Pier Paolo Pasolini, se il calcio è davvero poesia
Pasolini calcio

Pier Paolo Pasolini, se il calcio è davvero poesia

Pasolini si rilassa, lo sguardo è perso fuoricampo, a seguire forse le azioni dei compagni. Fa caldo: si intuisce dalla maglia arrotolata allo sterno. Poco prima dello scatto si è portato i capelli all’indietro con una manata. Quel ciuffo, solitamente elegante, adesso è scomposto, segno che lo scrittore ha cercato di farsi valere anche in altri contesti da quelli a lui consoni.

I pantaloncini sono lindi, le scarpette no, ovviamente. Sorride, per quanto glielo permetta quel volto severo, fustigatore di plurimi costumi eppure, a suo modo, solare. Non è di certo l’unica foto che lo ritrae sull’erba di un campo o con un pallone tra i piedi.

Ce n’è un’altra, parallela, molto famosa e particolarmente bella. Pasolini è fuori per strada, idealmente in mezzo al Lenzetta, al Caciotta al suo Riccetto. Impeccabile, come sempre, ça va sans dire. Nonostante il sole e lo sforzo fisico, da come è vestito potrebbe sedersi a cena a casa di un editore. È vestito come oggi non usa più, altri anni, altra Italia da inurbamento selvaggio e boom economico: camicia e cravatta, pullover scuro, abito scuro anch’esso e un bel paio di scarpe di cuoio, di quelle fatte a mano che allora costavano uno stipendio e mezzo.

Ma non è a un tavolo d’un bar, in un salotto elegante, circondato da chi poi ne avrebbe potuto parlar male senza problemi, né rimorsi. Ha un pallone orrore da proletari, lo avrebbero definito molti suoi colleghi tra i piedi, quello scrittore. E lo controlla con l’interno destro in modo fine ed elegante, così come controlla i suoi capoversi. Non c’è scoordinazione in quel gesto, non c’è una blanda improvvisazione. Lo scrittore sa quel che fa, il piede è il piede, indipendentemente dalla scarpa. Le braccia sono larghe, sospese tra la ricerca dell’equilibrio e la protezione della preziosa sfera di cuoio, a scapito di difensori presumibilmente immaginari.

È una scena come mille altre: in molti lo vedevano, ai tempi, giocare in mezzo ai pischelli senza posa nei campetti romani con i suoi sodali Sergio Citti, suo fratello Franco e Ninetto Davoli.

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La tranquillità dello scatto precedente qua si perde, non esiste, ma i due momenti immortalati sono inevitabilmente collegati: nel primo la sua posa è rilassata, e nonostante la tenuta sportiva conserva una certa eleganza. In questo a stridere sono l’abito e il movimento frenetico e aggraziato al tempo stesso, ma tant’è: è sempre lui.

Pasolini era così, capace di restare se stesso anche quando, senza sofismi di sorta, si calava nei panni del proletariato romano, lo descriveva, lo rappresentava nelle sue opere, pronto ad affrontare la mannaia della miope censura del tempo e gli strali di una critica che ne valutava l’orientamento sessuale, prima della qualità innovativa dell’opera.

Ma non usciamo da quel rettangolo di terra, per favore. All’insegna della rivalutazione per chi muore, della sua esaltazione, oggi come negli anni passati si sprecheranno fiumi d’inchiostro per lui. Lasciamo a loro il Pasolini del secondo scatto (giudicheranno quel pallone nient’altro che un vezzo d’artista) e parliamo del Pier Paolo ala destra.

Tanto temibile sui Prati di Caprara da meritarsi il soprannome di Stukas, come i bombardieri tedeschi della Luftwaffe ritratti da uno sconvolto Picasso nella sua Guerníca. Giocatore e tifosissimo del Bologna, di quello «più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo, di Marchesi, di Fedullo e Pagotto». Entrò stabilmente anche nella Nazionale attori e cantanti, con la quale disputò la sua ultima partita, poco più di un mese prima di morire.

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Lo scrittore il pallone lo amava e lo rispettava e, una volta, proprio la sfera servì per fare la pace col suo collega Bernardo Bertolucci. Pasolini era impegnato sul set delle Centoventi giornate di Sodoma, l’altro su quello di Novecento: si trovarono vicino Parma, ognuno con la propria squadra al seguito. L’uno da semplice spettatore, l’altro, lo Stukas, con fascia di capitano al braccio e, ovviamente nel ruolo a lui più congeniale, quello di ala destra.

È una partita di pace, ma servono ben due arbitri, uno per parte e per tempo, per scansare polemiche e veleni. Alla fine la spunterà la squadra di Novecento, probabilmente ai calzettoni «a strisce multicolore, destinati a sviluppare, per il gioco di gambe, un effetto caleidoscopico tale da rendere difficile l’individuazione del pallone ai rivali», come recitò la Gazzetta di Parma per l’occasione. Lo scrittore, sportivo fino  un certo punto, lasciò il campo furente, sia per il risultato che per le poche occasioni avute.

Furente come quando vide il suo Bologna perdere 4 a 1 all’Olimpico con la Roma. Ben distante dalla calma affascinante che sapeva dosare quando del calcio parlava solamente, quando lo definiva ultima rappresentazione sacra, quando lo individuò come un sistema di segni vero e proprio, lingua non verbale, passando senza sforzo alcuno dai fonemi linguistici ai podemi in campo, ossia i giocatori, unità minima di quel sistema fantastico e tremendamente espressivo.

Nella disamina pasoliniana, sospesa tra il serio e il faceto, gli spettatori assurgono al ruolo di decifratori: solo loro infatti possono comprendere senso e significato del codice in questione. Fantastico come il suo idolo Bulgarelli, calciatore in prosa, come la poetica realista di Riva, come il calcio maudit di Corso, come il pragmatismo di Rivera, prosatore da elzeviro, ossia uno di quegli articoli di critica letteraria presenti sui giornali d’una volta.

“Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei «goal». Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico.”

Ma sono estremamente poetici anche i dribbling, nella sua visione letteraria, che oggi risulterebbe ostica e indecifrabile a buona parte dei giornalisti sportivi. I suoi poeti erano i brasiliani come Garrincha, interpreti di un calcio sublime, raramente razionale come quello europeo e, soprattutto, italiano. Eravamo e siamo portatori di una prosa estetizzante, corale, che si riscopre poetico solo nei suoi momenti individuali. Pasolini ne sapeva di pallone, e la sfera, pur senza conquistarsi mai uno spazio maggiore di sessanta righe, rotolava spesso sullo sfondo delle sue storie, dietro le parole, rincorsa da qualcuno di quei pischelli.

Con ogni probabilità, se oggi fosse ancora vivo, riserverebbe al nostro pallone qualche corsivo a malapena. Pungete, salace ma estremamente critico. Avrebbe scarsa simpatia per una prosa spinta agli estremi di stampo blaugrana, forse, presa a modello dalle squadre di mezzo mondo. Ma non solo. Ne avrebbe ancor meno per un calcio di conseguenza massificato, in ogni suo aspetto, venduto al Potere, simbolo di quella omologazione culturale che teorizzava più di quarant’anni fa, e dalla quale era sinceramente spaventato.

Un calcio nutrito, ingrassato e sottomesso dalle televisioni, che ne dettano oramai tempi, modi, usi e consumi, stravolgendolo totalmente. Lui, prima, se non di tutti, perlomeno di molti, sapeva pur senza avere le prove. Lui, Pier Paolo Pasolini, ancorato «all’idealismo liceale, quando giocare al pallone era la cosa più bella del mondo».