Carpe diem. L'attimo fuggente di David Trezeguet

L’attimo fuggente di David Trezeguet, l’uomo che non c’era

Eleganza concreta. Semplicità divina. Efficacia minimalista. Questo era David Sergio Trezeguet. Davìd, alla francese, ma anche Sergio, perché in Argentina si usa così, messo un nome se ne aggiunge un altro. Un franco-argentino nato a Rouen, città fluviale della Normandia famosa per le sua cattedrali gotiche, imponenti e minacciose, e trasferitosi giovanissimo in Sudamerica.

E come quelle cattedrali medievali, ha rappresentato per anni una minaccia costante per i difensori di tutto il mondo. Una presenza paurosa e incombente come un gargoyle dell’area di rigore, ma all’apparenza sperduto come può esserlo un mandriano in una pampa sterminata.

E qui sta la sua forza: nel sembrare inerme, un piccolo uomo in una prateria di sciacalli. Una preda designata, sempre pronta, però, a trasformarsi in cacciatore. Il più spietato dei cacciatori. Grazie ad un senso innato per il gol, David riusciva sempre a cavarsela. Quello sapeva fare e quello faceva. Nulla di più, nulla di meno.

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Bomber come non se ne vedono più. Se esistesse una classifica sul rapporto tra gol e palloni toccati, David sarebbe primo per distacco. 171 reti con la Juventus, più di trecento in totale. Un gol ogni due partite, più o meno. Un pallone toccato ogni due partite, più o meno. Si perché David era così: minimalista.

Non proteggeva il pallone, non rincorreva avversari, non giocava di sponda, non dribblava. Si limitava allo stretto necessario: fare gol. Possibilmente toccando la palla il minor numero di volte possibile. Magari una. Ripudiava il superfluo, David. Fosse stato un’opera d’arte probabilmente sarebbe stato un Malevich. Quadrato bianco su fondo nero. Stop. O uno squarcio di Fontana. Essenziale, scarno e istintivo ma lacerante, letale e affascinante allo stesso tempo.

Certi pomeriggi la sua presenza passava del tutto inosservata. L’ombra prendeva il sopravvento, impossibile trovare uno spiraglio di luce. Trezeguet se ne stava a ridosso dell’area di rigore avversaria, sperduto nella prateria, in perenne lotta, non con gli avversari, ma con la sua essenza di corpo estraneo in cerca di visibilità. Dall’ombra alla luce. Sapeva che se un pallone fosse passato, carambolato, catapultato nella sua zona un ghigno di gioia avrebbe riempito il suo viso e quello di migliaia di tifosi un attimo dopo.

Sapeva che un semplice raggio di luce può farti uscire dall’ombra. Certe volte il pallone, l’attimo fatale, il momento tanto atteso non arrivava però e David poteva tornarsene sotto la doccia con la faccia triste e un numero di palloni toccati in novanta minuti prossimo allo zero. Molto più spesso invece il francese di Rouen riusciva a cogliere l’attimo. La vita è fatta di attimi, dicono, e se sei bravo a coglierne il più possibile, a non sciupare neppure un’occasione, ad essere sempre pronto al momento opportuno, allora diventi leggenda. O il marcatore straniero più prolifico nella storia della Juventus. O entrambi.

Un poeta del gol, David. Un poeta ermetista dell’area di rigore. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Si sta come David, in area di rigore. E David stava lì, in attesa di conoscere il proprio futuro. In attesa di quello spiraglio che gli avrebbe donato nuova vita, perché un bomber vive per il gol.

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Se viene abbandonato si intristisce, sfiorisce e malinconicamente si fa sopraffare dall’inverno. Soldato ungarettiano di trincea, la cui sopravvivenza dipendeva dal pallone giusto. Che prima o poi sarebbe arrivato. E lui non avrebbe esitato, avrebbe colto (al volo, è proprio il caso di dirlo) quell’unica possibilità di sopravvivenza.

Trezeguet aveva capito qual è il nocciolo della questione. E la cosa più banale, nonché più difficile del calcio, è far gol. Non corre, non lotta, non apre varchi. Non è un “attaccante moderno”, si direbbe di questi tempi. Chissenefrega. A noi piaceva così. Atipico, unico forse, e bellissimo. Perché tanto quando gioca segna sempre Trezeguet. Che in fondo, è l’unica cosa che conta davvero.

Non è un operaio da catena di montaggio. Lui è il caporeparto. Supervisiona il lavoro degli altri e al momento opportuno mette il sigillo di garanzia. Non è un padrone però, David. È solo un collega di rango più elevato. Gli altri si sbattono e producono per lui. Ma sanno che le loro fatiche saranno sempre ripagate.

La sua non è indolenza ma attesa. Pazienza, la più importante delle virtù. Perché se è vero che il mondo gira, il pallone buono passerà di lì, prima o poi. Bisogna solo attendere. Nell’ombra. Trezeguet è una bussola puntata verso quei sette metri e mezzo di porta: ogni sua attenzione, ogni sua energia è calamitata verso quel rettangolo bianco.

David Trezeguet of FC Pune City celebrates after scoring a goal during match 14 of the Hero Indian Super League between FC Pune City and FC Goa held at the Shree Shiv Chhatrapati Sports Complex Stadium, Pune, India on the 26th October 2014. Photo by: Vipin Pawar/ ISL/ SPORTZPICS

Cittadino onorario dell’area di rigore, perché quello è il suo habitat. Unico, nonostante il suo passaporto parli due lingue, e la sua storia calcistica anche di più. Argentina, Francia, Italia, Spagna e India. Sono solo un sovrainsieme, un contorno ininfluente. Perché David vive solo all’interno di quel rettangolo, di quei sedici metri. Fuori da quei confini potrebbe smarrirsi, perdere la bussola; lui lo sa e non si spinge mai oltre le colonne d’Ercole, oltre quella mezza luna. Meglio essere re di un piccolo regno che un vassallo in un grande Impero. E in quei sedici metri David è il re indiscusso.

Dal Castellani di Empoli al Bernabeu di Madrid, dal Rigamonti di Brescia al Meazza di Milano, Trezeguet si fa ambasciatore dell’unica lingua che veramente conosce. Quella del gol. Con un tocco solo, possibilmente. Cogliere l’attimo al volo. Senza pensarci su, tanto la strada, quel pallone, la trova da sé. Ogni energia sembra essere rivolta a gonfiare la rete e ogni tocco in più, ogni tentennamento sembra poter affievolire quel gesto, depotenziarne l’efficacia.

Quindi zac: senza pensarci troppo. Un colpo e via. E poi quel sorriso. Un sorriso che sa di oratorio. Di purezza. Il sorriso di gioia di chi è riuscito ad emergere dall’ombra, ancora una volta. Il ghigno di chi sa che quella snervante attesa è stata ripagata.

Trezeguet non si vede perché c’è, si legge su un vecchio articolo de Il Foglio scritto da Beppe Di Corrado “come a Rotterdam nel 2000, come a San Siro contro il Milan nel 2005”. Trezeguet c’è, perché non si vede. Non si vede per novanta minuti, ma fino all’ultimo secondo sai che c’è. Che è lì.

È così David: ha bisogno del buio, la sua essenza si nutre nelle tenebre per poi riemergere, attaccare e punirti. Quando non può nascondersi, fallisce. Quando tutti gli occhi sono puntati su di lui, su di lui soltanto, rimane nudo, come un serpente dopo la muta. E sbaglia. È successo a Manchester. È successo, nuovamente, a Berlino.

È il suo contrappasso. Abbagliato dalla luce, non può far altro che sprofondare nell’oblio. Non può affidarsi all’istinto, ha tutto il tempo per pensare. Roba non da lui. E così sul dischetto è andato qualcun altro, sempre con quel 17 sulle spalle, certo, ma non il vero David. Lui la luce doveva cercarla, attenderla, altrimenti non sapeva che farsene.

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Questo era David Sergio Trezeguet. Il centravanti più concreto, elegante ed atipico dell’era moderna. Oltre alla morte e alle tasse, l’unica altra certezza che ci ha accompagnato per quindici anni è che quando gioca segna sempre Trezeguet. Poeta dell’area di rigore, che se ne sta solo sul cuor della terra, alla ricerca di un raggio di sole. Per illuminarsi d’immenso.