C'era una volta la Jugoslavia. Quando la Stella Rossa dominò l'Europa - Zona Cesarini

C’era una volta la Jugoslavia. Quando la Stella Rossa dominò l’Europa

Quando il 19 settembre 1990 ebbe inizio la 36ª Coppa dei Campioni, la Jugoslavia stava già cominciando a scricchiolare.

Il decennio successivo alla morte di Tito era culminato con i violentissimi incidenti avvenuti al Maksimir il 13 maggio del 1990, appena una settimana dopo la vittoria del partito nazionalista di Tudjman, l’Unione Democratica Croata (HDZ): i sostenitori della Stella Rossa Belgrado, da sempre la squadra rappresentante della popolazione serba – non a caso il leader del gruppo ultras dei Delije era il futuro criminale di guerra Željko Ražnatovič detto Arkan – ingaggiarono dei durissimi scontri con i tifosi della Dinamo Zagabria; resta emblematica, di quella serata, la foto del calcio volante rifilato da Boban ad un celerino sul punto di aggredire un ultras della Dinamo.

Nello stesso anno, tuttavia, sembrava che il calcio potesse comunque fare da collante ad uno Stato morente: una Jugoslavia infarcita di campioni promettenti che a stento raggiungevano i 25 anni (Pančev, Stojkoviċ, Bokšiċ, Prosinečki, Jarni, Saviċeviċ, Šuker…) disputò una grandissimo torneo iridato in Italia; pur con la partenza ad handicap dell’ 1-4 con la Germania Ovest, passò tranquillamente agli ottavi, dove superò la Spagna, per poi cedere nei quarti soltanto ai rigori contro l’Argentina, che dalla sua dovette ringraziare Goycochea, il quale riuscì a neutralizzare ben 3 tiri dal dischetto.

A conquistare la Prva Liga nel 1990 – condita poi dalla vittoria anche nella coppa nazionale – fu la Stella Rossa, che oltre a dominare il campionato (+11 proprio sulla Dinamo Zagabria) aveva fornito 5 calciatori alla rosa di Italia ’90: oltre a Šabanadžović , gli altri quattro erano dei giocatori che avrebbero fatto gola a mezza Europa: Darko Pančev, (sì, il Pančev sbeffeggiato dalla Gialappa’s) Dragan Stojković (ceduto all’Olympique Marsiglia in estate), Robert Prosinečki e, dulcis in fundo, un montenegrino il cui soprannome basta per definirlo: Dejan Savićević, “il Genio”.

Se questi nomi non fossero sufficienti a dimostrare l’effettiva potenza dei biancorossi, basterebbe dare un’occhiata alla coppia di centrali di centrocampo su cui puntava Ljupko Petrović: il 21enne Vladimir Jugović, prelevato in estate dal Rad, ed il coetaneo Siniša Mihajlović, il quale aveva già fatto innamorare Petrović due stagioni prima, quando avevano vinto insieme a sorpresa il campionato con il Vojvodina; il futuro allenatore del Milan sarebbe arrivato però soltanto a dicembre.

Prima che arrivasse Mihajlović la Stella Rossa si era dedicata ad acquisti marginali, ad esclusione di quello effettuato per riavere a Belgrado Dragiša Binić – attaccante straordinariamente freddo sotto porta – dopo due anni passati tra Francia e Spagna; d’altronde, la squadra in patria non conosceva rivali, ed i suoi giocatori sembravano ormai pronti ad affrontare l’avventura europea a discapito della giovane età media.

L’esordio dei “Crveno-Beli” in Coppa, non fu però particolarmente esaltante: la partita interna con gli svizzeri del Grasshoppers terminò 1-1; gli ospiti prima si portarono in vantaggio al 14′ grazie ad una magistrale punizione segnata da Kozle, alla quale gli slavi risposero con l’incornata vincente di Binić, migliore in campo dei padroni di casa, fischiati al termine della partita dai propri tifosi, delusi per la scarsissima qualità dell’incontro.

Nella gara di ritorno, tuttavia, i biancorossi vincono e convincono: Petrović lascia in panchina Jugović – che cede il posto a Šabanadžović – mentre Hitzfeld rinnova per 10/11 la formazione dell’andata. L’incontro è però senza storia: la Crvena Zvezda è nettamente più forte e lo dimostra pienamente, vincendo per 4-1.

Questa volta è Pančev il mattatore dell’incontro: alla prima occasione va in gol con un delicato tocco che batte Brunner, poi un suo tiro respinto dall’estremo difensore fornisce a Belodedici la possibilità di siglare il 2-0, che fallisce incredibilmente (ma è un libero, lo perdoniamo), e nella ripresa si guadagna i rigori – trasformati entrambi da Prosinečki – che portano il risultato prima sul 2-0 e poi sul 4-1.

Agli ottavi di finale si fa già sul serio: gli avversari designati sono infatti gli scozzesi dei Rangers, i quali hanno nel tridente McCoist-Hateley-Mo Johnston la loro arma più temibile. La gara d’andata è accompagnata da una cornice di pubblico ben diversa rispetto a quella vista contro il Grasshoppers: lo stadio “Stella Rossa” (per tutti Marakana) accoglie ben 70.000 spettatori, e in curva i Delije fungono perfettamente da dodicesimo uomo in campo sin dal prepartita. È un catino furoreggiante dal colore rosso fuoco.

La partita finisce 3-0, ma se fosse terminata 4 o 5-0 nessuno avrebbe potuto recriminare: Jugović e Prosinečki sono inarrestabili – e la prestazione di quest’ultimo è coronata anche dallo splendido gol su punizione – e il tanto temuto attacco dei blu di Glasgow è imbrigliato dalla difesa di ferro della formazione di casa, mai messa seriamente in difficoltà.

L’incontro di ritorno è una mera formalità, anche perché i Rangers sembrano non crederci troppo: la partita termina 1-1, corredata dal gol-capolavoro di Pančev che porta momentaneamente in vantaggio gli ospiti.

Dopo i Rangers, ai quarti tocca la rappresentante di uno stato che già non esisteva più: il 3 ottobre 1990 la Repubblica Democratica Tedesca ha infatti cessato di esistere, ma nei 5 mesi successivi la Dynamo Dresda, trascinata dalle reti di Torsten Gütschow, aveva eliminato Union Lussemburgo e Malmö, per poi trovarsi di fronte alla Stella Rossa.

La prima delle due partite ha luogo in Jugoslavia, e questa volta tutti i 100.000 posti del vecchio Marakana sono stati occupati, e ancora la tifoseria è impressionante per il sostegno dimostrato alla squadra: il risultato è, sia per il gioco che per il risultato, identico a quella con i Rangers: 3-0, di nuovo con una rete su punizione di Prosinečki – che colpisce anche una traversa con un tiro da distanza siderale – oltre ai gol di Binić e Savićević, il quale sfodera una prestazione superlativa.

Il retour-match – nel quale Mihajlović fa il suo debutto nella competizione – non dura nemmeno i 90 minuti previsti: la Dynamo Dresda si porta in vantaggio immediatamente con un rigore trasformato da Gütschow (assente all’andata) provocato da un fallo di mano di Šabanadžović; la Dynamo però non produce più nulla, e anzi è la Stella Rossa a condurre la partita, trascinata da un inesauribile Savićević e da un ottimo Mihajlović, nell’insolita posizione di terzino. É il genio montenegrino l’autore del pareggio, dopo una sublime azione personale.

Arriverà anche il gol di Pančev al 71′ che praticamente termina l’incontro: dopo la rete del campione macedone i tifosi di casa iniziarono a gettare qualsiasi cosa sul campo provocando la sospensione della partita 7 minuti dopo per decisione del direttore dell’incontro, lo spagnolo Soriano Aldarèn, ed in seguito il 3-0 a tavolino.

Ormai lo squadrone jugoslavo è in semifinale, e ovviamente non esistono avversari facili fra le prime 3 squadre d’Europa: certo, probabilmente lo Spartak Mosca (che aveva comunque eliminato il Real Madrid con un 3-1 al Bernabeu) era preferibile all’avversario destinato ai “Crveno Beli”, ovvero il Bayern Monaco guidato da Heynckes in panchina e da Effenberg e Brian Laudrup in campo.

Oltretutto, la Germania calcistica aveva quasi sempre riservato cattive sorprese alla Jugoslavia: prima la sconfitta per 2-0 nei quarti dei mondiali del 1954, vendicata 8 anni dopo con un 1-0 raggiunto a pochi minuti dal termine, e poi la tremenda delusione degli Europei del 1976, dove proprio a Belgrado i bianchi di Beckenbauer passarono dallo 0-2 della mezz’ora al 4-2 dei tempi supplementari, eliminando i padroni di casa e staccando il biglietto per la finale con la Cecoslovacchia di Panenka. Ulteriori dolori avevano provocato in specifico ai tifosi della Stella Rossa nel 1978-79, quando dopo aver eliminato l’Hertha Berlino in semifinale, videro sfumare la coppa UEFA nella finalissima contro il Borussia Mönchengladbach del Pallone d’oro Simonsen, di Berti Vogts e di Udo Lattek.

(Credits: N.Parausic)

Il primo atto della semifinale si disputò all’Olympiastadion, ed è decisamente molto più equilibrato rispetto ai turni precedenti disputati dai biancorossi: al 23′, complice uno scivolone di Prosinečki, la squadra di casa recupera la palla e dopo un’azione ben orchestrata si porta in vantaggio grazie ad un pallonetto di Wolfharth, innescato da un colpo di tacco di Thon.

La Stella Rossa tuttavia non si arrende, sa di avere un organico di altissimo livello e di potersela giocare: Mihajloviċ inizia a mostrare i suoi numeri, sfiorando il gol con una punizione da 30 metri respinta con difficoltà da Aumann, mentre allo scadere del primo tempo Prosinečki – per nulla scosso dall’errore che ha portato al gol – lancia Biniċ, che si invola verso il centro per poi servire Pančev al centro dell’area, che pareggia in scivolata: 1-1 all’intervallo.

Nella ripresa le squadre rientrano in campo decisamente più attente in fase difensiva: il Bayern però si scopre ed incappa in un contropiede in cui Saviċeviċ finalizza l’assist di Pančev, portando in vantaggio gli ospiti; dopo la rete, pur mancando 20 minuti al termine, la Stella Rossa non si chiude in difesa, sfiorando anzi in due occasioni (con Biniċ e Pančev) la rete del 3-1 che avrebbe chiuso il discorso qualificazione.

Due settimane dopo il Marakana, ovviamente tutto esaurito, ospita la gara di ritorno. La Crvena Zvezda gioca senza timori reverenziali, e al 25′ una punizione di Mihajloviċ da quasi 30 metri si infila in rete alle spalle di Aumann, portando in vantaggio i padroni di casa e accendendo gli animi dei quasi centomila tifosi accorsi in zona stadio.

Il primo tempo prosegue, e la Stella Rossa dimostra di voler chiudere definitivamente l’incontro, anche perché ora può giocare di contropiede: con un bellissimo scambio Radinoviċ-Pančev si va vicinissimi al 2-0, poi sfiorato sia da un’azione personale di Saviċeviċ iniziata da un monumentale Prosinečki sia da un errore di Biniċ, che ignora Pančev solo nell’area piccola e tira da posizione troppo defilata.

Nella ripresa il Bayern, che nei primi 45′ ha combinato poco o nulla, tenta l’ultimo assalto: prima Wolfharth sbaglia un tocco a porta vuota tirando fuori, poi raggiunge il pari al 65′ grazie ad una papera di Stojanoviċ, che si fa sfuggire sotto le gambe una innocua punizione di Augenthaler. Pochi minuti dopo (al 70′) cala il gelo sul Marakana: un lungo traversone – non particolarmente minaccioso – di Effenberg viene gestito malissimo da un difensore, che non spazza via il pallone, lasciando Bender libero di battere a rete e di segnare il gol che significa tempi supplementari.

Sembra che ancora una volta il “facciamoci male da soli” jugoslavo sia sul punto di premiare la freddezza germanica. La Stella Rossa si butta in avanti con la forza della disperazione: una bellissima girata di Biniċ, che meriterebbe miglior sorte, termina di pochissimo a lato, ma il risarcimento arriva proprio al 90′; Jugoviċ, dopo una elegante azione personale, subisce un contrasto e la palla va a Prosinečki, che a pochi metri dalla linea dal fondo la tocca all’indietro per Mihajloviċ. Siniša la crossa al centro, dove ci sono Biniċ e Pančev: entrambi vengono anticipati da Augenthaler, ma la sua scivolata disegna all’indietro una parabola imprendibile per Aumann, che viene scavalcato da un pallonetto e vede infilarsi la palla in rete.

L’urlo di gioia del Marakana è quasi disumano, e anche il telecronista jugoslavo Milojko Pantiċ esplode in un urlo liberatorio: “Dva-dva!”, “Due a due!”.

La Stella Rossa è in finale, e affronterà a Bari l’Olympique Marsiglia del grande ex “Piksi” Stojkoviċ, gravemente infortunatosi al ginocchio nel corso della stagione. Anche i francesi avevano fatto una vittima eccellente: dopo aver passeggiato su Dinamo Tirana e Lech Poznan, ai quarti avevano avuto l’onore di cacciare fuori dalla competizione il Milan di Sacchi, bicampione in carica, che se ne uscì con l’annessa figuraccia internazionale – e la squalifica – per la celebre storia dei riflettori; in semifinale, invece, arrivò la facile vittoria sullo Spartak Mosca.

Alla finale del 29 maggio, la Stella Rossa si presentò con delle ottime credenziali, avendo nel frattempo stravinto di nuovo il campionato – questa volta con 8 punti sulla Dinamo Zagabria – e dopo aver sfiorato il secondo double di fila, perdendo in finale la coppa nazionale contro l’Hajduk Spalato, che vinse il confronto grazie al gol di Bokšiċ.

Lo stesso tuttavia valeva per la formazione transalpina: era arrivato il 7° trionfo in campionato davanti al Monaco allenato da Wenger che si era parzialmente rifatto conquistando proprio sull’OM la coppa nazionale.

Petroviċ, per far gioire i 30.000 tifosi accorsi in Puglia, schierò la seguente formazione: Stojanoviċ in porta, terzini Maroviċ e Šabanadžoviċ, difensori centrali Belodedici e Najdoski; le ali erano Prosinečki e Saviċeviċ, mentre la coppia di centrali di centrocampo era formata da Jugoviċ e Mihajloviċ; in attacco, il tandem Pančev-Biniċ.

I tifosi della Stella al San Nicola di Bari

Goethals (terzo allenatore dell’OM in stagione, dopo Gili e Beckenbauer) rispose con Olmeta in porta, terzini Di Meco e Amoros, difensori centrali Casoni e Boli, mentre il libero era Mozer; a centrocampo c’erano Germaine e Fournier, mentre Papin era supportato da Abedi Pelé e Waddle.

Le occasioni scarseggiarono, visto che entrambe le squadre, vista la posta in gioco, privilegiarono la difesa: la prima chance è per l’OM, con Papin che imbeccato da Germain fallisce la battuta a rete solo davanti a Stojanoviċ calciando alla sinistra del portiere; in seguito, una bella azione di Saviċeviċ porta Biniċ a tentare una difficile conclusione che non ha fortuna.

Jean Pierre Papin a Marsiglia

Le difese dimostrano di essere all’altezza della situazione, a discapito dello spettacolo: se nel primo tempo è più pericolosa la Stella Rossa, nel secondo tocca ai campioni di Francia rendersi più minacciosi: due colpi di testa di Waddle mettono in serio pericolo la porta dei biancorossi, che a loro volta riescono a pungere solo con una punizione di Prosinečki.

Nei tempi supplementari non succede assolutamente niente – a parte l’entrata in campo di Stojkoviċ – e quindi il verdetto è affidato ai calci di rigore. Il primo a calciare è Prosinečki, che non ha difficoltà a segnare: Olmeta si getta con largo anticipo, e per lui è facilissimo mettere la palla dal lato opposto. Amoros invece non angola troppo la conclusione, e Stojanoviċ para.

Nei seguenti rigori non sbaglia nessuno: segnano Biniċ, Belodedici e Mihajloviċ da una parte, Casoni, Papin e Mozer dall’altra. Il quinto rigore lo tira Pančev, che batte Olmeta per la decisiva ultima volta.

Il penalty realizzato dal numero 9 fu il gol che permise alla Stella Rossa, e al calcio jugoslavo, di toccare l’apice della sua storia proprio a poche settimane dall’inizio della catastrofe: il 25 maggio la Croazia seguirà l’esempio sloveno, proclamando la propria indipendenza; la reazione armata della Jugoslavia, diede il via ad un violentissimo conflitto che si estenderà poi alla Bosnia e al Kosovo, terminando nel sangue l’esperienza jugoslava.

Quella guerra, inoltre, tolse alla Jugoslavia una possibilità più che concreta di vincere finalmente qualcosa a livello di nazionale: nel 1992 fu esclusa dagli Europei – poi vinti a sorpresa proprio dal suo rimpiazzo, la Danimarca – e nel 1998, in Francia, il mondo assistette allo strepitoso debutto iridato della Croazia: terza, grazie alla generazione di fenomeni.

Boban, Staniċ, Šuker, Bokšiċ (che saltò il Mondiale per infortunio), Prosinečki, Jarni, Vlaoviċ, Soldo, Asanoviċ, Ladiċ. Risulta difficile immaginare una squadra che potesse battere una Croazia del genere se fosse stata ancora parte della nazionale jugoslava, che a quel torneo iridato schierò Jugoviċ, Saviċeviċ, Mijatoviċ, Stojkoviċ, Mihajloviċ, Miloševiċ ed un giovanissimo Dejan Stankoviċ.

C’era una volta la Jugoslavia. Sogno infranto, illusione autarchica e sentimento mai del tutto sopito di nostalgia pallonara. La Stella Rossa pre-conflitto, con la sua parabola intensa e tragica, rimane una meteora irripetibile nella storia del gioco moderno: la stella solitaria di un calcio troppo povero, talentuoso ed anarchico per essere futuribile.