Juan Sebastian Veron: il piede destro di Dio - Zona Cesarini

Juan Sebastian Veron: il piede destro di Dio

“Io lo so dal primo tocco se quel giorno il pallone in campo mi è amico o no. Se lo è, so che posso fare qualunque cosa, rischiare qualunque tipo di giocata. Ma se è nemico, posso anche alzare la mano e chiedere il cambio dopo dieci minuti” (Juan Sebastián Veron)

Il calcio, il piccolo Juan Sebastián, ce l’ha sempre avuto nel sangue: il padre Juan Ramón, per tutti la Bruja – la strega, soprannome affibiatogli da un compagno di squadra per quel volto non propiamente à-la Alain Delon – ha infatti regalato all’Estudiantes la prima Coppa Intercontinentale della sua storia.

Era il 1968, e fu proprio un gol di quel piccolo ma roccioso centrocampista a permettere ai biancorossi di superare – all’Old Trafford – i diavoli rossi del Manchester United. Che in quella partita, tra gli altri, schieravano il talento indiavolato di George Best al suo meglio.

E invece a trionfare nella partita non fu il funambolico nordirlandese, che venne addirittura espulso per continue scorrettezze con Medina, bensì l’ombroso ragazzo di La Plata, che con quella prestazione si consegnò definitivamente alla storia dei Los Pincharratas (letteralmente: i pugnalatori di topi), con cui resterà a fasi alterne per 13 stagioni. A quel tempo Ramón non conosceva neanche Florencia, la donna che 7 anni dopo diede alla luce i fratelli Juan Sebastián e, a distanza di una decade, Iani.

Ramòn e Juan Sebastian Veròn

Già, Iani Veron: capelli più lunghi ma molto meno talento rispetto al fratello e al padre, arranca da anni tra minors europee – Romania ed Ungheria – e campionati Sudamericani di medio-basso livello (ha giocato pure in Bolivia). Senza che nessuno della famiglia gli abbia mai fatto pesare la minore qualità calcistica, anzi: “Sia Juan che mio padre mi hanno sempre incoraggiato. E poi per loro c’era solo una cosa importante: che riuscissi a giocare almeno una partita con l’Estudiantes”.

Perché se vogliamo parlare dell’epopea dei Veron – ed in particolare di quella di Juan Sebastián – non si può scinderla dai Leoni di La Plata. Dove tutto ebbe inizio e una fine, per i Veron. L’Estudiantes. Non una squadra, bensì una forma di culto pagano.

Un motivo per vivere, una ragione per combattere e sbarcare il lunario in una città periferica di 700.000 anime, deflagrata dal crack dei tango bond governativi esploso a cavallo tra vecchio e nuovo millennio.

Squadra nella quale hanno esordito i tre Veron in tre decadi diverse (1962, 1994 e 2006). E con la quale hanno vinto complessivamente 4 scudetti. Già, perché è nell’anno del ritorno di Juan Sebastián da capitano – come in un melò hollywoodiano – e dopo una decade ad altissimi livelli in Europa, che esordisce in prima squadra proprio Iani. Lanciato dal Cholo Simeone, Iani contribuisce invero poco al ritorno agli antichi fasti del club.

L’Estudiantes campione nel 2006

Perché quella squadra il Cholo la costruisce attorno al naturale talento di Juan Sebastián che, a parte il discreto portiere Mariano Andujar ed il funambolo Mariano Pavone, non condivide il campo con dei fenomeni. O quantomeno, nessuno si aspetta che i biancorossi riescano nell’impresa di vincere il torneo d’Apertura, per di più contro il favoritissimo Boca Juniors di Martin Palermo, Rodrigo Palacio e Fernando Gago.

E invece: sguardo truce, classe da vendere, capelli rasati e pizzetto da pirata, Juan – quarant’anni dopo il padre – conduce lo stesso club ad una storico trionfo. Arrivato contro ogni pronostico e perfino contro ogni logica. Consegnandosi pure lui alla memoria dei tifosi dei Pincharratas, grazie a una cavalcata che ha pochi eguali nella storia del calcio moderno sudamericano.

Come accennato, Juan Sebastián crebbe ai bordi dei campi da calcio: un contesto permeato di passione popolare per il pallone. E per l’Estudiantes, naturalmente. Il suo piede destro lasciò fin da subito pochi dubbi: “questo sarà un calciatore vero, pensai subito”, sentenziò infatti il suo primo allenatore delle giovanili.

“Il fatto è che calciava a 12 anni molto meglio di tanti giocatori della prima squadra: non era velocissimo ma da 25 metri era già in grado di mettere la palla nel sette. E il più delle volte Luis (il secondo portiere) neanche provava a tuffarsi“.

Campione di precocità, l’esordio di Juan Sebastián avviene però nel periodo storico peggiore dell’Estudiantes. Quando il club versa in cattive acque economiche ed è costantemente a rischio retrocessione. Che puntualmente arriva nella seconda stagione di Juan Sebastián: il 1994/95. Nonostante il declino tecnico e societario, una delle poche note liete dell’annata è proprio l’esplosione di quel ragazzino serio e talentuosissimo, che fa girare la testa a molte società.

Infatti, ben presto passa un treno che non si può perdere: quello del Boca Juniors di Buenos Aires. È così che, appena 19enne, Veron parte col padre alla volta della capitale. Rimane a casa mamma Florencia. Un po’ per via della giovane età del fratellino di Juan Sebastián, un po’ perché “era chiaro che si sarebbe fermato poco al Boca: erano già diversi mesi che le squadre europee disturbavano le nostre cene, forse non conoscevano il fuso orario.

Come al solito, mamma Florencia ci vede lungo: dopo pochi mesi arriva una chiamata irrinunciabile. Anche stavolta da una città di mare, ma dall’altra parte dell’Oceano: a bussare è la Sampdoria di Mantovani, a volerlo è l’allenatore, Sven Goran Eriksson. Inspiegabile latin lover ed eccellente scout, lo svedese ha pochi dubbi quando si tratta di rispondere alla domanda “chi ti prendiamo per sostituire Clarence Seedorf?“.

Eriksson si configura come l’allenatore più importante nella carriera di Juan Sebastián. È grazie a lui che l’argentino evita la rescissione contrattuale, dopo una fuga non propriamente dichiarata in Argentina. Ed è sempre lui a volere a tutti i costi Veron nella Lazio di Cragnotti, con cui solleverà una manciata di trofei – tra cui lo storico Scudetto del 2000 – in un paio di stagioni che rappresenteranno il suo apice tecnico.

Ma torniamo al biennio blucerchiato: Juan Sebastián si ambienta subito, ingraziandosi immediatamente il pubblico del Marassi che lo incita a modo suo, parafrasando il celebre ritornello “Go West” dei Pet Shop Boys – “Verooon / Juan Sebaaaastian gol…”.

Fa impazzire gli avversari grazie a quei lanci effettati e millimetrici di 40 metri, coi quali mette in porta le punte o riesce a cambiare gioco sventagliando con una facilità disarmante. Vederlo sciorinare lanci lunghi e fraseggi corti con una visione panoramica del campo, è l’esemplificazione dei concetti di facilità di calcio e visione di gioco. Senza contare quel tiro secco, potente e preciso – che dà l’impressione che il pallone rimanga immobile in aria, come sospeso in un limbo di perfezione – che gli è valso oltre 50 reti in carriera. Di cui una decina da calcio d’angolo. Materiale tecnico di primissimo livello, bagaglio naturale da fuoriclasse.

La Brujita con la camiseta albiceleste

Niente male, considerando che la Brujita – come nel frattempo lo hanno soprannominato con scarsa fantasia i giornalisti argentini – anche in fase di non possesso non si tira certo indietro: corre e contrasta di conseguenza, riversando sul campo quella garra tipica degli argentini.

Che, nel frattempo, si innamorano pure loro di quel todocampista un po’ naif, quel playmaker mobile dalla classe cristallina, che corre con un Che tatuato sull’avambraccio. A soli 21 anni, infatti, un altro Veron viene chiamato in Nazionale: 40 anni dopo il padre, che chiuse la carriera con soli quattro caps con la Selección.

Nonostante le ottime prestazioni, nel 1998 la Samp cede alle lusinghe del patròn Tanzi, e Veron sbarca a Parma. Nell’unica stagione in cui indossa la maglia crociata, Veron conquista da protagonista una Coppa Italia ed una Coppa Uefa. Ma lascia il Tardini dopo appena una stagione, acquistato per circa 30 milioni di euro, con i soldi “dopati”, da Sergio Cragnotti.

È a Roma che l’argentino dà il meglio di sé, aiutato anche dal fatto di poter contare su altri dieci compagni dal valore tecnico elevato che formano una compagine forse irripetibile nella storia della Serie A, almeno per quello che riguarda la linea mediana.

Il centrocampo di quella Lazio, che Eriksson gli disegna intorno, sembra progettato a tavolino per esaltare le sue doti tecniche e balistiche senza spremerlo in un ossessivo lavoro di copertura degli spazi e pressing: accanto a lui infatti giostrano due incontristi inesauribili come Simeone e Almeyda – che si alterna con Stankovic – e sulle fasce due esterni ultra-mobili e polmonari come Nedved e Sergio Conceiçao. Una mediana monstre.

Veron col connazionale Almeyda

Nel biennio 1999-2001, infatti, la Lazio conquista una Coppa Italia, uno Scudetto, una Supercoppa italiana e una Supercoppa europea (contro il temutissimo Manchester United del 1999). E Juan Sebastián riveste un ruolo pivotale nel team di Eriksson, è leader tecnico e carismatico di quella squadra. Dirà poi lui stesso: “La Lazio è il posto dove ho avuto maggiore costanza. Due anni sempre al massimo, senza cadute. Negli altri club ho fatto bene, ma ho anche avuto dei cali“.

Ma dopo i trionfi, arriva la caduta: l’intraprendenza senza limiti di Cragnotti viene bruscamente frenata dai sempre più incolmabili buchi a bilancio non dichiarati, né ripianati. Così, a fine anno, la Lazio smobilita. Come sempre nella carriera di Veron – Estudiantes a parte – i suoi tifosi sono costretti a vederlo partire dopo appena un paio di stagioni.

Stavolta ad aggiudicarsi le prestazioni della Streghetta è una vecchia volpe come Sir Alex Ferguson. Il quale si presentò non certo a mani vuote, bensì con 40 milioni di euro di ragioni dalla sua. Un record per il calcio inglese del periodo, ancora lontano dall’odierna industria multimiliardaria.

Di fianco a Paul Scholes, Veron riesce a giocare un discreto calcio. Mantiene un livello accettabile, anche se lontano dai picchi degli anni passati. In Terra d’Albione, per ragioni tecniche e ambientali, Veron incanta decisamente meno che nella penisola italica: “Certe volte non ero più io: il calcio inglese per me era infinitamente più noioso del vostro”.

Dopo due stagioni a tinte reds, fatte di alti e bassi, Veron passa per 20 milioni di euro al Chelsea. A Londra la Brujita incoccia nel periodo più buio della carriera. Rimane nella capitale per un solo anno, dopo una stagione trascorsa più in infermeria che sul campo, in cui disputa appena 7 partite di campionato, timbrando il cartellino in una sola occasione. Una miseria, un fragoroso flop di cui disfarsi.

Ma, come il calcio italiano nel 1996 lo aveva lanciato sul palcoscenico dei grandi, così lo riaccoglie come un figliol prodigo nel 2004. È l’Inter di Moratti a credere che la Brujita non sia finito, offrendogli un triennale. Nelle stagioni interiste, Veron torna ai suoi livelli dopo la grigia parentesi inglese: intuizione al potere, pragmatismo tattico, rasoiata sempre in canna – che si trattasse di lanciare o di tirare – e leadership tangibile: Juan coi nerazzurri vince un paio di Coppe oltre allo Scudetto del veleno (quello riassegnato dopo la vicenda Calciopoli).

Nel 2006, ormai 31enne, lascia l’Europa e torna inevitabilmente al primo amore. Il presunto tramonto della sua carriera significa invece cinque stagioni ricche di soddisfazioni – personali e non – con l’Estudiantes. Nel club della sua città, Veron continua ad insegnare calcio sul campo, riportando come detto i Pinchas sul tetto d’Argentina (2006) e perfino del continente (Libertadores 2009). Portandosi pure a casa due Palloni d’oro sudamericani come calciatore dell’anno.

Si ritira infine nel 2014, annunciandolo curiosamente nello stesso giorno in cui cala il sipario su un altro grande giocatore argentino: Javiér Zanetti.

Amatissimo da ogni tifoso che ha a cuore l’estetica e la funzionalità del gioco, Juan Sebastián è attualmente il presidente dell’Estudiantes. Ricorderemo le sue incredibili traiettorie di mezzo-esterno, cariche di effetto, il suo sguardo spesso accigliato e – elemento non trascurabile nel gossipparo calcio odierno – le sue pochissime dichiarazioni ad effetto fuori dal terreno di gioco.

Mai sopra le righe – se non quando strettamente necessario per scuotere l’ambiente – uomo di poche ma decise parole, centrocampista dall’enorme cifra tecnica e dal lancio quasi inspiegabile, Veron rimane uno dei simboli di quel fútbol che viaggia ancora sui binari di appartenenza territoriale e talento naturale senza compromessi. In poche parole: è l’emblema del calcio argentino.

Se esistesse un Monte Rushmore calcistico dalle parti de La Plata, probabilmente il suo sarebbe uno dei quattro volti scolpiti nelle rocce di quella montagna.