocca.

I nigeriani ci riprovano nel 1998 e riescono ad arrivare sempre agli Ottavi di Finale, ma stavolta sarà la Danimarca a dare il benservito agli africani. Successivamente le Aquile Verdi cambiano il telaio della squadra perché le stelle del ’94, ormai over 30, hanno smesso di brillare. Le luci sulla Nigeria si affievoliscono e la nuova generazione di campioni non sarà in grado di fare lo stesso.

Italia ’90. Il ruggito di Roger Milla

La differenza tra le altre squadre africane e noi è la nostra mentalità e lo spirito di combattenti che abita in noi, lo stesso del nostro simbolo, il leone.

Le notti magiche si colorano di giallo, rosso e verde. Sono i colori della squadra del Camerun giunta a questi mondiali come comparsa e diventata protagonista assoluta grazie alle reti del Leone per eccellenza, il cannoniere di Yaoundè: Roger Milla. Il vero alter ego di Totò Schillaci, re indiscusso dei Mondiali ’90.

Argentina – Camerun allo Stadio San Siro: 0-1. Gol di Oman Biyik. Prima partita del Mondiale italiano e subito le luci della ribalta si accendono sul Camerun. Colpo di testa dell’attaccante africano e Pumpido battuto. La favorita di Italia ’90 esce subito sconfitta e la gente comincia a chiedersi chi sono questi leoncini partiti fortissimo.

Nell’estate del 1990 avevo 6 anni. I primi mondiali incollato davanti alla televisione, per di più in Italia. Le Notti Magiche, i gol di Totò Schillaci, il pianto di Maradona e il Camerun, la prima squadra per cui ho fatto il tifo, escluso la nazionale italiana.

Nel ritiro in Jugoslavia avevano addirittura perso 4 a 2 contro una rappresentativa giovanile locale. Prima della partita, il portiere della formazione africana Bell, aveva detto peste e corna sulla propria federazione ritenendo inadeguata l’organizzazione della trasferta italiana. La risposta del tecnico russo Nepomniachi non si fa attendere: Bell in tribuna, Thomas N’Kono titolare come nel 1982. Il portiere che diventerà l’idolo indiscusso di un certo Gianluigi Buffon e che chiamerà il figlio come lui.

Il biglietto per l’Italia, il Camerun lo aveva ottenuto il 19 Novembre del 1989, vincendo 1-0 in Tunisia e bissando il successo di un mese prima, 2 a 0 a Yaoundè. Quello del Camerun non è un nome nuovo, già presente al Mondiale di Spagna 1982, dove gli africani si erano guadagnati l’appellativo di Leoni Indomabili, grazie a tre pareggi contro Perù, Polonia ed Italia, diventando la prima squadra africana ad uscire imbattuta da un mondiale.

Il Camerum comunque arriva in Italia sottotraccia.  Un premondiale deludente, un dietologo di 120 kili al seguito e un malcontento che stava montando nei confronti dell’allenatore: Valeri Nepomniachi. Sovietico di Slavgorod, sbarca in Africa nel 1988, probabilmente figlio dei buoni rapporti tra Mosca e Yaoundè.

Nepomniachi però non è tanto ben voluto dai suoi giocatori, tanto che a dare le disposizioni è il vice Jean Manga Onguene. Dopo il debutto vincente ai danni di Maradona e soci, il gruppo però si cementa e il ct sovietico comincia a credere di poter realizzare qualcosa di grande, sostenendo che il Camerun avrebbe fatto meglio del Mondiale ‘82.

Il 14 Giugno 1990, al San Nicola di Bari, lo stadio cattedrale voluto da Tonino Matarrese, il Camerun affronta la Romania di Hagi, il Maradona dei Carpazi. Dopo 58 minuti insiginificanti la svolta, con l’ingresso di Roger Milla, il 9 sulle spalle e 38 anni suonati sulla carta d’identità. Bastano venti minuti e schianta la Romania con una doppietta. Per esultare Milla balla a ritmo di Makossa davanti alla bandierina, un’immagine che entrerà nell’immaginario collettivo pallonaro.

Il Camerun diventa così la prima africana della storia a superare il primo turno vincendo il proprio girone. C’è da affrontare la Colombia di Renè Higuita e Carlos Valderrama, terzi nel girone di Germania e Jugoslavia, qualificatisi grazie alla rete in zona cesarini di Freddy Rincon ai danni dei teutonici.

Milla riparte dalla panchina e Nepomniachi lo fa entrare solo a inizio ripresa. I tempi regolamentari finiscono a reti bianche, si va ai  supplementari. Al minuto 106, i 50 mila del San Paolo di Napoli assistono ad un nuovo capolavoro del bomber di Yaoundé, che batte l’incolpevole Higuita. Ed è di nuovo Makossa dance.

Passano due minuti e stavolta Higuita la combina grossa. Riceve un passaggio all’indietro e il portiere di Medellin prova a dribblare proprio Milla. Scelta sbagliata. Roger ruba la palla, se ne va in solitaria con Higuita che prova ad inseguirlo senza fortuna. La partita finisce per 2-1 ed è la consacrazione di quest’attaccante, che alla soglia dei 40 anni, a quel Mondiale non ci doveva neanche andare.

Albert Roger Mooh Miller – diventato Milla per un errore all’anagrafe – nasce nella capitale Yaoundè nel 1952, è figlio di un ferroviere e in famiglia ci sono 11 fratelli. Comincia la sua carriera in Camerun e nel ’76 viene eletto miglior giocatore africano e l’anno dopo parte per l’Europa, in Francia. Girovaga tra Monaco, Bastia, Saint-Etienne e Montpellier, senza particolare successo, tanto che l’anno del Mondiale va a giocare nella sconosciuta Saint-Pierroise.

La favola però non finisce qui. Ci sono i quarti di finale e il Camerun vuole dire la sua, senza paura, contro l’Inghilterra di Bobby Robson in un San Paolo gremito in ogni ordine di posto. Tutti tifano per i leoni indomabili che sono diventati la squadra mascotte del Campionato del Mondo.

A metà del primo tempo David Platt trova il gol che sembra porre fine alla favola Camerun. Al rientro in campo, Nepomniachi sostituisce Maboang con Milla e la musica sembra cambiare. Roger guadagna un calcio di rigore per un fallo di Gazza Gascoigne e Kunde trasforma. Passa qualche minuto e Milla serve d’esterno il compagno Ekeke, che infila Shilton. Situazione ribaltata, però, a meno di 10 minuti dalla fine, Lineker segna un altro rigore che porta le due squadre ai supplementari.

Ma non è finita qui. Un altro calcio dagli 11 metri manda una squadra africana a casa. Gary Lineker non sbaglia e il sogno si spezza sul più bello. Nonostante questo, i giocatori scambiano le magliette e fanno il giro d’onore dello stadio San Paolo come se avessero vinto. Alla fine domati, ma solamente da due calci di rigore. Roger Milla lascerà il calcio a 44 anni, festeggiando l’addio a Yaoundé davanti a 100.000 persone assiepate allo stadio.

Il Camerun del 1990 non è solamente la squadra africana che è arrivata per prima ai quarti di finale, ma è la prima che è riuscita ad abbattere le barriere che relegavano il calcio del continente nero ad un ruolo da comprimario. Un ruggito ormai lontano nel tempo ma che continua ancora oggi ad ispirare le giovani nazionali africane che sognano ancora una volta d’arrivare alle fasi finali di un mondiale. E di questo dobbiamo dargliene atto.