Essi Vivono. Fenomenologia dell'Ancona di Jardel - Zona Cesarini
credits: Ross Kinnaird - Allsport

Essi Vivono. Fenomenologia dell’Ancona di Jardel

È il 9 gennaio 2004, ogni programma sportivo italiano che si rispetti manda in onda un servizio riguardo una conferenza stampa surreale: esercizio in bilico fra parodia e mossa della disperazione. Siamo ad Ancona, e alle pendici del Conero è appena sbarcato Mário Jardel: maglia numero 9, sciarpa biancorossa al collo, flash accecanti e rituale stretta di mano col presidente Ermanno Pieroni. È il punto di non ritorno.

Un passaggio tragicomico che ha segnato la memoria collettiva degli appassionati di calcio italiano. Eppure Mário Jardel è un bomber di fama internazionale, tanto efficace quanto privo di un significativo canone estetico. O meglio, Mário era tutto ciò. Arriva sulle rive dell’Adriatico – tra lo sbigottimento generale – per prendere parte a quella che verrà ricordata come la compagine più scarsa degli ultimi 15 anni di Serie A.

Un’accozzaglia senza costrutto di calciatori, accumulati da un Presidente-faccendiero quantomai oscuro. E Mário Jardel si afferma come punta di diamante di questo processo involutivo: una metamorfosi kafkiana al retrogusto di incubo farsesco. Un Rocky Horror Show pallonaro in scena sul litorale adriatico.

Il Nostro, infatti, approda ad Ancona con circa 7-8 chili di troppo sul girovita e pare già in imbarazzo alla presentazione ufficiale. Poi, una volta calcato il campo, gli viene lanciato un pallone: suda, concedendo dodici secondi netti di palleggi. È un’immagine devastante. Soprattutto pensando a quel bomber che aveva steso il Real Madrid con una doppietta in Supercoppa Europea pochissimi anni prima e che si era laureato per due volte capocannoniere della Champions League.

Mário crede comunque nei suoi mezzi, almeno a parole, e forse anche per facilitare un ambientamento tutt’altro che semplice, lasciandosi andare a virgolettati che diverranno cult di lì a pochi mesi.

«Ci è voluto del tempo, ma questa volta l’Italia l’ho presa e non la mollo più.» (M. Jardel)

Sostanzialmente, Jardel ha un enorme problema che si chiama forma fisica. Perché il bomber brasiliano è l’ombra del finalizzatore ammirato in giro per l’Europa, quello con la media reti più alta di Ronaldo, Shearer e Batistuta. Pur avendo giocato in campionati non propriamente eccelsi – Portogallo e Turchia – ha comunque dalla sua uno score quasi incredibile per un centravanti: la media gol si avvicina allo 0,8 a partita.

Statistiche alla mano, nessuno a cavallo del nuovo millennio ha fatto meglio di lui in Europa. Ma, come accennato, quello che atterra sul litorale adriatico è un altro calciatore. Anzi, un altro uomo.

Una personalità distrutta sia nel fisico che nella psiche, dipendente dalla cocaina – come lo stesso Jardel confesserà in più interviste future – e che soprattutto deve gestire una tumultuosissima relazione sentimentale che lo corrode fino a farlo implodere psicologicamente. Una Guerra dei Roses che lo logora nel fisico e nell’animo.

Oltre a questo quadro a tinte fosche, accadono episodi che sfiorano il caricaturale. Alla prima partita in casa Jardel va a salutare i tifosi, ma sono quelli del Perugia. Uno scambio cromatico che gli costa fischi e insulti che soltanto compagni e addetti al campo gli evitano, strattonandolo a forza verso l’altra curva, quella giusta. Quella dei tifosi dell’Ancona, rimasti attoniti davanti al siparietto tragicomico.

L’epopea calcistica di Mário in maglia bianco-rossa comincia a San Siro, ed è un eloquente 5-0 in favore del Milan. Durerà in tutto tre mesi scarsi, portando a referto quattro malinconiche presenze condite, manco a dirlo, da zero reti. Uno spettro degno della penna nera di Edgar Allan Poe.

«Devo perdere almeno tre chili per andare in forma, lo farò sicuramente durante la prossima settimana.»

In questo scenario apocalittico da zombie-movie, il numero 9 brasiliano si mette a disposizione di una squadra che probabilmente non ha precedenti nel panorama italiano. È un hellzapoppin’ che ricorda i primi film di Woody Allen; quelli che ti fanno ridere a crepapelle tenendo, però, costantemente in superficie una sottile linea di amarezza e nostalgia. In quella rosa irripetibile troviamo di tutto. Il vaso di Pandora di Ermanno Pieroni è materiale da museo horror del calcio.

Anzitutto, l’ottovolante degli allenatori alla guida del team marchigiano. Inizia Leonardo Menichini; poi subentra il Caronte per eccellenza delle salvezze all’ultimo respiro, Nedo Sonetti; infine chiude la stagione uno spaesato Giovanni Galeone, che incenerisce in cinque mesi quel soprannome costruito su stagioni di meraviglie a Pescara: il Profeta dell’Adriatico.

È un valzer decadente e triste. Una goffa sceneggiata all’italiana messa su da un Presidente che finirà in prigione con plurimi capi di accusa di lì a pochi mesi. Ma che ostenta una sicurezza irreale durante ogni uscita mediatica.

Grazie a questo calderone paradossale, assemblato con la precisione di uno shangai, l’Ancona diventa un vero fenomeno di culto. E scorrendo la rosa composta durante le due finestre di mercato probabilmente intuiamo il perché. Arriva a toccare la quota di 44 calciatori, con una quantità di difensori che basterebbe per costruire due squadre di vertice del campionato.

Nel roster marchigiano troviamo il guerriero Mauro Milanese, le meteore Bolic, Lombardi, Baccin e Daino; il capitano William Viali, insieme a vecchi mestieranti di categoria come Sartor, Sussi e Maltagliati. Insomma, un melting-pot che sa di meraviglia. Al contrario.

Inoltre, a centrocampo e in attacco scorgiamo nomi che messi tutti assieme regalano la perfetta istantanea del capolavoro di caos, prebende a procuratori e stato confusionale di Pieroni e società: Dino Baggio, Luis Helguera, Giampiero Maini, Eusebio Di Francesco, Roberto Goretti, Marko Perovic e, dulcis in fundo, Mads Jorgensen: il fratello che neppure Martin sapeva di avere.

Il reparto offensivo è forse ancor più folkloristico. Si susseguono: Mário Jardel, Dario Hübner, Cristian Bucchi, Paolo Poggi, Maurizio Ganz, Pasquale Luiso e Milan Rapajc.

In buona sostanza, ci troviamo davanti al riciclo estremo di una batteria di bomber di provincia che già da anni aveva dato il suo meglio. Una miscela letale di 35enni sul viale del tramonto ed ex bucanieri d’area di rigore, che, messi tutti assieme in un progetto non-sense, si avvicinano più ad un buen retiro con vista mare che a un reparto offensivo da salvezza.

E sarà proprio su queste fondamenta da avanspettacolo che l’Ancona 2003/04 rimarrà nella memoria di tutti come la nemesi della squadra costruita con raziocinio e programmazione. Inevitabilmente, la sua cavalcata verso l’abisso sarà pressoché inarrestabile.

Miete record su record ogni domenica: vince la prima partita in campionato il 10 aprile, quando ormai mancano cinque giornate alla fine; il miglior marcatore stagionale è Cristian Bucchi con 5 gol; blinda l’ultimo posto in classifica e la retrocessione in Serie B con due mesi e mezzo d’anticipo, e stabilisce il record di punteggio (minimo) in un singolo torneo di Serie A: 13 punti totali. Abisso calcistico tutt’oggi imbattuto. Materiale che fa storia.

Insomma, nell’ultimo lustro di splendore del sistema calcio nostrano, il team di Pieroni si dimostra un vero precursore. Nell’estate in cui l’Italia porta in finale di Champions League Juventus e Milan, all’ombra del Conero una squadra orribile entra nella storia del gioco a colpi di record, inchieste giudiziarie e sfottò diffusi, anticipando di qualche anno la decadenza di un sistema con le ore ormai contate.

Ma è proprio così che riesce a ritagliarsi un posto speciale nella memoria dei tifosi italiani: è la squadra che non vorremmo mai tifare o vedere, ma che custodiamo segretamente nel cassetto dei ricordi. Qualcosa che appartiene all’inconscio. Come un trauma infantile. O come gli scatti di Mário Jardel.