Glenn Peter Stromberg, l'angelo biondo che stregò l'Atalanta
(© SCANPIX SWEDEN)

Il Cielo sopra Bergamo. Glenn Stromberg, l’angelo biondo che stregò una città

Ci sono istanti, nella vita di un calciatore, che da soli sono in grado di spiegare intere biografie. Piccoli gesti, talvolta impercettibili, frammenti di passato che riaffiorano dalla memoria e immediatamente rendono tutto meno opaco, sgretolano quel filo che lega l’uomo all’atleta, ti forniscono la chiave per comprendere destini e carriere. Sono momenti di gioia collettiva, come l’urlo di Tardelli, o di rabbia incontrollabile, come la reazione di Pasquale Bruno dopo l’espulsione in un derby.

Eccessi, in ogni caso, che rapidamente s’incastonano nell’immaginario e si appiccicano come etichette ai loro protagonisti, definendoli una volta per tutte senza rendere giustizia del contesto o di una vita sportiva nel suo complesso. Ci sono giocatori, invece, per cui quell’istante va scovato dietro un gesto ordinario, di quelli ripetuti probabilmente decine di altre volte, ma che improvvisamente, per via delle conseguenze, assumono un altro significato e risolvono l’enigma. Per Glenn Peter Stromberg, quell’attimo si è materializzato in una fredda giornata di gennaio del 1990, un mercoledì pomeriggio per l’esattezza. A Bergamo si sta giocando Atalanta – Milan, valevole per il terzo turno di Coppa Italia; i padroni di casa stanno conducendo per 1-0, risultato che li qualificherebbe alle semifinali.

A quei tempi, la Coppa Italia era costruita intorno a un regolamento macchinoso, ma infinitamente più equilibrato e democratico di quello attuale; dopo due turni eliminatori a partita secca che coinvolgevano indistintamente squadre di serie A, B e C, le restanti dodici venivano suddivise in quattro gironi da tre, con le rispettive vincenti promosse alle semifinali. Uno di questi gruppi è composto dal Milan di Sacchi, la squadra più forte del mondo, dall’Atalanta e dal Messina che gioca in serie B; in Sicilia, i bergamaschi non sono andati oltre un pareggio a reti bianche, mentre il Milan si è sbarazzato 6-0 dei giallorossi a San Siro.

Ma la vittoria, a quei tempi, vale ancora due soli punti ed ecco perché con il vantaggio firmato da Bresciani al Comunale di Bergamo, l’Atalanta sarebbe qualificata. Al 90’, Strömberg riceve palla dal suo portiere Ferron; al centro dell’area c’è un giocatore del Milan a terra, Borgonovo, e lo svedese dell’Atalanta appoggia la sfera in fallo laterale. Con ingenua noncuranza, non la spazza lontano, ma la accompagna fuori a pochi metri dalla bandierina, in piena zona d’attacco degli avversari. Ferron gli urla qualcosa, lo maledice, gli indica di calciarla più avanti.

Ha già capito tutto: e infatti, sulla rimessa che segue, Rijkaard serve Massaro che invece di restituire il favore, scodella un cross in mezzo all’area dove Borgonovo, rialzatosi nel frattempo, controlla la palla e ingaggia un duello con l’incredulo Barcella, costretto a stenderlo. Rigore che Baresi trasforma per l’1-1 che manda il Milan in semifinale e gli atalantini a inseguire gli avversari negli spogliatoi.

In quel naturale atteggiamento di chi sa che il calcio, in fondo, è solo un gioco (o dovrebbe esserlo) sta tutta l’essenza schietta e spontanea di questo vichingo venuto dal freddo che proprio tra le nebbie e il calcio ruspante della provincia bergamasca ha trovato la sua dimensione, trasfigurando in eroe epico e imperituro. Eppure, prima di contribuire a scrivere le pagine più belle della lunga storia dell’Atalanta, Glenn Peter Stromberg aveva avuto la fortuna e il merito di gustare i prestigiosi palcoscenici del calcio europeo.

Nato nel gennaio del 1960 a Brämaregården, sobborgo della periferia di Göteborg, da bambino e adolescente Stromberg coltiva due amori sportivi: il calcio e il ping-pong. Gioca nel Lerkils IF, una società dilettantistica di Vallda, brumoso paesino che dista 30 chilometri da Göteborg, sulla costa occidentale che sfiora la Danimarca, e contemporaneamente fa regolarmente parte delle rappresentative nazionali giovanili del tennis tavolo.

Poi, a sedici anni, il bivio: l’IFK Göteborg lo chiama, lui tentenna ma alla fine sceglie il calcio, tra le due la disciplina in cui eccelle di meno. È un solitario, non ama il gioco di squadra e quando ha la palla tra i piedi s’intestardisce nei dribbling; per uno così c’è bisogno di un allenatore razionale, rigido, che concepisca il calcio come una macchina perfettamente organizzata anche al punto da risultare noiosa. E quell’uomo arriva, appare finalmente nella vita del giovane centrocampista dall’indomito spirito anarchico: si chiama Sven-Göran Eriksson e nel 1979, a soli 31 anni, viene chiamato sulla panchina dell’IFK.

Eriksson si è formato nei campionati minori di Svezia, dove ha potuto sperimentare un 4-4-2 mutuato dalla tradizione anglo-sassone, ma con una difesa a zona portata all’eccesso, ritmi di lavoro serrati e un’autentica ossessione per la tattica, soprattutto in fase di non possesso palla. Il risultato è una squadra decisamente solida, ma terribilmente soporifera; un giornalista svedese ha scritto che “il Göteborg era la squadra più difficile da battere, ma anche la più difficile da guardare” tanto che, si racconta, nei primi anni con Eriksson alla guida, la media spettatori al vecchio stadio Ullevi scese da 13mila a 3mila presenze.

Nella stagione ’81-’82, però, l’IFK Göteborg comincia a raccogliere quanto seminato, mettendo in bacheca un insolito triplete: campionato, Coppa di Svezia e Coppa Uefa, primo trionfo continentale per un club svedese. Nella doppia finale liquida con due vittorie l’Amburgo (che un anno dopo vincerà la Coppa dei Campioni contro la Juventus), ma è tutta la competizione a mettere in mostra la forza organizzativa degli svedesi, capaci di sconfiggere anche una pesante crisi finanziaria del club, con i tifosi che allestiscono una colletta per coprire i costi della trasferta di Valencia nei quarti di finale.

La colonna di quella squadra, in cui giocano anche due futuri “italiani” come Glenn Hysen e Dan Corneliusson, che vestiranno le maglie rispettivamente di Fiorentina e Como, è proprio Glenn Peter Stromberg, pedina insostituibile nella macchina impostata dal connazionale; capace di recuperare palloni e allo stesso tempo di dettare i tempi di schemi offensivi costruiti a memoria, il biondo guerriero del centrocampo diventa il nodo essenziale del calcio automatizzato che Eriksson ha in mente.

La relazione tra i due si fa inossidabile e, per certi versi, indispensabile: il tecnico di Torsby è il primo allenatore fondamentale nella carriera del giocatore, quello che lo trasforma in professionista e intuisce le potenzialità che può esprimere dentro uno schema che presto diventerà dominante in tutta Europa. E quando nell’estate del 1982 Eriksson passa al Benfica, porta con sé l’ormai inseparabile angelo biondo; a Lisbona, però, l’ambientamento è più complicato del previsto e, a causa di un problema di tesseramento, Stromberg trascorre la prima parte della stagione a giocare con la squadra riserve.

Fa comunque in tempo a vincere due campionati, una coppa nazionale e a raggiungere nuovamente la finale di Coppa Uefa un anno dopo il trionfo con la maglia del Göteborg; i lusitani devono però arrendersi ai belgi dell’Anderlecht. Nel 1984, Eriksson approda in Italia, per raccogliere l’eredità di Liedholm sulla panchina di una Roma ancora stordita dalla sconfitta ai rigori nella finale di Coppa Campioni giocata all’Olimpico contro il Liverpool; per la prima volta, le strade del tecnico svedese e del suo pilastro di centrocampo si dividono.

Anche Stromberg atterra nel campionato italiano, ma seicento chilometri più a nord, in una tranquilla città dalle origine celtiche adagiata ai piedi delle Alpi, dove la squadra locale è appena tornata in serie A. La allena Nedo Sonetti, navigato tecnico della profonda provincia italiana, interprete rigoroso dell’antica tradizione difensivista nazionale; un toscano ruvido, dai modi spicci e burberi, praticamente l’opposto del signorile Eriksson.

Uno svedese all’Atalanta non è una novità: anzi, ad essere precisi, il primo scandinavo a giocare in Italia lo fece proprio con la maglia nerazzurra. Si chiamava Bertil Nordahl e arrivò a Bergamo nel 1948, un anno prima che il fratello minore Gunnar – decisamente un’altra stoffa – fosse acquistato dal Milan di cui sarà bandiera e miglior marcatore di tutti i tempi con oltre duecento gol. Ma soprattutto, da Bergamo passa Hasse Jeppson, attaccante e capitano della nazionale che ha ben impressionato ai mondiali brasiliani del 1950 giungendo terza: l’Atalanta lo acquista nel 1951 e lui ricambia segnando 22 gol in 27 partite, un bottino che vale l’interessamento del Napoli del presidente Achille Lauro e il trasferimento in terra partenopea per l’allora sconvolgente cifra di 105 milioni di lire. Ribattezzato Banco e’ Napule, è considerato il primo affare milionario nella storia del calciomercato italiano.

Nell’Atalanta di Sonetti, l’angelo di Göteborg fatica a integrarsi; i tifosi lo chiamano “Marisa” per via della lunga chioma bionda e per un rendimento altalenante che non appare particolarmente propenso al sacrificio. Si diffondono anche voci di una sua presunta omosessualità, condite di sarcasmo in quell’Italia meschina e un po’ spaccona di pieni anni ’80. Poi, nella stagione ’86-’87 arriva la retrocessione; la squadra però è andata inaspettatamente avanti in Coppa Italia arrivando sino alla finale contro il Napoli, fresco vincitore del suo primo scudetto.

E così, indipendentemente dalla sconfitta, con i partenopei di Maradona in Coppa dei Campioni, a rappresentare l’Italia in Coppa delle Coppe ci andrà l’Atalanta. C’è da conquistare il campionato cadetto per risalire prontamente in serie A e, contemporaneamente, scendere in campo nelle notti europee del mercoledì. E c’è un solo allenatore in Italia che può tenere insieme queste due dimensioni con semplicità e naturalezza: Emiliano Mondonico da Rivolta d’Adda. Nell’estate del 1987, la dirigenza atalantina si affida a lui; Mondonico e Stromberg si piacciono subito, hanno entrambi quell’indole ribelle un po’ scanzonata per cui è facile capirsi senza il rischio che una personalità prenda il sopravvento sull’altra. Si annusano, si attirano, si amalgamano immediatamente. È lui il secondo allenatore fondamentale della sua carriera.

Hanno in comune la passione per i Rolling Stones; Mondonico, da giocatore, si è persino fatto squalificare intenzionalmente per andare a vederli in concerto. È successo nel 1967, quando indossava la maglia della Cremonese. Let’s spend the night together. Ci sono notti da passare insieme; la notte buia del purgatorio in serie B e quelle di Coppa dove scrivere pagine mai vergate prima nella tranquilla Bergamo.

Mondonico guarda Stromberg negli occhi e gli affida la fascia da capitano, proprio come nella nazionale svedese. E in quell’estate tormentata, l’angelo biondo allontana per sempre tutte le sue paure, rinunciando definitivamente anche alle pressioni di Eriksson che in quegli anni ha tentato più volte invano di portarlo con sé a Roma. Strömberg smette i panni di Marisa e indossa quelli dell’indomabile guerriero destinato a popolare in eterno la memoria dei tifosi atalantini.

“Non ci andai anche per situazioni contingenti, perché se avessi seguito Eriksson in giallorosso, così come era capitato al Benfica, si sarebbe troppo parlato del fatto che fossi un suo pupillo. Quindi scelsi di restare a Bergamo senza alcun rimpianto.”

Accade in ritiro pre-campionato durante un’amichevole; nonostante due gol e una gagliarda prestazione, uno spettatore si ostina a dileggiarlo con quel nome da donna. Stromberg chiama a sé il compagno Aldo Cantarutti e insieme a lui scavalca la rete di recinzione; prende il buontempone per il bavero della giacca e gli urla tutto il suo ritrovato orgoglio.

“Io non sono Marisa. Io sono Glenn. Glenn Strömberg, capitano della Svezia e dell’Atalanta. Non lo dimentichi mai. Né lei, né tutti gli altri”.

Un capitolo nuovo è cominciato. Ora Stromberg è a tutti gli effetti l’anima di quell’Atalanta; forse anche per via di quel look insolito, così simile alla Dea simbolo della società, la sua identificazione e immedesimazione con il club è totale. L’incredibile cavalcata in Coppa delle Coppe è l’iconografia perfetta di quel sentimento di “atalantinità” da lui magistralmente incarnato; eliminati i gallesi del Merthyr Tydfil, i greci dell’OFI Creta e i portoghesi dello Sporting Lisbona, l’Atalanta arriva fino alle semifinali contro i belgi del KV Mechelen. Nella sconfitta per 2-1 in trasferta, il gol che tiene in vita le speranze dei nerazzurri lo segna proprio il capitano, quasi un estremo atto d’amore, la volontà di prolungare all’infinito il sogno dell’impresa; ma nel ritorno in un “Comunale” magico e incandescente, il gol iniziale di Garlini è solo un’illusione troppo bella e fugace per essere vera e, dopo il palo di Daniele Fortunato, i belgi ribaltano il risultato.

Da squadra simpatia capace di far parlare di sé tutta Italia (si calcola che dieci milioni di telespettatori videro la gara d’andata contro il Mechelen in televisione), l’Atalanta si è nel frattempo costituita come solida realtà; tornata subito in serie A, ottiene l’accesso alla Coppa Uefa per due anni consecutivi. Al primo tentativo, viene sconfitta dai forti sovietici dello Spartak Mosca, mentre nel ’90-’91 raggiunge i quarti di finale, battuta solo dall’Inter dopo aver eliminato, tra le altre, la Dinamo Zagabria di Boban e il Colonia di Illgner.

Intanto, Mondonico è passato al Torino e sulla panchina dell’Atalanta sono arrivati prima Pierluigi Frosio e poi Bruno Giorgi. Al termine della stagione ’91-’92, Stromberg stupisce tutti e annuncia il ritiro dal calcio giocato a soli 32 anni; rinuncia persino alla partecipazione ai Campionati Europei che quell’estate si giocano proprio in Svezia. Nell’ultima gara casalinga di campionato è a bordo campo infortunato, ma la curva Nord gli tributa un omaggio irripetibile; ironia della sorte, l’avversario è il Torino e a fine partita lui e Mondonico vengono portati in trionfo. Piange: è la prima volta, ma non sarà l’ultima. È come se volesse fermarsi un attimo prima della consacrazione, proteggere il ricordo di sé stesso da uno sport che in quegli anni sta mutando pelle e virando pericolosamente verso i tornanti del calcio-business. Dalle pendici delle Orobie guarderà passare a valle il cadavere di un pallone che nel corso del tempo perderà gran parte della sua innocenza; se ne starà lì, sulle rive del torrente Morla, a sciogliersi in bocca l’amato tabacco svedese e a parlare della Dea con immutata passione.

(credits: Ansa/Paolo Magni)

Già, perché Stromberg da Bergamo non se ne andrà mai veramente, continuerà a viaggiare sopra e dentro la città, come l’angelo disincantato di Wim Wenders; commentatore tv in patria, poi imprenditore nel settore alimentare, è solo tra le nebbie della pianura padana che il vichingo biondo ritrova la serenità. E ancora oggi si commuove quando, nelle afose estati lombarde, la Festa della Dea lo abbraccia come una divinità; e ancora oggi, lungo le strade dell’estesa provincia bergamasca, da Scanzorosciate alla Val Brembana, dalla Presolana a Dalmine, non è raro incontrare sui muri scritte e disegni che inneggiano al numero 7, ormai da tempo consegnato alla mitologia.