Jorge Campos, il desiderio di (non) essere come gli altri

Jorge Campos, il desiderio di (non) essere come gli altri

Campos rappresenta tutto quello che ci si aspetta da un messicano: un indolente e gioioso disprezzo per le regole, le abitudini, lo status quo. Quello che è sempre stato il Messico, un Paese tanto abituato alle rivoluzioni da averle istituzionalizzate nel suo sistema politico. E, a quanto pare, nei suoi campi da calcio.

Jorge Campos esulta

Il portiere non è un giocatore qualsiasi. Non gli è concesso spazio per l’inventiva, tranne che nelle perdite di tempo. Niente voli pindarici, solo balzi felini tra i legni. Gli altri sognino pure rovesciate, contropiedi e scorribande; al portiere non è concesso.

Niente grilli per la testa, all’interno dell’area piccola: Giù la testa, coglione”.

Siamo al tramonto degli anni Ottanta, e mentre l’Europa fa i conti con Hillsborough e l’Heysel, nei PUMAS di Città del Messico debutta un ragazzino esile e agilissimo, che di nome fa Jorge Campos Navarrete.

Jorge Campos nasce nel 1966 ad Acapulco, “la perla del Pacifico”: una città turistica, più vicina alla California dei Beach Boys che al latifondo che ancora caratterizza gran parte del Messico. Jorge è un bambino iperattivo, ed essendo di buona famiglia può permettersi di provare tutti gli sport che desidera: si avvicina al basket, ma la bassa statura probabilmente lo scoraggia dal continuare; tenta il baseball, l’equitazione e il tennis, abbandonati presto senza rimpianti; si cimenta infine con il surf, passaggio necessario per ogni acapulqueño che si rispetti.

Mentre cavalca le onde della Playa Hornos e de La Condesa, Jorge guarda estasiato i costumi sgargianti dei surfer di tutto il mondo: abbandonerà presto il surf, ma quell’orgia di colori, quella sfrontata allegria, quello sgargiante manifesto di ribellione rimarranno per sempre con lui.

Campos braccato da Diego Simeone.

A 16 anni, Jorge Campos inizia a giocare a calcio; in porta, forse anche per quella sua innata voglia di distinguersi dagli altri. Dopo le giovanili nei Delfines di Acapulco e una parentesi nella Cruz Azul, nel 1985 viene tesserato dai PUMAS, il club della Universidad Autonoma Mexicana. Ogni due settimane, Jorge prende la corriera da Città del Messico ad Acapulco per andare a trovare i suoi cari: un viaggio infinito, durante il quale spesso Jorge si chiede se non valga la pena ritornare a casa, completare i suoi studi in Amministrazione di Impresa e rimanere con la sua famiglia nella baia di Acapulco.

Nel 1988 entra in prima squadra, dove il suo coetaneo Adolfo Rios occupa stabilmente il ruolo di portiere: l’allenatore, Miguel Mejía Barón, è un uomo pragmatico, e intuendo le doti di Campos, gli propone di giocare come attaccante esterno. Jorge accetta e in 37 presenze mette a segno 14 gol, diventando il capocannoniere della squadra. Nel 1990 il sistema si perfeziona: Rios rimane il portiere titolare, ma quando la squadra prende gol ecco che Campos “scala” in porta e Rios se ne va in panchina. La formula sembra folle, ma i PUMAS vincono addirittura il campionato.

Il nostro Giovanni si è divertito a creare un collage con le divise più colorate di Jorge Campos

Dopo la cessione di Rios al Veracruz, Mejía Barón decide di schierare Campos in porta, nonostante i 24 gol segnati in due anni: Jorge accetta, in cambio di qualche libera uscita dall’area di rigore. Mejía Barón, allenatore, dentista e (secondo alcune fonti) filosofo, dimostra di averci visto giusto ancora una volta: Jorge Campos sarà pure un buon attaccante, ma è diventato soprattutto un ottimo portiere. Agile, reattivo e capace di leggere in anticipo le intenzioni degli attaccanti: per la scarsa tradizione di arqueros messicani, Campos è un patrimonio troppo grande per esser dilapidato in attacco.

Dal 1991 entra in pianta stabile a far parte della Nazionale, con la quale raggiunge una fama planetaria: non sono le parate feline o le uscite spensierate a renderlo indimenticabile, quanto le sgargianti divise che si disegna da solo e che sfoggia in ogni competizione internazionale. Le finali di Concacaf e di Coppa America del 1993 lo elevano a icona, ma sono i Mondiali statunitensi a consacrarlo nell’immaginario collettivo.

Quando il Messico annuncia la sua intenzione di schierare Campos come portiere volante, Blatter si oppone fermamente: nessuna regola vieta espressamente il cambio di ruolo, ma il padre padrone della FIFA non vuole personaggi sopra le righe, o iniziative che possono cambiare prassi e consuetudini. Campos spiega:

“Non capisco che cosa significhino le dichiarazioni di Blatter. Se io sono in grado di giocare in due ruoli, è un vantaggio che il mio allenatore, se lo ritiene opportuno, ha tutto il diritto di sfruttare. Certo, in tutto il Mondiale, mi piacerebbe giocare almeno un quarto d’ora da attaccante. Sarebbe una soddisfazione personale”.

Blatter è intransigente, e l’unica risposta possibile è disegnare e indossare divise ancora più appariscenti, con improbabili accostamenti di rosa fluo, giallo e verde , che lo rendono riconoscibile a distanza siderale.

Il Messico a Francia 1998. Campos è in piedi sopra il pallone

Se in quanto a colori, Campos fa di tutto per distinguersi, nelle foto di squadra cerca in ogni modo di nascondere la sua bassa statura: Jorge si mette in piedi sopra il pallone, in seconda fila, così da guadagnare una ventina di centimetri e non sembrare “diverso”. In fondo, la vita di Campos si può riassumere in questo contrasto: un disperato bisogno di essere come gli altri, senza perdere un briciolo della propria personalità. La necessità di una maglietta colorata per distinguersi in porta, tenendo sotto una maglia uguale agli altri.

Una figura mitologica, un po’ Arlecchino e un po’ Clark Kent: la solitudine del numero uno e la gloria della punta, invertendo le magliette. Sì, perché Jorge Campos – quando Blatter non lo vieta – gioca come arquero con il numero 9 e come attaccante con il numero 1. Sovvertendo ogni logica europea, per cui l’attaccante è il primo difensore, Campos sembra volerci dire che il portiere è il primo attaccante: perché “Mexico always attacks. That’s what Mexico is”.

Del resto, in un Paese che ha istituzionalizzato perfino la rivoluzione, cosa sarà mai sovvertire ruoli e colori in un campo da calcio?

Dopo USA ’94, La fama di Jorge Campos cresce a dismisura: l’anno successivo è protagonista di uno spot della Nike destinato a fare epoca. Assieme a Cantona, Rui Costa e Maldini sfida i demoni nella più memorabile pubblicità sportiva che si ricordi, Good vs Evil. Non bastasse, perfino Capitan Tsubasa – il nostro Holly e Benji, gli rende omaggio con il personaggio di Ricardo Espadas, portiere goleador che segna alla nazionale giapponese prima dell’inevitabile sconfitta dei messicani.

Ricardo Espadas e Jorge Campos.

Ex surfer, portiere attaccante, icona del calcio mondiale: inevitabile passare ai Los Angeles Galaxy, nella patria dello show business. Una parentesi di due anni, nei quali Campos non segna e non si diverte quanto vorrebbe: dietro le copertine patinate, non c’è il mondo disordinato e passionale dei gringos. Tanto vale tornare a Città del Messico, e alternare porta e attacco, Pumas e Cruz Azul, gol fatti e gol subiti. Concedendosi anche un gol in sforbiciata con la maglia dell’Atlante.

Ai Mondiali del 1998 Blatter gli vieta di indossare divise sgargianti: Campos si presenta in campo con una maglia tutta bianca quando i compagni vestono verde e viceversa. In Confederations Cup l’anno seguente avrà la sua rivincita: un improbabile completo giallo viola e la vittoria della Coppa insieme a Rafa Márquez e Blanco. A chi gli domanda cosa ne pensa dei divieti e delle polemiche attorno alle sue magliette, Jorge Campos risponde serafico: “Che m’importa? A fine partita c’è sempre qualcuno che vuole la mia maglia.

La sobria divisa sfoggiata in Coppa America nel 1999

Jorge Campos si ritira nel 2004. Oggi è un signore di cinquant’anni, che vive l’eterna estate di Acapulco; quando si siede sulla spiaggia e vede quelle coloratissime tavole da surf, ripensa alle magliette con cui solcava i campi da calcio. Diverso dai suoi compagni, ma solo a prima vista; il Messico è come una grande onda e i surfer, in fondo, condividono tutti lo stesso amore.