La Grande Ungheria: dall'Aranycsapat alla Rivoluzione del '56 - Zona Cesarini

La Grande Ungheria: dall’Aranycsapat alla Rivoluzione del ’56

23 settembre 1956. Allo Stadio Lenin di Mosca, l’Ungheria in amichevole rifila all’Urss la prima sconfitta interna della sua storia, battendola per 1-0.

22 novembre 1956. Allo Stadio San Mamés di Bilbao, la Honved è battuta 3-2 nell’andata degli ottavi di finale della Coppa Campioni ’56/’57.

Finirà qui la storia dell’invincibile Ungheria di Puskas, l’Aranycsapat, la Squadra d’oro, e del suo serbatoio di stelle, la Honved. La più bella nazionale di calcio che il mondo fino a quel momento aveva ammirato, e la più forte squadra di club che l’universo pallonaro aveva avuto la fortuna di poter vedere.

Una storia finita per motivi che andavano ben oltre il calcio, come in fondo per quelle squadre era sempre stato. Finita per i carri sovietici sulle strade di Budapest, schierati in due ondate dal Cremlino, dove il destalinizzatore Chruschev aveva stabilito che la nuova rivoluzione ungherese somigliava troppo ad una controrivoluzione. E così le ferree logiche della guerra fredda si portarono via, insieme ad un primo, tragico tentativo di via nazionale al socialismo e di non allineamento ai blocchi, anche una delle più magnifiche scuole di calcio di sempre.

1949. Le elezioni politiche sono stravinte dal Fronte popolare indipendente. Il nuovo parlamento così eletto proclama la Repubblica Popolare. Mátyás Rákosi, segretario generale del Partito dei Lavoratori Ungheresi, diventa de facto il leader dell’Ungheria. L’obiettivo ora è l’edificazione del socialismo, o meglio della sua visione staliniana. E come tradizione sovietica vuole, lo sport è in prima linea in questa opera. È il mito della Fitzcult, la cultura fisica, alla quale inneggiò la leggendaria Start prima di sconfiggere i nazisti sul rettangolo verde.

Naturalmente il calcio magiaro, che è figlio di una scuola importante qual era quella mitteleuropea, non può esimersi dalle riforme che lo devono trasformare in uno “sport proletario“. E quindi s’impone il modello russo, fatto di professionismo di Stato, squadre sotto il controllo degli apparati burocratici, uso politico della nazionale di calcio. E Ràkosi, che ama proclamarsi “miglior discepolo” di Stalin, è zelante nel copiare tutto quel che c’è a Mosca.

Il compagno segretario Matias Rakosi

Così l’MTK Budapest, probabilmente la miglior squadra ungherese del periodo prebellico, passa sotto il controllo della polizia politica (come la Dinamo Mosca), e si rinomina Vores Lobogo (Bandiera Rossa) mentre il Ferecvaros, prestigioso club dell’anteguerra ma dalla tifoseria tradizionalmente nazionalista, fu scartato dai ministeri in quanto ritenuto “ostile”, e sotto il nome di EDOSZ divenne la squadra del sindacato dei lavoratori alimentari (come lo Spartak Mosca).

L’esercito invece ripiegò sulla Kispest, attratto dal talento incredibile di due giovani, Puskas e Bozsik, che divenne così la Honved, la squadra dei “difensori della patria” (come il CSKA). Honved e MTK, tra il ’50 e il ’56, si aggiudicheranno tutti i trofei nazionali, due volte i biancoblu dell’MTK (oltre ad una Coppa Magiara), cinque i rossoneri della Honved. Il Ferecvaros invece passò un periodo buio, risucchiato dal peso politico degli altri due club che lo privarono via via dei migliori giocatori, anche grazie ad espedienti burocratici quali la leva obbligatoria, per via della quale i giocatori erano costretti a militare per la squadra dell’esercito.

Ferenc Puskas in azione con la Honved

La ricostruzione del calcio ungherese passa anche dalla sua nazionale. A guidarla è chiamato Gustav Sebes, che proprio nel 1949 viene nominato ct. Uomo di fiducia del Ministero dello Sport, con un passato di militanza antifascista e operaia alle spalle, Sebes aveva avuto una lunga carriera da calciatore, segnalandosi non come campione, ma comunque come buon giocatore e soprattutto come uomo di grande applicazione e meticolosità.

“Per me il calcio era una questione esistenziale. La mia passione sviscerata per il pallone mi spingeva a vivere “sportivamente”, perché solo cosi avevo modo di entrare come titolare fìsso in squadra e mantenere il posto. Ero molto autocritico, dopo ogni partita analizzavo il mio gioco, cercavo di individuare le mie debolezze e di correggere le deficienze durante gli allenamenti.

Cercavo di mantenermi sempre in buona forma, poiché sapevo che in condizioni fisiche migliori, con una maggiore volontà combattiva, sarei stato capace di avere la meglio anche su calciatori tecnicamente più forti.” (G. Sebes)

Un professionista del pallone, che aveva un’idea precisa su come riorganizzare la nazionale. Il controllo statale delle squadre gli consentiva di promuovere, a tavolino, la concentrazione di campioni nelle squadre maggiori e di strutturare quindi la nazionale in “blocchi” di giocatori che si conoscono e giocano a memoria, mentre il professionismo di Stato gli permetteva di migliorare considerevolmente la preparazione atletica dei suoi.

Ma Sebes era pure un attento osservatore. E agiva di conseguenza, anche in maniera apparentemente bislacca. Come quando nel ’53, in vista di un match a Londra contro l’Inghilterra, si recò sul posto per passare mezza giornata a calciare il pallone sul prato di Wembley, per poi tornare a Budapest con tre palloni inglesi con cui far allenare i suoi, naturalmente dopo aver riprodotto le identiche misure e condizioni nel campo londinese. Risultato finale: l’Ungheria battè l’Inghilterra con un roboante 6-3, infrangendo l’Home Record, l’eterna imbattibilità degli inglesi sul suolo patrio.

O come quando, pochi mesi prima delle Olimpiadi di Helsinki del ’52 che videro poi gli ungheresi trionfare, s’inventò un espediente geniale per risolvere il “caso Hidegkuti“. Nandor Hidegkuti era un’ala destra dell’MTK Budapest, una delle più forti dell’epoca. E aveva caratteristiche di gioco particolari, era un vero e proprio regista avanzato: nonostante la posizione defilata in campo, oltre ai compiti “classici” dell’ala svolgeva abilmente la funzione di tessitore del gioco.

Un giocatore straordinario, che tuttavia non riusciva a rendere in nazionale quello che rendeva nel club. Eppure Sebes su di lui non mollava, era convinto del valore del ragazzo nonostante gli addetti ai lavori lo volessero fuori dal giro. Inoltre alla squadra mancava un tassello. Ferenc Deak, centravanti del Ferencvaros e uno dei migliori cannonieri ungheresi di sempre, era stato “epurato” dalla nazionale in quanto ritenuto oppositore del regime. Fino a quel momento, il sostituto designato era stato Peter Palotas, attaccante dell’MTK Budapest di assoluto valore. Ma Sebes non era convinto.

“Tra Kocsis e Puskas non potevo mettere uno qualsiasi.”

Così in occasione della prima trasferta a Varsavia, Sebes (che non aveva potuto seguire i suoi) lasciò le redini della squadra al suo vice, Mandi, e al capitano, Puskas, dando ad entrambi istruzioni ben precise su chi e come avrebbe giocato. In più, consegnò a Mandi una busta sigillata, da aprire solo poco prima del match, raccomandando a Puskas di rammentarla al mister in caso di dimenticanza. E mentre si apprestavano a scendere in campo, Puskas ricordò un po’ distrattamente a Mandi la lettera, pensando che si trattasse soltanto di parole di circostanza per i ragazzi.

Invece dentro quella lettera c’era una bomba, tattica e psicologica, riassunta in poche parole: la maglia numero 9 va ad Hidegkuti. Dovettero andarlo a chiamare dalla tribuna dove se ne stava comodo e senza pensieri per farlo vestire in tutta fretta e mandarlo in campo. E senza pensieri, Nandor, ci rimase.

Segnò due gol giocando leggero come una piuma, e l’Ungheria vinse 5-1. Hidegkuti giocava male perchè sapendo di dover scendere in campo con la maglia della nazionale, “la sera prima non riusciva a dormire”. Bastò questo espediente per far sparire la pressione da dosso al giocatore e vederlo così all’opera in tutto il suo splendore.

Hidegkuti, mentre realizza il gol del definitivo 3-6 contro l'Inghilterra

Dal riposizionamento di Hidegkuti scaturì la nascita della variante ungherese al Sistema, figlia della genialità e intuitività di Gustav Sebes. Una rivoluzione, che si realizzò nel passaggio dal modulo WM al modulo MM, quel 3-2-3-2 che proprio contro le squadre sistemiste si rivelava devastante: mantenendo le stesse marcature del tradizionale WM esso non lasciava spazi dietro; ma l’inversione delle posizioni avanzate portava estrema confusione nelle difese a uomo avversarie, che si vedevano risucchiare costantemente i difensori a centrocampo verso i tre trequartisti, con i mediani costretti a piantonarsi in difesa per chiudere le due mezzali che in realtà erano due punte.

Hidegkuti divenne così il primo, micidiale, falso nueve della storia, tant’è che quel modo di giocare e di interpretare il ruolo del centravanti sarebbe stato definito proprio come “centravanti alla Hidegkuti“, locuzione oramai superata a causa dei recenti trionfi catalani di scuola guardioliana ma rimasta in auge per anni, tanto da venir assegnata, per esempio, oltre vent’anni dopo anche a un tal Johan Cruijff.

Ma non si poteva limitare a quel cambio di modulo la fonte della potenza dell’Aranycsapat. La sua forza stava nella combinazione tra lo strepitoso tasso tecnico dei suoi giocatori e la concezione di calcio che Sebes aveva strada facendo appreso, insegnato e fatto applicare dai suoi meravigliosi interpreti, e che non era solo una (pur geniale) innovazione tattica. Era bensì un modo diverso di interpretare le partite di pallone. Tutti dovevano attaccare, tutti dovevano difendere. Corsa intelligente, scambio di ruoli, gioco di squadra nel senso più vero del termine. Sebes lo definiva calcio socialista.

“Giocavamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistevano soluzioni particolarmente innovative. La filosofia era quella, semplicissima, di buttare la palla in fiondo al sacco, sempre e comunque.” (F. Puskas)

Quel collettivismo applicato all’undici in campo, che tanto piaceva al Partito, ma che il Partito non aveva la minima idea di come funzionasse. In realtà, dietro gli orpelli retorici, si era già ad una visione del pallone antitetica a quella del regime.

Fino alla morte di Stalin, nel Patto di Varsavia andava di moda il Realismo Socialista. Se prendiamo l’esempio della nazionale ungherese, il socialismo ce lo metteva la squadra in campo, il realismo ce lo metteva il governo, godendo dei frutti e dell’immagine di quella gioiosa macchina da guerra ed elargendo premi invece che purghe, come il posto da deputato assegnato a Jozsef Bozsik, regista della squadra e comunista di ferro. Contraddizioni staliniane.

Gusztav Sebes

1954, Svizzera. È la coppa del mondo. La nazionale rossa si presenta da favorita assoluta. Da quattro anni è imbattuta. Ha vinto, dominando ogni partita, le olimpiadi di Helsinki, battendo in finale 2-0 la temibile Jugoslavia, vendicando così la sconfitta sovietica contro i deviazionisti titini avvenuta ai quarti, e che tanto caro era costata ai calciatori russi.

Ha vinto il “Torneo Internazionale“, l’antenato del Campionato Europeo, rifilando tra gli altri un secco 3-0 all’Italia a Roma. Ha umiliato i maestri dell’Inghilterra, con quel famoso 6-3 di Wembley bissato poi da un sonoro 7-1 a Budapest, risultati che portarono gli inglesi a leggere nel modulo MM la sigla di “Mighty Magyars“, i Poderosi Magiari.

In porta c’era Grosics, la “Pantera Nera“, uno dei migliori portieri allora in circolazione, il primo in assoluto ad interpretare il ruolo di estremo difensore alla lettera, cioè come ultimo baluardo a difesa della porta. E lo faceva uscendo dai pali come nessuno mai. Un libero, un difensore aggiunto, che in porta era insuperabile. Davanti a lui i terzini Buzánszky e Lantos e lo stopper Lorant, tre difensori solidi e di sostanza, adeguatamente schermati a centrocampo da una delle più forti coppie di mediana di sempre: i due Jozsef, Zakariás e Bozsik.

Il primo, un portatore di legna tanto oscuro quanto prezioso, che si diceva dotato di quattro polmoni tanto che correva. Il secondo, era semplicemente uno dei più forti registi della storia. “Cucu“, alla quantità necessaria del mediano, univa una visione di gioco, una creatività, una personalità nel condurre e impostare il gioco come non si erano mai viste, oltreché un piede tanto delicato quando c’era da far girare il pallone quanto duro quando c’era da recuperarlo.

Bozsik József

Poi le ali, a sinistra il velocissimo Czibor, mancino dal dribbling fulminante e dalla spiccata propensione offensiva. A destra invece c’erano, alternativamente, Budai o Toth, giocatori simili, meno lanciati all’attacco, più portati al lavoro d’impostazione tipico dei centrocampisti. Infine il magico tridente, la cima della M, con Hidegkuti e la sua 9 pronti a rifornire due attaccanti straordinari travestiti da mezzali.

Con la 8, Sandor Kocsis, detto “testina d’oro“, un nomignolo che ben caratterizzava il giocatore. Kocsis è stato il più forte colpitore di testa della storia, capace di indirizzare il pallone con la fronte come gli altri facevano con i piedi. Piedi che comunque sapeva bene come usare, perché se è vero che segnò in nazionale oltre 40 reti aeree, le rimanenti le realizzò con le estremità inferiori, per un totale di 75 (in 68 presenze), 11 delle quali solo nel mondiale del ’54.

Accanto a lui, con la 10, il Colonnello, Ferenc Puskas. Difficile anche solo descriverlo. Mancino micidiale, classe infinita e oltre 1000 gol accreditati in carriera, 592 dei quali in competizioni ufficiali, tra Honved, Real Madrid e Ungheria. Tale è leggendaria la sua figura come calciatore che ai nostri giorni il più bel gol dell’anno viene premiato con un trofeo che porta il suo nome. Un tal Alfredo Di Stefano, inizialmente dubbioso sul suo approdo al Real per via della sua scarsa forma fisica, dopo averci giocato insieme lo definì semplicemente il miglior giocatore di tutti i tempi.

L'Aranycsapat: da sinistra a destra, in piedi: Lorant, Buzansky, Hidegkuti, Kocsis, Zakarias, Czibor, Bozsik, Budai. Seduti: Lantos, Puskas, Grosics

Per i mondiali dei suoi cinquant’anni la Fifa, vera padrona di casa, si sbizzarrì con una formula del torneo atta a garantire la “spettacolarità”. Quattro gironi da quattro squadre, con due “teste di serie” in ciascun girone che non possono incontrarsi. Si qualificano le prime due squadre, se la seconda e la terza sono a pari punti si procede con uno spareggio, mentre se lo sono la prima e la seconda sarà il lancio della monetina a stabilire le posizioni in classifica, necessarie a formare i quarti di finale.

Gli ungheresi capitano in un girone morbido, con Germania Ovest (alla prima partecipazione dalla fine della guerra, dopo l’esclusione punitiva del ’50), Turchia (scelta come seconda testa di serie, pur essendosi qualificata ai danni della Spagna solo grazie al lancio della monetina) e Corea del Sud (alla prima partecipazione assoluta), liquidando la pratica con due roboanti vittorie: 7-0 ai coreani, 8-3 alla Germania.

Ma c’è una nota dolente: Puskas, sul quale aleggiava un’aura di invulnerabilità tale era la sua forza non solo nel dribblare gli avversari ma anche nel resistere ai contrasti più duri, esce acciaccato dal match contro i tedeschi, che per arginare l’onda d’urto magiara non trovano di meglio che colpire duro chiunque gli capiti a tiro.

L’assenza di Puskas condizionerà non poco gli ungheresi nel quarto di finale contro il Brasile, battuto in una gara nervosa, forse la peggiore dei rossi da quattro anni a questa parte, passata alla storia come “Battaglia di Berna“.

E non tanto per i ritmi alti e i gol segnati (finirà 4-2), ma per quella sommatoria di rigori (uno per parte), espulsioni (Bozsik per i magiari, e Pozzo su la Stampa noterà come quello fosse il primo caso di parlamentare espulso da un campo da gioco), infortuni (Toth II a metà primo tempo, lasciando di fatto già in 10 gli ungheresi) e rissa totale finale innescata da un destro mollato da un giornalista brasiliano ad un poliziotto e chiusa da una bottigliata del “Colonnello” ad un giocatore brasiliano al termine di un vivace alterco mentre quest’ultimo usciva dal campo.

In mezzo, caccia all’uomo sugli spalti, in campo, e negli spogliatoi; con la quale i brasiliani sfogano quattro anni di frustrazioni conseguenti al Maracanazo del ’50 che gli costò un Mondiale ritenuto già vinto.

Calciatori brasiliani e poliziotti durante un pacato scambio di opinioni tecniche

Di ben altro tono sarà la semifinale contro i campioni in carica dell’Uruguay, anch’essa poi terminata 4-2 a favore dei magiari che riuscirono a spuntarla solo ai supplementari, efficacemente contrastati dall’alto tasso tecnico e dalla garra della Celeste, capace di rimontare due gol per poi cadere solo sotto i colpi aerei di Kocsis.

4 luglio 1954, Berna, finale della Coppa del Mondo. Ad affrontare la Squadra d’oro ungherese c’è la Germania Ovest, giunta fin lì tra lo stupore generale, con qualche colpo di fortuna, astuzie di vario genere e una spinta popolare che sfogava sulla nazionale germanica le frustrazionei e i trami della drammatica guerra mondiale e della sconfitta.

Colpi di fortuna, quelli accaduti ai quarti contro la Jugoslavia, che si fece un autogol, rimase in 10 per infortunio e sprecò più volte le occasioni di pareggiare, per poi finire di nuovo trafitta (in fuorigioco) a 5′ dalla fine. Astuzie, come quelle conseguenti proprio il primo match con l’Ungheria, dove il ct tedesco Herberger aveva lasciato a riposo numerosi titolari, puntando tutto sullo spareggio da giocarsi contro la Turchia (che come aveva previsto battè facilmente la Corea del Sud) invece di cercare un’improbabile vittoria qualificazione contro i magiari.

E un’affermazione perentoria, quella a sorpresa nella semifinale di lingua tedesca contro l’Austria, umiliata 6-1 a causa della giornata no in cui incappò il portiere Zeman e al conseguente crollo psicologico dei biancorossi, sovrastati sul piano atletico dai tedeschi che con ciò riuscivano a compensare i loro limiti in eleganza e palleggio.

Sebes per la gara mischia le carte in tavola. Puskas, ancora acciaccato, va in campo. L’ala sinistra Czibor va a destra, sul lato opposto c’è M.Toth e non Budai. Se appare quasi ovvio non poter prescindere dal Colonnello in una finale mondiale, nonostante le condizioni precarie, l’inversione delle ali è invece una novità tattica assoluta.

Secondo il ct, il terzino tedesco Kohlmeyer (sinistro talmente puro da usar il destro solo per stare in piedi) si sarebbe trovato in difficoltà negli 1 vs 1 contro Czibor (che pur mancino con il destro sapeva palleggiare), cosa che avrebbe permesso al magiaro di rientrare sul sinistro, tagliare verso il centro del campo e puntare la porta.

I due capitani, Ferenc Puskas e Fritz Walter, si apprestano a scendere in campo.

Dopo appena 8 minuti il genio di Sebes sembra aver colpito ancora una volta nel segno, perché l’Ungheria è già avanti per 2-0 con le reti proprio di Puskas e Czibor. Inizia a piovere. Passano 120 secondi e i tedeschi accorciano con Morlock su svarione difensivo ungherese. Al 18′ c’è un corner per la Germania Ovest, e in mischia mentre Grosics subisce una carica, Rahn trova un pareggio che già sa di leggenda. All’intervallo, è 2-2.

Nella ripresa la bagarre è serrata, ma il campo pesante a causa della pioggia sfianca gli ungheresi, che per oltre un’ora si sono visti fermare tutti gli attacchi dal portiere Turek in stato di grazia, con Puskas che ha fallito due occasioni per lui quasi banali e Czibor che da destra fa collezione di bordate sul palo.

Minuto 84. Bozsik perde palla banalmente a centrocampo. La riceve Rahn, che rientra, salta Lorant, tira dai 16 metri e segna. L’Ungheria è sotto a sei minuti dalla fine. Sei minuti di assedio totale dei magiari che paiono concretizzarsi proprio all’ultimo, quando in pieno recupero è ancora Puskas a trovare la rete.

Ma l’arbitro non convaliderà, nella perplessità generale. Finirà lì. Germania Ovest 3 Ungheria 2. Il “Miracolo di Berna“. Era la prima sconfitta dell’Aranycsapat da 4 anni. E non poteva essere più amara.

La Germania occidentale aveva privato degli allori della vittoria una delle più belle squadre di sempre, come avrebbe poi fatto vent’anni dopo. Ma almeno nel ’74 sulla vittoria tedesca non aleggeranno gli spettri del doping, avvalorati dallittero che colpì vari giocatori tedeschi nelle settimane successive al trionfo di Berna.

Degli 11 tedeschi scesi in campo per la finale, sei di loro non arriveranno a compiere settant’anni.

Ora la storia assume altre tinte, ben più tragiche, che con il calcio hanno poco a che fare. In seguito alla sconfitta, sulla squadra scatteranno pressioni, maldicenze, violenze. Sebes subirà una scorribanda di ultras al soldo dell’AVH sotto casa, e vedrà sbattersi in prima pagina la bufala di aver promesso in sposa sua figlia di undici anni al maggiore dei fratelli Toth. Ma nonostante questo rifiuterà di dimettersi, e il Ministero dello Sport non oserà imporre il suo esonero.

L’Aranycsapat sembrava poter ripartire, così come era ripartita la Honved, vincitrice del campionato nel ’54 e nel ’55 e prossima all’esordio in una neonata competizione europea, la Coppa Campioni, l’idea della quale era sorta sull’onda dell’entusiasmo per quell’amichevole spettacolare giocata contro il Wolverhampton campione d’Inghilterra.

Ma andrà diversamente. In Ungheria la convulsa lotta politica scattata alla morte di Stalin tra conservatori e progressisti, spingerà il Partito a porsi il problema della convivenza tra il socialismo e la democrazia. Imre Nagy, leader dei riformatori, incarnava l’esigenza dei lavoratori di sanare la contraddizione della dittatura del proletario divenuta dittatura sul proletariato. Ma le spinte popolari per la libertà nel socialismo e l’effettiva indipendenza nazionale si scontreranno con le esigenze geopolitiche dell’Unione Sovietica.

La destalinizzazione in Ungheria

La crisi deflagrerà nell’autunno ’56, con il ritorno di Nagy al governo e il collasso del Partito e degli apparati di sicurezza quali l’AVH, sommersi dalle risorte organizzazioni dal basso dei lavoratori e degli studenti. I sovietici, già presenti nel paese, affluirono in forze all’annuncio del ritiro del paese dal Patto di Varsavia. A ripristinare “l’unità socialista” ci penseranno così i carri russi, tuonando per venti giorni nelle strade di Budapest.

Nagy, rifugiatosi all’ambasciata jugoslava per sfuggire all’arresto, sarà catturato il 22 novembre, proprio mentre Puskas e compagni pareggiavano nei Paesi Baschi contro l’Athletic. La polizia politica lo fucilerà per alto tradimento due anni dopo.

Carri armati per le strade di Budapest

Il campionato magiaro, che fino a quel momento vedeva la Honved capolista, sarà prima sospeso e poi annullato. E la squadra scomparve. I giocatori si rifiuteranno di rientrare in patria, andando a giocarsi il match di ritorno in Belgio. Perderanno per 3-2, giocando gran parte della partita in 10 e senza portiere a causa dell’infortunio subito da Grosics. Eliminati, ed ora esuli. In fuga dalla repressione e dai suoi resoconti, che già davano Puskas per morto sulle barricate di Budapest.

Invece il Colonnello, ora considerato disertore, peregrinava tra Sudamerica, Italia e Spagna, con una squadra proclamata illegale dalla FIFA e radiata dal Ministero dello Sport ungherese; che viveva di amichevoli e di aiuti economici messi a disposizione dai numerosi esuli ungheresi sparsi per l’Europa, ai quali si era aggregato anche il capitano della Germania del ’54, il leggendario Fritz Walter.

Forse uomini codardi. Forse solo uomini.

Qualcuno rientrò in patria, Hidegkuti e Bozsik da figliol prodigi, Grosics da sospetto traditore, tanto erano note le sue simpatie anticomuniste spinte quasi fino all’estremo opposto. Molti trovarono una nuova casa in Spagna, come Kocsis e Czobir che finiranno nel Barcellona.

Kocsis, Czibor e un esule di vecchia data, Kubala, con la maglia blaugrana

Puskas invece andrà al Real Madrid, dopo esser stato vicino a più squadre italiane, fra le quali la Fiorentina all’epoca vice-campione d’Europa. Un curioso aneddoto a tal proposito racconta che durante la trattativa i viola ebbero come intermediario un tal Renato Bonardi, che oltrechè esser uomo vicino all’allora dirigenza gigliata, era presidente di una piccola squadra di paese, il Signa 1914.

Per portar avanti i contatti Bonardi invitò l’ungherese (che in quel momento viveva a Bordighera) a trascorrere qualche giorno proprio in quel di Signa, a pochi chilometri da Firenze. In quelle giornate tranquille i due uomini strinsero una sincera e duratura amicizia, che sull’immediato valse al Bonardi un piccolo regalo: Puskas sarebbe sceso in campo con il Signa, in un’amichevole contro la neonata squadra primavera dell’Empoli. Nella foto scattata prima dell’amichevole, Puskas è il terzo in basso da sinistra.Il Signa 1914 in campo contro l'Empoli. Puskas è il terzo in basso da sinistra

Fu un evento singolare, con uno dei migliori giocatori del mondo stare lì, in campo, tra dilettanti e ragazzini che lo guardavano estasiati, in un paesello sperduto in provincia di Firenze. Per la cronaca, il Signa si impose per 3-0, reti tutte nate da assist di Puskas, che poi a fine gara fece i complimenti al giovanissimo portiere empolese, Luciano Corsinovi, che per quattro volte gli negò il gol.

La trattativa con la Fiorentina non si concluse, e Puskas andò a vestire la camiseta blanca, dove giocò altri 8 anni vincendo svariati titoli individuali e di squadra, tra cui la prima Coppa Intercontinentale della storia. Il Signa 1914 rimase la sua unica squadra italiana.

Di Stefano e Puskas nel Real Madrid

La ricostituita Honved non aveva più niente il comune con la squadra di prima, tanto che nel transitorio campionato del 1957 finì penultima, e fu salvata solo dall’allargamento del numero di squadre ammesse in prima serie. Solo Bozsik rimase fedele alla causa della squadra dell’esercito.

Della Grande Ungheria non rimase traccia, o quasi. I trasfughi rientrati furono riammessi in nazionale, ma la selezione rossa (che già aveva dovuto rinunciare a difendere l’oro olimpico a Melbourne a causa della fuga della Honved, oro oltretutto finito proprio all’Urss guidata da un allora giovanissimo Edik Strel’cov) raccoglierà solo brutte figure ai mondiali svedesi del ’58, finendo eliminata in uno spareggio contro il Galles di John Charles.

Ma quel seme di splendido calcio non andò perso. Germoglierà vent’anni dopo. Era un tulipano, simbolo nazionale dell’Ungheria. E dell’Olanda. L’Olanda di Cruijff.