Fernando Redondo, el Taconazo di Madrid

Fernando Redondo, el Taconazo de Madrid

Nel cofanetto della Gazzetta dello Sport su Roberto Baggio, c’è una cosa che mi è rimasta impressa: il Divin Codino è a Barcellona, seduto in auto con i RayBan a specchio e un basco nero girato indietro alla Samuel L. Jackson in Jackie Brown. Sta andando alla Masia a trovare il suo amico Pep Guardiola e parlando di lui, dice:

“Esistono dei tempi di gioco e chi non ce li ha, non li avrà mai.

Guardandola da una certa prospettiva si può dire che il regista è stato l’antidivo del calcio. In campo si riconosceva subito: aveva il passo lento e malinconico, non entrava mai duro nei contrasti e aveva sempre bisogno di qualcuno accanto che corresse anche per lui. Era elegante nei modi, nella corsa e nel tocco. Insomma, si potrebbe definire come un personaggio d’altri tempi, come un divo del cinema muto dentro una pellicola in alta definizione. Infatti, non usa la voce per parlare, ma i piedi, collegati ad un cervello che vede la realtà e l’immaginazione nella stessa maniera. È l‘uomo con maggiori responsabilità, che ha in mano le chiavi non solo del centrocampo, ma dell’intero ritmo collettivo. È lui che detta i famosi tempi di gioco, che sa quando verticalizzare e quando rallentare, addormentando la partita. È emblematico il soprannome che ha coniato Francesco Repice per Andrea Pirlo: Von Karajan, ovvero il più grande direttore d’orchestra del dopoguerra.

Quello del regista puro è un ruolo in via d’estinzione. Gli ultimi grandissimi interpreti rimasti della vecchia scuola sono Pirlo, Xavi e Xabi Alonso, tutti e tre non più di primo pelo. Dopo di loro, il vuoto, e verranno rimpiazzati dai “centrocampisti moderni”, più predisposti alla pressione che all’illuminante lancio di quaranta metri sul piede del compagno di squadra in corsa. Ma uno dei primi e più iconici interpreti a portare la regia calcistica a un livello di perfezione kubrickiana, però, è stato un argentino. Si chiamava Fernando Redondo, el Principe de Madrid. Nato in una famiglia benestante di Buenos Aires, inizia a giocare nel Tallerés de Escalada, una squadra di calcio a cinque, dove fin da subito impara due cose che diventeranno i tratti indelebili della sua carriera: Fernando non guarda mai il pallone e quando deve toccarlo per impostare l’azione, lo accarezza sempre e solo con la suola degli scarpini. Anzi, dello scarpino sinistro, dato che il destro gli serve soltanto per mantenere l’equilibrio.

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Suo padre riesce a convincerlo a provare il calcio a undici e lo manda a fare un provino per l’Argentinos Juniors, che chiaramente lo ingaggia per il proprio settore giovanile senza pensarci un secondo. Lo fanno esordire in Primera Division a quindici anni e a diciotto lo aggregano definitivamente con i grandi, dove dopo una prima stagione di assestamento, diventa il volante titolare dei Bichos, mostrando una maturità irreale sotto tutti i punti di vista. Ogni azione passa dal suo sinistro che riesce a mandare negli spazi chiunque. Pensate che con le sue verticalizzazioni Oscar Dertycia, indimenticabile flop transitato un anno in quel di Firenze, riuscì a segnare venti gol in quarantuno partite. Redondo è pronto per guidare l’Argentina campione in carica, ai Mondiali di Italia ’90, ma si autoesclude dai 22 convocati di Carlos Bilardo per poter proseguire i suoi studi universitari in Economia e Commercio. Il che può sembrare assurdo tenendo conto che la maggior parte dei suoi colleghi sono dei Charles Manson di congiuntivi.

Quando uscì la notizia, scoppiò il caos. L’Argentina calcistica è divisa in due fazioni: da una parte ci sono i Bilardisti, votati a un calcio pratico e speculativo, e dall’altra i Menottisti che credono in un calcio armonico ed offensivo. La stampa gettò benzina sul fuoco, sostenendo che la decisione di Fernando era dovuta al non voler giocare per un allenatore che pensava soltanto a chiudere gli spazi e a ripartire velocemente. Maradona buttò il carico da undici, accusandolo di essere un bambino viziato. I due, pur stimandosi per quello che riuscivano a fare dentro il rettangolo verde, non si sono mai piaciuti a causa di un’estrazione sociale opposta: Diego è nato a Villa Fiorito, Fernando in una casa elegante sulle colline di Buenos Aires; Diego è andato a malapena a scuola, Fernando è uno studente universitario che ha sempre avuto ottimi voti; Diego ha iniziato a giocare per strada, Fernando sui verdi campetti di circoli esclusivi; Diego ha ostentato i suoi guadagni con cafonate di una certa rilevanza, Fernando passava il tempo libero leggendo Borges e García Márquez.

L’unica cosa che avevano in comune era l’Argentinos Juniors. Troppo poco per riuscire ad essere amici e non soltanto colleghi. Ad Italia ’90, l’Argentina arriva seconda, sconfitta dalla Germania con un rigore, inesistente, di Brehme nella finale più soporifera della storia dei Mondiali. Durante l’estate Redondo decide di attraversare l’Atlantico per confrontarsi con il calcio Europeo: firma con il Tenerife, piccola squadra delle Canarie che era riuscita a salvarsi ai play-out contro il Deportivo La Coruña dopo ben ventisette anni tra Segunda e Tercera Division. Le prime due stagioni non sono memorabili con un quattordicesimo e un tredicesimo posto. Fernando fa quello che gli riesce meglio, ovvero si posiziona nel cerchio di centrocampo e dirige i compagni che però, sinceramente, non sono un granché.

Redondo in azione con la maglia del Tenerife
Redondo in azione con la maglia del Tenerife.

Terminata la stagione 1991/92, l’allenatore Solari lascia la panchina dei Chicharreros. Al suo posto arriva Jorge Valdano – menottista – che con Maradona ha vinto i Mondiali in Messico nel 1986. Uno che ha sempre visto il calcio come un misto di romanticismo e poesia, con richiami letterari al realismo magico, dove se non hai una tecnica individuale oltre la perfezione, non puoi giocare in nessun ruolo. Dopo un solo allenamento con il pallone, il Poeta di Santa Fe capisce che quel meraviglioso centrocampista è la summa della sua filosofia. Pretende quindi che gli altri nove giocatori di movimento siano al suo totale servizio e per dargli ancor più libertà di pensiero, gli affianca i polmoni di Chano e del peruviano Del Solar.

La stagione del Tenerife è un miracolo. Juan Antonio Pizzi e Juan Enrique Estebaranz segnano a ripetizione, così come il loro cambio, proprio quel Dertycia, scaricato a calci dalla Fiorentina e diventato irriconoscibile a causa dell’alopecia. Il Tenerife arriva quinto e per la prima volta nella sua storia si qualifica per la Coppa Uefa. La stagione successiva, i Chicharreros perdono entrambi gli attaccanti, ceduti al Valencia e al Barcellona, e la nuova coppia titolare diventa Dertycia-Latorre, altro ex scarto viola. Valdano decide di puntare tutto sulle Coppe. In Uefa, dopo aver eliminato il più quotato Olympiakos nei sedicesimi, la corsa del Tenerife si ferma agli ottavi contro la Juventus di Trapattoni, mentre in Copa del Rey, il cammino termina in semifinale ad opera del Celta Vigo, poi sconfitto ai rigori contro il Saragozza. Redondo gioca una stagione a un livello ancora più alto rispetto alla precedente ed è pronto per il suo primo Mondiale.

 

 

Quel Redondo della prima metà dei ’90 aveva anche una grande forza nelle gambe, capace di conduzioni sinuose palla al piede che generavano superiorità numerica.

L’Argentina è la grande favorita di USA ’94 e detentrice della Copa América. Tra i convocati, oltre a Redondo, ci sono Batistuta, Balbo, Simeone, Caniggia, Sensini e soprattutto Diego Armando Maradona. In panchina, al posto di Bilardo, siede “El Coco” Basile – menottista – che all’esordio contro la Grecia mette subito in mostra tutto il potenziale offensivo della Selección schierando un winningeleviano 4-2-1-3: in porta c’è Islas, in difesa ci sono Chamot, Sensini, Ruggeri e Caceres, a centrocampo Simeone corre e Redondo imposta, Maradona fa quello che vuole e dove vuole e i tre in attacco chiamati a correre molto sono Caniggia, Batistuta e Balbo.

I Greci vengono spazzati via per 4-0 con tripletta di Batigol e una magia del Pibe de Oro, che festeggia la rete sfogando tutta la sua rabbia repressa verso la telecamera. L’azione è da far vedere in loop in tutte le scuole calcio del mondo: sei passaggi di prima tra Balbo, Redondo, Maradona e Caniggia con sinistro a giro sotto l’incrocio dei pali alla destra del pietrificato Minou. La seconda gara del girone è contro la Nigeria: l’Argentina soffre la velocità e la fisicità degli africani e va sotto per 1-0, gol di Siasia, ma una doppietta di Caniggia su altrettanti assist di Maradona ribalta il risultato. Finisce 2-1 per la Selección.

Insieme a Maradona a USA 94
Insieme a Maradona a USA ’94.

Il triplice fischio dell’arbitro Karlsson sarà l’inizio dell’incubo Albiceleste: Maradona viene sorteggiato per l’antidoping e trovato positivo all’efedrina. Scatta così l’immediata squalifica. La squadra senza il suo condottiero crolla di testa: pur già qualificata, perde per 2-0 l’ultima partita del girone contro la Bulgaria di Stoichkov e agli ottavi deve vedersela contro un altro Maradona. Non di Villa Fiorito, ma dei Carpazi: Gheorghe Hagi. Basile schiera un centrocampo a rombo, con Redondo vertice basso, Simeone e Basualdo ai lati ed Ariel Ortega come trequartista. La gara si mette subito male: Dumitrescu su punizione segna dopo nove minuti, Batistuta pareggia dagli undici metri al quindicesimo, ma è ancora Dumitrescu a portare in vantaggio i suoi su assist a dir poco geniale di Hagi. Nel secondo tempo Dumitrescu restituisce il favore al suo capitano che di destro segna in contropiede il gol del 3-1. Balbo accorcia le distanze ad un quarto d’ora dal novantesimo e l’assedio finale, per altro non troppo convinto, non produce niente. La Romania è ai quarti.

Il rientro in patria è un massacro mediatico. Sul banco degli imputati finiscono praticamente tutti tranne Batistuta, l’unico che con i suoi gol era riuscito ad onorare la maglia. Anche Redondo, pur avendo giocato divinamente, viene accusato di non avere la personalità per dirigere una squadra piena di campioni. L’occasione per smentire i giornalisti gliela concede Valdano, che durante il Mondiale americano è stato scelto dal Presidente Mendoza per rilanciare il Real Madrid dopo una stagione fallimentare: quarti in campionato e fuori agli ottavi di Coppa Uefa e Copa del Rey. Unica magra consolazione, la conquista della Supercoppa di Spagna. È un Real che sta vivendo una fase di transizione: non vince la Liga da cinque anni, una coppa europea da dieci ed ha assistito inerme all’avvento del Barcellona di Cruijff. 

Nell’universo incantato di Redondo tutto appare semplice, ineluttabile.

Inoltre, i tre leader, Chendo della difesa, Michel del centrocampo e Butragueño dell’attacco, hanno più di trent’anni. A Valdano viene data carta bianca e rifonda la squadra partendo proprio dall’acquisto del suo pupillo per cinque milioni di dollari. Insieme a Redondo arrivano Amavisca dal Valladolid, Miki Laudrup dal Barça, Quique Sánchez Flores dal Valencia, Santiago Cañizares dal Celta Vigo e viene promosso dal settore giovanile un ragazzotto diciassettenne di belle speranze che vede piuttosto bene la porta: Raúl Gonzalez Blanco. Il principio di Valdano è lo stesso di Tenerife: Redondo ha nel sinistro lo scettro del comando e gli altri nove devono assecondare i suoi ordini facilitandogli i compiti in impostazione. La stagione dei Blancos si rivela sontuosa: Zamorano segna ventotto gol in trentotto partite, Amavisca ne mette altri dieci e il giovane Raúl altri nove. È la rinascita.

Al primo anno, Valdano riesce a riportare la Liga nella capitale. Nella stagione successiva, però, qualcosa s’inceppa. Il Real non carbura e Valdano finisce sulla graticola, il nuovo istrionico presidente Lorenzo Sanz lo esonera nel girone di ritorno. La squadra finisce sesta, fuori da tutte le coppe europee: una vera umiliazione per il club più vincente della storia. Al suo posto arriva Fabio Capello e con lui un’altra rivoluzione. Vengono acquistati Illgner, Panucci, Roberto Carlos, Seedorf, Mijatovic e Suker. Don Fabio, però, è accolto con scetticismo dallo spogliatoio; nessuno mette in discussione le sue abilità di allenatore, ma a Madrid è stato dipinto come un dittatore senza un briciolo di umanità; pur non conoscendolo, è proprio Redondo il primo a schierarsi con il nuovo allenatore, riuscendo a convincere i compagni a fidarsi del tecnico friulano. L’alchimia tra di loro è paragonabile a quella tra Leone e Morricone.

Capello non lo toglie mai, neppure contro l’ultima in classifica, perché lo considera “tatticamente perfetto”, e ha ragione. C’è una cosa che balza agli occhi nel vederlo giocare: Redondo ha l’innata capacità di entrare e di uscire dal campo nello stesso modo, ovvero con i capelli perfettamente pettinati, senza neppure una goccia di sudore sulla fronte e con la divisa di gioco immacolata, il che è ancora più paradossale dato che il bianco, di solito, si sporca guardandolo. Tutto questo perché non solo riesce a vedere il gioco con almeno due giri di anticipo rispetto a chiunque quando è chiamato ad impostare l’azione, ma anche in fase di copertura sa già dove finirà il pallone grazie a una capacità di lettura irreale. Non ha bisogno di lanciarsi in scivolata per recuperarlo, molto difficilmente è chiamato ad affannose rincorse all’indietro. È impressionante notare come per novanta minuti sia sempre al posto giusto nel momento giusto. Redondo ripaga tutta la stima e la fiducia di Capello, portando il Real Madrid a vincere di nuovo la Liga, sua seconda personale, grazie anche ai 59 gol del nuovo tridente delle meraviglie Raúl-Mijatovic-Suker.

Sembra l’inizio di una lunga storia d’amore, ma dopo solo una stagione Don Fabio non resiste alle lusinghe di Galliani e torna al Milan. Al Real arriva il quarto allenatore in quattro anni: Jupp Heynckes. Il presidente Sanz rinforza ancora la rosa, comprando Karanka, Morientes, Karembeu e Savio e chiede al tedesco di concentrarsi sulla Coppa dalle grandi orecchie che manca in bacheca da 32 anni. Il Real supera il girone eliminatorio senza troppi problemi e ai quarti deve vedersela contro il Bayer Leverkusen. In Germania finisce 1-1, mentre il ritorno è una formalità: 2-0 al Bernabeu e semifinale contro i campioni in carica del Borussia Dortmund. L’andata a Madrid è un altro 2-0 e lo 0-0 in Renania vale un biglietto per l’Amsterdam Arena. Il Real Madrid è all’ultimo atto e ad attenderlo c’è la Juventus di Marcello Lippi, alla terza finale consecutiva. Nei primi venti minuti i bianconeri partono a razzo: Zidane sembra in una di quelle serate dove vuole abusare di chiunque gli si presenti davanti, ma l’impeto juventino dura poco.

Redondo comincia ad accelerare i ritmi, Karembeu si francobolla al suo connazionale avversario provando a contenerlo e i due centrali difensivi Hierro-Sanchís prendono le misure ad Inzaghi e Del Piero, annullandoli dal campo. A metà secondo tempo, un innocuo cross di Roberto Carlos viene smorzato da Iuliano, il pallone finisce sui piedi di Mijatovic (in fuorigioco), che salta Peruzzi e segna a porta vuota. È la séptima dopo trentadue anni. Redondo ha vinto la sua prima Champions League un paio di mesi prima dell’inizio del mondiale francese, dove in teoria sarebbe una delle stelle più splendenti. Peccato che non venga convocato dal 1995. E il nuovo CT Passarella è l’estremizzazione del Bilardismo: pensa anzitutto a non subire gol e a centrocampo preferisce due mediani di rottura, Almeyda e Simeone, piuttosto che un costruttore di gioco. In realtà, la diatriba tra i due è ben più radicata e di tipo extracalcistico.

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Passarella è un vero Sergente Hartmann e pretende che i suoi giocatori abbiano i capelli corti, proprio come in una caserma militare. Ci riesce con tutti, addirittura con Batistuta, Almeyda, Ortega e Crespo che nella loro carriera hanno sempre portato la chioma all’altezza delle spalle, tranne che con Redondo, che comunque li ha più corti rispetto ad USA ’94, ma per il CT sono ancora troppo lunghi. E Fernando i capelli non se li vuole tagliare.

Passarella aveva una particolare idea della disciplina. Mi impose di tagliarmi i capelli e sinceramente non capivo cosa c’entrassero i capelli con il giocare a calcio. Dissi di no. E continuerò a dirlo”.

Durante il mondiale la sua assenza si fa sentire. Dopo aver passato il girone ed aver battuto l’Inghilterra ai rigori agli ottavi, l’Argentina viene umiliata dall’Olanda nei quarti. Passarella viene esonerato e sostituito da Marcelo Bielsa. Un’altra estremizzazione, stavolta del Menottismo. Infatti, nel 3-3-1-3 del Loco, il perno centrale del centrocampo torna ad essere Redondo, che con il Real Madrid vince la Coppa Intercontinentale battendo a Tokyo il Vasco da Gama; in Champions i Blancos escono agli ottavi, eliminati dalla sorprendente Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski, trascinata dalla coppia Shevchenko-Rebrov.

A Madrid c’è ancora una situazione surreale: Heynckes se n’è andato e in due stagioni sulla panchina merengue si sono avvicendati Hiddink e Toshack; il Real è a metà classifica e non riesce a uscire dalla crisi. Dopo undici giornate Toshack viene cacciato e rimpiazzato da Vicente Del Bosque, il quattordicesimo allenatore in dieci anni. La Liga finisce nelle mani del Deportivo La Coruña, che riesce ad interrompere l’egemonia Barcellona-Madrid. Del Bosque decide di puntare tutto sulla Champions League, per il primo anno con la formula a doppi gironi: la prima fase è superata in scioltezza, la seconda un po’ meno. Il Real si qualifica all’ultima giornata, vincendo per 1-0 in Norvegia contro il Rosenborg. Ad attenderlo nei quarti c’è il Manchester United campione in carica: l’andata al Bernabeu finisce a reti inviolate; i tifosi dei Red Devils sono certi di superare il turno, ma per loro la partita si mette malissimo: un cross dalla destra di Salgado è deviato da Roy Keane nella propria porta.

Lo United accusa il colpo e prima Beckham, che sbaglia un comodo sinistro davanti a Casillas (George Best lo ha sempre detto che non sa calciare col mancino), e poi lo stesso Keane non riescono a pareggiare. Nel secondo tempo, Steve McManaman, fischiatissimo per il suo passato in maglia Liverpool, riparte in contropiede e trova Raúl al limite dell’area avversaria: controllo, dribbling secco e sinistro sul secondo palo. 2-0. Spinto dall’orgoglio, è ancora capitan Keane ad avere il pallone per accorciare le distanze, ma il suo destro a porta praticamente vuota finisce a circa metà West Stand.

L’Old Trafford è conosciuto come “il teatro dei sogni” e davanti a 60mila spettatori va in scena il momento simbolo dell’intera carriera di Fernando Redondo: stranamente, non si trova nel cerchio di metà campo, ma è sulla trequarti sinistra. Punta Henning Berg, legnoso terzino norvegese, e si allunga il pallone sulla fascia; Berg non lo molla e per liberarsi della marcatura lo salta con un geniale colpo di tacco+tunnel, seguito dall’unica accelerazione secca della sua vita. La testa ovviamente è alta e vede l’inserimento di Raul che appoggia a porta vuota per il 3-0. Quella giocata verrà ribattezzata el Taconazo. Il Manchester United segna per due volte, ma è troppo tardi. A fine partita Sir Alex Ferguson dichiarerà:

Redondo ha un magnete nei piedi. Vederlo giocare è una meraviglia”.

Il Real è in semifinale dove vince per 2-0 in casa e perde 2-1 in Baviera contro il Bayern. Due anni dopo è di nuovo in finale. La prima tra due squadre dello stesso paese: il Valencia di Cuper è la squadra rivelazione e quella che gioca il calcio migliore, ma la partita allo Stade de France di Parigi è a senso unico: Morientes la sblocca di testa, McManaman raddoppia con una strana sforbiciata volante da fuori area e Raúl la chiude in contropiede saltando Cañizares. Per il Real Madrid è l’octava. Per Redondo, la seconda, arricchita dal premio di miglior giocatore della Champions.

 

 

È a Madrid da sei anni, ha vinto tutto quello che poteva vincere e a 31 anni sente che è arrivato il momento di confrontarsi con nuove sfide. Decide così di lasciare il Real e viene acquistato dal Milan. Berlusconi, amante da sempre del “bel gioco”, lo compra per trentacinque miliardi di lire con un quadriennale da cinque miliardi a stagione. Zaccheroni gli disegna la squadra intorno, ma dopo qualche giorno di preparazione atletica, il ginocchio fa crac. La diagnosi è drammatica: rottura del legamento crociato anteriore. Inizia un calvario di tre operazioni per ricostruirgli il ginocchio che gli fanno perdere due intere stagioni, Redondo dimostra ancora una volta una sensibilità rara nel mondo del calcio: decide di rinunciare allo stipendio e di restituire alla società la casa e la macchina che gli avevano messo a disposizione, perché in quel momento non era un calciatore.

Il Milan fa fatica sia in campionato sia nelle coppe e in panchina per rilanciare i rossoneri è arrivato Carlo Ancelotti, reduce dall’esperienza fallimentare alla Juve. Il mister è un fervido credente del 4-4-2 di matrice sacchiana e ha sempre proposto quel modulo. Il problema è che il Milan non ha esterni, ma è pieno di centrocampisti e mezzali. Così, si inventa il famoso centrocampo a rombo che diventerà il marchio di fabbrica rossonero degli anni 2000. C’è un altro problema, però: se Rui Costa è il trequartista e Seedorf e Gattuso sono i due interni, non c’è nessuno che possa giocare da vertice basso. In realtà ci sarebbe, ma il recupero di Redondo procede a rilento e poi sono due anni che non gioca neppure un minuto. Decide di arretrare Andrea Pirlo, l’unico con il piede e la visione di gioco da regista puro, di trenta metri come fece Mazzone a Brescia per farlo coesistere con Roberto Baggio. Il risultato è cosa nota.

Chiuso dal numero 21, Redondo capisce che la sua carriera è ormai al tramonto. Il sinistro c’è sempre, ma manca tutto il resto. Si accontenta di giocare i finali di partita e la Coppa Italia, sempre con grandissima professionalità e in quattro anni, seppur da comprimario, vince una Champions (terza personale), uno Scudetto, una Coppa Italia e una Supercoppa Europea, l’unico trofeo che mancava al suo palmarès con le squadre di club. A 35 anni, scaduto il contratto con il Milan, decide di ritirarsi e lo fa alla sua maniera: in silenzio, senza proclami o uscite mediatiche di alcun genere.

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Adesso vive in Argentina e ogni tanto partecipa alle partite benefiche con le vecchie glorie del Real Madrid. Ecco, se vi capitasse di vedere una di queste partite-esibizione, mi raccomando, non perdetevela e osservate come si muove e in che modo dà del tu al pallone. Redondo è stato uno dei giocatori più intelligenti ed esteticamente perfetti mai visti su un campo di calcio, sopperendo alla sua lentezza grazie ad una tecnica e a una visione panoramica fuori dal comune e dimostrando, ancora una volta, che spesso è il talento puro a fare un campione.