L'Indio che incornava i lampadari. L'ascesa di Ivan Zamorano - Zona Cesarini

L’Indio che incornava i lampadari. L’ascesa di Ivan Zamorano

Indio dal profilo scolpito e idolo per due generazioni di cileni, figlio di una povertà assoluta, calciatore dalle caratteristiche difficilmente ripetibili. È Ivan Zamorano, per tutti i cileni Bam-Bam, in Europa Ivan il Terribile: centravanti iconico, tra i massimi esponenti del calcio cileno. Seguendo il canovaccio di un’epopea tipicamente sudamericana.

“Durante il primo allenamento al Real Madrid, dopo che Jorge Valdano mi disse che avevo poche possibilità di giocare perché ero il quinto straniero ed ero appena arrivato, stavamo giocando una partitella; io stavo correndo come un selvaggio da una parte all’altra: era il mio modo di allenarmi. Poi Valdano entrò a giocare. Dopo pochi istanti gli arrivò una palla tesa, ci andai troppo forte, convinto di anticiparlo, ma non riuscii a frenarmi. Lo presi in pieno, facendolo sollevare in aria e cadere pesantemente. Si bloccarono tutti. Valdano si rialzò e mi disse: Ti alleni sempre così, o soltanto quando odi il tuo allenatore?”

Basterebbe questa citazione risalente ai tempi dell’approdo al Real Madrid per tratteggiare un uomo dalla propensione innata all’agonismo feroce ma leale.

È il ritratto essenziale di un ragazzo cileno che si trova improvvisamente a cambiare mondo, senza neanche il tempo di preparare la valigia per capire dove stesse dirigendosi. Dalla cerimonia di matrimonio della sorella a Santiago del Cile all’altro Santiago, quello ben più celebre per chi del calcio ne fa una ragione di vita: il Bernabéu.

Il Mapuche che sfascia i lampadari

Ivan è un’icona cilena. Proprio come il popolo Mapuche, i nativi amerindi della Cordillera andina. Etnia dalla resistenza strenue e dalle radici millenarie, quelli che – in barba alla colonizzazione – resistettero per 300 anni all’avanzamento spagnolo, sfruttando le risorse che la regione dell’Aconcagua metteva a disposizione. Agricoltura e culto dello spirito guerriero. E Zamorano – nato e cresciuto a Maipù, luogo sacro dell’indipendentismo cileno – a quell’etnia ci appartiene di diritto.

Non ha cavalcato sulla Cordillera alla ricerca di un lembo di terra da coltivare; non ha preso parte alla Battaglia di Maipù al fianco del comandante José de San Martín per sconfiggere definitivamente la dominazione iberica; ma, a suo modo, ha ispirato un sentimento di identificazione, orgoglio e riscatto che fa rima con nazionalismo culturale.

Eppure Ivan si è emancipato proprio in un periodo storico in cui nazionalismi deviati e regimi dittatoriali di stampo militare egemonizzavano il Cile e le sue risorse umane. Quel Cile che, fino al secondo 11 settembre più celebre della storia, era stato terra di speranza ed egualitarismo. Perché crescere all’estrema periferia di Santiago nel Cile di Pinochet, significa una sola cosa: sofferenza.

Ivan nasce sotto la speranza spezzata di Salvador Allende, che con le sue riforme votate ad un’istruzione accessibile e universale permette una formazione gratuita ad ogni cileno. È uomo di passaggio, Zamorano: a 6 anni, appena intrapreso quel ciclo di studi, la situazione muta. Le lunghe mani della CIA, su disegno della presidenza Nixon-Kissinger, riescono nel loro intento: il generale di estrema destra Augusto Pinochet s’insedia a La Moneda, dopo un brutale assedio che porta al controverso suicidio di Allende.

Pinochet e Kissinger

Il Cile, adesso, è un altro paese: ha compiuto il salto verso l’altro lato del mondo. Da la via cilena al Socialismo, quella della “revolucción con empanadas y vino tinto”, agli arresti arbitrari e le sparizioni di massa del generale Augusto. La tenaglia reazionaria è una morsa soffocante, ed Ivan cresce in questo contesto. Senza troppi sogni o slanci d’immaginazione. Non può permetterseli. Ma ce n’è uno che monopolizza i suoi pensieri: il calcio.

Come spesso accade a queste latitudini, quel ragazzino indio forma un suo mondo parallelo, un rifugio alla Lewis Carroll poggiato su un’immaginario a tinte bianche. È la maglia del Colo-Colo: titolatissima squadra che gioca nei sobborghi di Santiago.

Il simbolo del Colo Colo (credits: Osvaldo Villarroel)

Il club che tifa suo padre, quello che lo fa innamorare del gioco e del tifo. Quello che, guarda un po’, ha come simbolo il grande capo Mapuche Colocolo, da cui prende anche il nome. È colui che non si è mai arreso e mai ha perso contro gli spagnoli.

“La maglietta bianca sta a simboleggiare la purezza dei princìpi e delle intenzioni, e il nero dei pantaloncini rivela la determinazione che ci porta a combattere sempre lealmente per la vittoria”.

Arduo immaginare un motto che si confaccia maggiormente all’indole di quel ragazzino. Infatti Ivan, nonostante la miseria, ha già iniziato a dare sfogo a quel fuoco che lo anima. Gioca per strada, in casa, ovunque ci sia uno spazio che mente e fantasia riescano a ritenere adatto per il gioco del calcio. Arriva perfino a crearsi quello spazio vitale per la sua evasione: in casa, lungo un corridoio strettissimo, c’è un lampadario sferico appeso e il piccolo Zamorano ne fa il suo personalissimo punch-ball. Da prendere a testate.

È così che inizia ad allenarsi sul fondamentale che lo farà grande, quel colpo di testa dallo stacco impressionante – arriverà a circa un metro da terra – e che lo farà volare verso trofei griffati a suon di gol aerei. Di cabezásos, come dicono da queste parti. Il piccolo mapuche dalla chioma fluente ha già affilato la sua arma, ora deve solo trovare una via parallela alle miserie per far esplodere quel talento.

Ma ha un problema: è evidente che il ragazzino spicca il volo come un condor, però il suo fisico è tutt’altro che strutturato. Nelle prime esperienze cilene lo ribattezzano el Piojo, il pidocchio. Nomignolo sgradito e oltremodo miope, perché quel ragazzo filiforme si sta formando tra innumerevoli difficoltà e basta scaraventarlo in campo per assistere ad una delle sue corride calcistiche.

Ha da poco compiuto 14 anni e perde improvvisamente il padre, il punto di riferimento. Non può più permettersi passaggi a vuoto: riversa così in campo una rabbia primordiale.

Un minuto di applausi per la maglia del Cobresal

È il Cobresál, club di El Salvador, il primo a credere in lui, accudendolo nelle giovanili e girandolo poi in prestito in Segunda Division al Trasandino. Prima stagione da titolare della carriera: 29 partite, 27 gol.

È il boom. Diventa il fenomeno di una squadra modesta appollaiata alle pendici delle Ande, dove gioca e incorna palloni a 1.000 metri d’altezza. Se dovessi immaginare la versione speculare di Aguirre, furore di Dio, niente gli si avvicinerebbe di più di questo indio dalle ossa sporgenti, che schianta tomahawk in porta saltando ad altezze vertiginose.

Ivan: il Conquistador al contrario

Ma, al contrario del folle conquistador di Werner Herzog, Zamorano assurge subito a beniamino. Il Cobresál, infatti, intuendo di avere fra le mani un giocatore di reale spessore, lo richiama e lo fa debuttare in Primera. Gioca un buon campionato, fatto di 8 gol in 25 presenze e di una generosità agonistica in eccesso. El Salvador, con i suoi 11.000 abitanti accovacciati sulle miniere di rame del deserto di Atacama, gli va tremendamente stretto. Così il Cobresál lo vende in Europa, al San Gallo.

Per avere un’idea del luogo di debutto, El Salvador

Zamorano ce l’ha fatta: entra in Europa, anche se dalla porta di servizio. Trasloca in Svizzera con la madre al fianco e chiude due stagioni in doppia cifra, con tanto di titolo di capocannoniere nel 1991: 23 gol.

E pensare che prima di trovare l’aria rarefatta delle Alpi sarebbe potuto finire in pianura, a Bologna. È il 1988: fa un provino insieme al connazionale Hugo Rúbio, che gli viene preferito e tesserato dal club rossoblu. Vorrei calorosamente stringere la mano all’osservatore felsineo.

Zamorano a Bologna

Bam-Bam intanto ha già spiccato il volo sulle Alpi dominando la scena elvetica, cosa che lo porta sui taccuini di molti osservatori europei. Ne approfitta il Siviglia, che compra Ivan e lo lancia subito nella mischia. Stavolta in un campionato di altro livello rispetto a quelli dove finora si è misurato. In due anni all’ombra della Giralda, il Nostro infiamma il Sanchez Pizjuán: 21 gol in 48 presenze.

Con la sensazione che con quell’indio dal profilo da peone rivoluzionario alla Sergio Leone, in campo aleggi uno spirito battagliero. Di quelli che accende il pubblico. È in Andalusia che il ragazzo filiforme muta in Ivan il Terribile, come il primo Zar di Russia. Soltanto che in questo caso il terrore non scorre nelle vene dei Boiardi, ma si aggira ad alta quota all’interno dei 16 metri delle aree della Liga.

Zamorano è una macchina: forgiata in scenari estremi e pronta a scaricare la sua foga anche contro il blasone nobile del Real Madrid. Quelli che, spingendo oltre la metafora, stanno al calcio spagnolo come i conquistadores di Francisco Pizárro al Sud America.

Quelli che Ivan fora con un gol dei suoi nella seconda stagione al Nervión, quando da semi-sconusciuto attaccante si afferma come stella europea. È il 1991/92, l’annata decisiva: il Siviglia ha a disposizione una discreta squadra con una coppia d’attacco fra le più complementari dell’intero panorama continentale, Zamorano-Suker.

Una coppia che poi segnerà l’intero decennio calcistico. Il croato e il cileno sembrano assemblati per giocare uno accanto all’altro: reattività, fiuto del gol, giocate di fino, corsa, senso di squadra, finalizzazione e garra; elemento imprescindibile per come Zamorano intende il calcio. Dopo 12 gol e molte giocate eccellenti, piombano i conquistadores.

Stavolta da Madrid: 7 miliardi di lire e Ivan calca il prato del Bernabéu. I tempi in cui lo chiamavano il pidocchio sono ormai delle sbiadite polaroid. A Madrid incoccia in Valdano e l’inizio non è dei migliori. Ma se c’è una qualità che questo ariete andino ha sempre dimostrato è la tenacia. Si allena “come un selvaggio” e riesce a conquistarsi un posto da titolare in una compagine da sempre attenta all’estetica oltreché al risultato, motivo per cui deve sforzarsi il doppio.

L’estetica accademica e filo-barocca del Real non gli si addice, Bam-Bam, come spiega il suo soprannome, è calciatore adrenalinico, esplosivo. Abbisogna di un ambiente incandescente per trainare i compagni e trovare giocate e gol.

Zamorano e Amavisca al Real Madrid

Quel Real è una squadra di transizione tra i fasti di fine anni ’80 della Quinta del Buitre e l’arrivo della prima ondata di Galacticos del 1996, una creatura instabile che ha bisogno di un killer. Perché il monumento Butragueno è ormai sulla via del tramonto e negli ultimi 16 metri l’eredità di Hugo Sánchez pesa come un macigno. Ma Zamorano indossa la camiseta blanca e sfodera una stagione roboante: 34 presenze, 26 gol. A Madrid quasi non ci credono. L’indio dalla faccia sporca in pochi mesi ha spodestato i monumenti della Movida calcistica madrilena.

È una star. È il centravanti di 178 centimetri che domina i duelli a quota due metri e mezzo, che in area di rigore può colpire in ogni momento con una buona varietà di colpi abbinata ad un’intensità costante. Un nervo che fa breccia nei cuori blancos del Bernabéu, che lo eleggono beniamino. È il Conquistador al contrario, quello piombato dalle Ande; quello che aveva saputo di essere stato ceduto al Real mentre sua sorella si stava sposando, dovendo preparare in fretta la valigia senza dire niente a nessuno per non oscurare il giorno di gioia della sorella.

Anche questo è Ivan Zamorano: umiltà e attaccamento. Insomma, dal rocambolesco passaggio di mercato al titolo di idolo dell’esigentissima tifoseria merengue il passo è quasi istantaneo. Continua la sua storia col Real per altri tre anni, riuscendo a raggiungere il traguardo più ambizioso ed agognato: interrompere l’egemonia catalana. I blancos si cuciono sul petto il titolo di campioni di Spagna dopo 4 anni a tinte blaugrana.

E Zamorano, manco a dirlo, è decisivo. 1994-95, non salta una partita e vince il titolo di Pichichi con 28 gol. Numeri monstre. Corroborati da gol sbalorditivi per capacità e rapidità di finalizzazione.

Chiude così un’esperienza che l’ha consacrato centravanti di livello mondiale. Rimangono nella memoria i gol trasmessi da TMC, dove si scorge distintamente un uomo di media statura che si arrampica in aria, rimanendo sospeso per secondi e schiacciando dentro i cross in arrivo dalle fasce. Per poi liberarsi in esultanze forsennate.

È un copione che non si ripeterà più con quella frequenza, ma che continuerà ad essere messo in pratica. Anche nel campionato più difficile del mondo.

L’1+8, la Uefa col Fenomeno e l’addio

Moratti ha deciso di puntare su quel centravanti per la sua Inter. Sbarca a Milano con alte aspettative in una stagione di entusiasmo crescente e delusioni cocenti. L’Inter ha Hodgson in panchina, che ha appena compiuto la cazzata più grande della carriera: avallare la cessione di Roberto Carlos al Real Madrid per 7 miliardi.

Un’onta che non si leverà mai di dosso, la lettera scarlatta che ancora oggi lo accompagna. Magari sognando Maurizio Mosca che lo interpella insistentemente su quella mossa di mercato.

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Boutade a parte, l’Inter di Hodgson viaggia a buoni ritmi e riesce a stabilizzarsi fra le prime del campionato, chiudendo al terzo posto. E arrivando a giocarsi la finale di Uefa contro lo Schalke 04. Per Ivan il Terribile è una stagione di acchìto – prendendo in prestito un termine dal biliardo – e l’ambientamento in campo è progressivo. Non ha un rendimento costante, ma gioca una buona annata entrando fin da subito nel cuore dei tifosi per il suo atteggiamento umile e determinato.

Proprio nella finale di ritorno della Uefa, a San Siro, riesce a mettere a segno il gol più importante dell’anno: a 5 minuti dal termine infila l’1-0 che porta l’Inter ai supplementari, dopo la sconfitta di Gelsenkirchen. È una perla di reattività, coordinazione ed opportunismo. Una rete da condor d’area.

San Siro esplode e sente l’impresa vicina, ma si arriva ai calci di rigore. E qui la storia svolta nel modo più amaro. Si assume la responsabilità del primo rigore sotto la Nord: Lehmann si tuffa e respinge. Sbaglia anche Winter e l’Inter perde davanti al proprio pubblico una coppa agognata da anni.

Ma il tempo sa prendere e restituire, come nel caso di Ivan. Ed è l’anno successivo che Bam-Bam prenderà la sua rivincita. Arriva da Barcellona un certo Luis Nazario da Lima, che di soprannome fa Ronaldo e di mestiere il Fenomeno.

I due dovrebbero giocare uno di fianco all’altro nella concezione prudente e pragmatica di mister Gigi Simoni, che sa di avere a disposizione un materiale offensivo di primissimo livello. La squadra, sotto la guida di Simoni, è quantomai unita e calciatori come Pagliuca, Zanetti, Zamorano, Djorkaeff, Simeone e Moriero si rivelano pedine decisive, escludendo Ronaldo che gioca con le lancette dell’orologio agonistico spostate in avanti di 15 anni.

Ma per Ivan l’annata non è semplice: continui acciacchi fisici, l’esplosione dell’atletismo bionico di Ronaldo e dei colpi di Djorkaeff e Recoba lo tengono a lungo spettatore. Colleziona 13 presenze in campionato con appena 2 reti. È il campionato dello Scudetto sfiorato e del grido di vergogna per il rigore di Iuliano su Ronaldo non rilevato dall’arbitro Ceccarini. Roba che fa infuriare perfino Simoni, che è un po’ come far sbottare il mahatma Gandhi.

Ma oltre alla Serie A, l’Inter è lanciata sul binario della Uefa: intraprende un percorso a rotta di collo, riuscendo a non deragliare e centrando l’appuntamento finale. Parigi, 6 Maggio 1998. Di fronte la Lazio di Eriksson e dei talenti Jugovic, Mancini, Nesta e Nedved. Stavolta l’appuntamento con la storia non può essere fallito: in campo dall’inizio, al fianco del Fenomeno, ci va Ivan.

Zamorano non si fa attendere. 5° di gioco: Bam-Bam spacca la partita a freddo. Circumnaviga Negro col tipico movimento ad elastico a tagliare per evitare il fuorigioco e, su perfetto lancio del Cholo, lascia scorrere, colpendo al volo d’esterno sul palo più lontano. È il gol della liberazione. Adesso l’Inter incanala la partita sui binari che predilige, affidando il resto del lavoro alle ripartenze e agli strappi di Ronaldo, che farà passare a Nesta la serata più umiliante della carriera.

Finisce 3-0, con gol di Zanetti e del Fenomeno. La Uefa torna a Milano, l’errore dal dischetto dell’anno prima è stato spazzato via in pochi minuti. È anzitutto la sua rivincita, il suo regalo ai tifosi nerazzurri con cui ha stretto un legame sincero fin dalle prime apparizioni.

E i tifosi ricambiano con un coro su misura: “Salta con noi che segna Zamorano… oooh Zamorano!”. Al ritmo de La Macarena, il tormentone estivo che stava monopolizzando le estati italiane a colpi di pop-latino rivisitato in chiave dance.

Insomma, Ivan ha conquistato anche l’ultimo trofeo che gli mancava. Rimane all’Inter altre due stagioni, entrando nella memoria collettiva per una singolare scelta. Ronaldo è ormai un’industria su tacchetti che fattura miliardi col brand Nike, che per l’occasione inventa l’acronimo R9: precursore della sciagura dei tempi odierni, dove pare che ogni calciatore che riesca a compiere un dribbling più o meno efficace debba essere identificato tramite un acronimo e il numero di maglia. Ma tant’è.

Ronaldo ha il 10 e Zamorano, da sempre, porta il 9. Ivan cede alle pressioni del club e del compagno, lasciando il numero 9 al Fenomeno. Ed è qui che scatta il genio di monicelliana memoria.

Bam-Bam si prende la casacca 18, ma fa aggiungere tra le due cifre un piccolo +. Diventerà un’icona di quel calcio di fine anni ’90, già lanciato a tutta velocità verso scenari globali, fallimenti e plusvalenze oscure ma ancora non così esasperato mediaticamente. Un calcio dove anche un’invenzione naif può trovare posto e sublimare in feticcio per i tifosi.

Facendo scattare una reazione a catena per la quale ogni ragazzo più o meno adolescente che abbia calcato i campi di calcio italiani dell’epoca, si sarebbe trovato di fronte qualcuno che, puntualmente, avrebbe tentato la replica amatoriale dell’1+8 di Zamorano. Con tanto di nastro adesivo sulla maglia.

Trovata geniale che fa inorridire i puristi e fa scalpore. E che, di fatto, crea una sorta di secondo brand parallelo, contrapposto a quel R9 appena lanciato dalla Nike. Zamorano vuole semplicemente rendere pubblico che, al di là del numero di maglia, lui è e rimarrà sempre un 9: un centravanti.

Ma ormai è arrivato il nuovo millennio e con esso la tendenza a disfarsi dei numeri 9 puri; Ivan il Terribile, dopo quattro stagioni nerazzurre, lascia con malcelata emozione Milano e vola in Messico. Se ne va da idolo della curva, lasciando in eredità 41 gol complessivi. E soprattutto una maglia sempre sudata al triplice fischio.

Cile e Colo-Colo: In Nomine Patris

In Messico, al Club América, dura un paio d’anni, scanditi da continui fastidi fisici che però non gli impediscono di segnare gol a grappoli. È il 2003, ha 36 anni suonati ma deve ancora compiere l’ultimo sforzo: mettere in pratica il desiderio del padre. Ovvero indossare la casacca del Colo-Colo.

Ed è così che chiude il cerchio di una carriera che abbraccia circa tre decenni, scendendo in campo 14 volte con la divisa blanco y negro e mettendo a referto 8 gol. Una media gol molto alta, nonostante l’età e i continui acciacchi. È il sipario sul calcio giocato. Che per Ivan ha un significato speciale.

“Mio padre aveva un solo sogno: vedere il figlio con la maglia del Colo-Colo. È stato forse il più grande regalo della mia vita.”

In Cile è venerato come una sorta di divinità pagana, simbolo del riscatto sociale di un popolo. Anche grazie alle prestazioni con la maglia della Roja, quelle divise rosso fuoco che vestono perfettamente sull’indio che sfiora le nuvole con la fronte. È proprio con la Nazionale che scrive pagine significative al fianco di un altro saltatore inarrestabile, Marcelo Salas. I due formano una coppia di centravanti spettacolare, dando lustro ad un’intera nazione nel Mondiale di Francia ’98.

(credits: AP Photo/Denis Doyle)

Quando insieme mettono alle corde la difesa italiana più forte degli ultimi decenni, quella di Cannavaro, Nesta e Maldini insieme, facendo sognare un paese con i loro salti perentori e staccando uno storico pass per gli ottavi di finale, che perderanno contro il ciclone verdeoro di Ronaldo. Ma poco importa, perché anche stavolta l’indio ha onorato la maglia, caricandosi una squadra sulle spalle fino a traguardi allora sconosciuti.

Nel 2007 ha inoltre realizzato un centro sportivo a Santiago, ribattezzato “Ciudad Deportiva Ivan Zamorano”, con campi da calcio, palestre e un centro medico, oltre a un centro studi per discipline sportive. Un investimento in strutture in favore dei giovani più poveri del paese. E un probabile tracollo di fatturato per le aziende di lampadari.

Zamorano alla Ciudad Deportiva

In Cile viene eletto giocatore del secolo. È un’icona: un’immagine sacra al pari del condor che sostiene lo stemma ufficiale con la scritta “Por la Razón o la Fuerza”. Gli viene pure dedicata una canzone, il cui ritornello è piuttosto esplicativo:

“Bam Bam, llegó caído del cielo Bam Bam; Y la galera gritaba su nombre, orgullo de Chile, el gran capitán!”.

Caído del cielo, come i condor e le divinità indios. Esagerazioni e romanticismo tipici del Sud America. Niente male per uno che da ragazzino veniva chiamato il pidocchio, si allenava sfasciando lampadari e sognava di giocare come il suo idolo Carlos Caszely.