Per sempre Capitano. Gianluca Signorini, il libero moderno

Gianluca Signorini, il libero moderno dall’animo gentile

“Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.”

(Inferno, canto XXXIII)

Al largo del porto di Livorno, ad una manciata di chilometri dalla riva, sorge la torre Meloria; alta non più di venti metri, affiora visibile sopra un letto di bassifondi sabbiosi e rocce sparpagliate, formando uno di quegli isolotti che non è raro osservare in questo tratto di alto Tirreno. Fu eretta dai pisani nel XII secolo e nel 1284 fu teatro dell’omonima cruenta battaglia tra le flotte navali di Genova e Pisa; lo scontro segnò il definitivo indebolimento della città toscana e l’ascesa imponente di quella ligure tra le Repubbliche marinare che in quel periodo si contendevano il Mediterraneo. Uno dei protagonisti del combattimento fu il conte pisano Ugolino della Gherardesca, accusato di tradimento e diserzione dai suoi concittadini e condannato a morire di fame insieme ai figli, che Dante raffigura in tutta la sua malinconica disgrazia nel XXXIII canto dell’Inferno.

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La battaglia della Meloria rappresentò il punto più alto della rivalità tra Genova e Pisa, che solo lo spostamento delle antipatie di quest’ultima verso le più adiacenti città toscane non portò a completo e degenerativo inasprimento. Sette secoli dopo, un altro condottiero riuscì a riavvicinare le due antiche potenze marinare: era alto, fiero, con i capelli lunghi e lo sguardo sorridente. Si chiamava Gianluca Signorini ed era un calciatore. Anzi, un capitano. E quelle due città ne hanno segnato il destino. La lunga storia calcistica di Signorini è fatta di corse. Non di quelle che servono a bruciare tappe e consumare carriere, però. È fatta di corse pazze, scomposte, rabberciate; tratti brevi e sconnessi, dove svuotare rabbia, incredulità, speranza. Corse folli ricolme d’entusiasmo e di quel brivido che rischia di soffocarti se non lo sputi fuori per condividerlo. Cose da capitani, di magnetismi e irripetibili alchimie.

La prima folle corsa è datata 4 giugno 1995, ultima giornata di campionato. Il Genoa riceve il Torino; i rossoblu hanno un piede e mezzo in serie B e anche una vittoria potrebbe non essere sufficiente per ottenere la salvezza. Infatti, nonostante l’1-0 firmato da Skuhravý, al fischio finale il Genoa è formalmente retrocesso, un punto dietro il Padova che sta pareggiando a San Siro contro l’Inter. Su “Marassi” cala un velo di rabbia e frustrazione; l’allenatore Maselli imbocca sconsolato gli spogliatoi, i tifosi si lanciano in pesanti contestazioni.

All’improvviso, il tabellone lampeggia e dice “Delvecchio”, che significa qualificazione Uefa per i nerazzurri e spareggio acciuffato all’ultimo respiro per il Genoa. L’umore cambia e dal tunnel esce la sagoma del numero 6, il capitano. Corre in maniera irregolare, quasi le sue emozioni siano completamente disunite rispetto al corpo; alza le braccia e corre, corre verso la gradinata Nord, poi esausto e sconvolto si accascia sui tabelloni pubblicitari ed esplode in un pianto liberatorio. Il Grifone è ancora vivo e andrà a giocarsi lo spareggio a Firenze contro il Padova.

Quella del 1994-95 è stata una stagione maledetta per i rossoblu: tre allenatori cambiati (da Scoglio a Marchioro fino a Maselli), altrettanti portieri titolari, torti arbitrali come il celebre gol-fantasma di Galante al Delle Alpi contro la Juventus, fino alla meteora Kazuyoshi Miura, primo giapponese a giocare nel campionato italiano di cui rimarranno solo il ricordo di una rete nel derby e le casse ricolme del presidente Spinelli per le generose elargizioni della Fuji Television ad ogni gara da titolare del loro eroe nazionale.

Poi, il 29 gennaio 1995, il giorno più triste e infame: l’uccisione di Vincenzo Spagnolo prima di Genoa – Milan, il primo tempo in un clima surreale, la sospensione della “macchina del calcio” per una settimana. A tre giornate dal termine, il Genoa è spacciato, staccato ormai sei punti dal Padova: la vittoria contro il Foggia e la contemporanea sconfitta dei veneti a Cremona riavvicinano le due formazioni in vista dello scontro diretto del penultimo turno. L’1-1 dell’Euganeo mantiene le distanze e l’ultima giornata suggella la rimonta.

Eppure il Grifone è scarico, spuntato, impaurito: a Firenze è di nuovo parità per le reti di Vlaović e Skhuravý, ma il Padova gioca meglio, confeziona decine di occasioni, merita ampiamente la salvezza. E così, ai calci di rigore, il Genoa sprofonda nel baratro di una settimana prima; di Galante l’errore decisivo che firma la condanna, mentre il cuore di tre tifosi genoani (due allo stadio e uno a casa davanti alla tv) non regge e se li porta via. Per Signorini, è l’ultima partita con la maglia rossoblu e la delusione più insopportabile della sua carriera.

Ma nemmeno un anno dopo, una seconda folle corsa lo attende. È il 20 aprile 1996 e al piccolo centro sportivo “Robaldo”, immerso nel quartiere di Mirafiori a Torino, si sta giocando una gara del CND tra il Nizza Millefonti e il Pisa: una squadra rionale contro una decaduta del calcio italiano di provincia. In Toscana, nella sua città natale, è tornato a giocare Gianluca Signorini, scosso dal fallimento che ha colpito la società dei suoi esordi e che l’ha costretta a ripartire dai tornei interregionali. Mancano due partite al termine del campionato e il Pisa deve vincerle entrambe per garantirsi la promozione in serie C2; il modesto impianto torinese viene invaso da 500 tifosi giunti dalla città toscana. È una partita nervosa, il Pisa è superiore e il Nizza Millefonti è già matematicamente retrocesso ormai da settimane; eppure, la paura sembra frenare gambe e fosforo ai nerazzurri.

Poi, al 56° minuto, da un lungo calcio d’angolo spunta la testa di Signorini che sblocca il risultato. Inizia a correre senza controllo verso il settore dei tifosi ospiti, la debole rete di recinzione cede e lui si lascia abbracciare, toccare, baciare. La domenica successiva, in casa contro il Viareggio, Signorini festeggia con la promozione la sua ultima partita, riportando tra i professionisti la squadra e la città da cui tutto aveva avuto inizio.

Già, perché è ai piedi della torre pendente che l’avventura del condottiero capace di unire Genova e Pisa è cominciata; è l’estate del 1978 e la società nerazzurra, che gioca in serie C, viene acquisita da uno strano personaggio, a metà tra il giornalista, il mediatore e il faccendiere, un ruspante affarista di campagna che diventerà il primo proprietario di un club calcistico senza avere un’azienda e un’attività imprenditoriale alle spalle: Romeo Anconetani. Il giovane Signorini viene aggregato alla prima squadra, ma per lui c’è poco spazio e così inizia un pellegrinaggio lungo i campi polverosi della terza divisione: Pietrasanta, Prato, Livorno, Ternana, Cava de’ Tirreni. A Prato e Terni, in particolare, conosce Giovanni Meregalli, un giovane tecnico che si era formato dentro il laboratorio innovativo e rivoluzionario di Corrado Viciani, detto il Profeta, ingegnoso allenatore che per primo in Italia teorizzò un calcio rapido e meccanico, fatto di pressing, zona corta e sovrapposizioni.

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Signorini intuisce in fretta lungo quali sentieri si stanno inerpicando la tattica e l’interpretazione del gioco e diventa esegeta duttile e diligente delle nuove modalità d’intendere il ruolo di libero. Tra Scirea e Baresi, l’anello di congiunzione del libero moderno si può ritrovare proprio in questo giovane pisano che sta vistosamente crescendo nelle serie minori. Se ne accorge presto lo stesso Viciani: chiamato a guidare la Cavese a metà della stagione 1984-85 (dopo l’esonero di Romeo Benetti), Viciani ripesca dalla panchina Signorini e lo trasforma nel leader capace di condurre la società campana alla salvezza.

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Signorini ai tempi della Cavese (credits: Vincenzo Paliotto)

Ma c’è un altro allenatore che ha messo gli occhi sul difensore nato in riva all’Arno: è un ambizioso tecnico romagnolo, allena il Rimini e come impiegato dell’azienda del padre ha avuto la fortuna di girare l’Europa, studiando calcio e sviluppando un’autentica predilezione per la grande Olanda degli anni ‘70: si chiama, ovviamente, Arrigo Sacchi.

Quando nell’estate del 1985 viene chiamato dal Parma appena retrocesso in serie C, Sacchi non ha dubbi: convince la società a rivoluzionare la squadra e puntare sui giovani e su giocatori già abituati alle burrascose e movimentate pratiche della terza serie. In particolare, pretende che a guidare la difesa ci sia proprio Signorini. In due anni, Sacchi e Signorini riportano il Parma in serie B, ma soprattutto incrociano per tre volte le strade del Milan in Coppa Italia; nell’edizione del 1986-87, infatti, le due squadre si affrontano prima nel girone eliminatorio a San Siro e poi in doppia sfida negli ottavi di finale. Il Parma espugna per due volte il campo dei rossoneri, senza mai subire reti ed eliminando la squadra allenata da Liedholm dalla competizione.

La storia è nota: Berlusconi rimase talmente impressionato dall’organizzazione della formazione emiliana da voler portare al Milan proprio l’artefice tattico di quella multipla lezione di calcio inflitta ai rossoneri. Le strade di Sacchi e Signorini si dividono, ma il libero dall’animo gentile resterà sempre in cima ai pensieri calcistici dell’allenatore di Fusignano: si racconta, aneddoto mai confermato ma talmente suggestivo da apparire verosimile, che appena sbarcato a Milanello Sacchi mostrò a Franco Baresi un video del suo pupillo ai tempi del Parma, ordinandogli di studiarne e apprenderne i movimenti. Anni dopo, Carlo Ancelotti smentirà questa ricostruzione parlando di “leggenda” e rivelando come l’ossessione del tecnico fosse piuttosto il Bologna di Maifredi. Ma il legame tra i due, oltre che nell’amicizia, rimane ben evidente nelle comuni basi teoriche d’intendere e modellare l’evoluzione della tattica e di come si sta sul terreno di gioco.

Anche Signorini lascia Parma; per formazione, dedizione e apprendimento è ormai uno dei più solidi e sorprendenti rappresentanti della zona e delle sue varianti. Non a caso, va alla Roma dove è tornato in panchina l’esponente più rigoroso del modulo, colui che lo ha applicato per la prima volta nella sua versione italico-scandinava, ovvero Nils Liedholm. Resta solo un anno nella capitale; esordiente in serie A all’età di 27 anni, è pilastro della difesa nel buon campionato dei giallorossi, ma soffre difficoltà d’ambientamento.

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Ne approfitta un altro vulcanico allenatore, Franco Scoglio detto il Professore; è appena approdato sulla panchina del Genoa in serie B e ha in mente uno strano concetto di “zona sporca”, un ibrido estremamente concettuale di marcatura a uomo e copertura a zona, che prevede persino di mutuare schemi di gioco del basket e del rugby. Il problema insormontabile per Scoglio consiste nell’eredità ricevuta dai tecnici precedenti (Simoni, Perotti, Burgnich), dogmatici e rigidi estimatori del vecchio calcio all’italiana, quello del catenaccio e del libero staccato.

Scoglio entra in conflitto con la difesa titolare e dopo il pareggio di Cosenza nella prima giornata, improvvisa uno show che spiazza la società: “Datemi Signorini e andiamo in A con 50 punti”. Il presidente Spinelli si fida e porta il difensore pisano in Liguria. Scoglio lo trasforma in capitano e leader indiscusso e lui risponde cucendosi per sempre addosso i colori rossoblu; di punti ne arriveranno 51, e con essi la promozione. Da quel momento, per sette lunghe stagioni, Signorini sarà bandiera e baluardo di quel sentimento che da oltre un secolo contraddistingue il Genoa, fatto di orgoglioso vanto per la propria estrazione e il proprio passato e, allo stesso tempo, di realistica rassegnazione verso le fatiche e le fatalità del quotidiano, in una città che per natura, conformazione, storia politica e industriale è destinata a soffrire per forza. Signorini diventa custode di un senso del limite che si trasforma in prezioso strumento di consapevolezza della propria dimensione.

È lui a guidare da condottiero la ciurma del biennio ‘90-‘92, quella del navigato Bagnoli in panchina, del quarto posto in classifica e dell’impresa di Anfield Road; ed è lui a sbloccare di testa un derby contro la Sampdoria campione d’Italia di Vialli e Mancini. La sua permanenza a Genova è una progressiva e impetuosa immersione dentro l’anima della città e del cuore pulsante genoano, tra i caruggi e i fumi del porto, le scritte sui muri e le mani spezzate dei camalli. Ed è sempre lui che durante una turbolenta conferenza stampa a Pegli si schiera dalla parte dei tifosi perché “pagano il biglietto e danno da lavorare a noi calciatori e a voi giornalisti”.

Sarà per l’indole franca, la schiena dritta, la serietà professionale che manifesta, Signorini in quegli anni non gioca solo per il Genoa; Signorini è il Genoa. E potrebbe stare benissimo, una figura così, dentro quell’inno di genovesità red and blue cantato da Francesco Baccini con Fabrizio De Andrè. Perché non c’è dubbio che “se questi muri potessero parlare”, racconterebbero anche di lui, del capitano coraggioso e del destino beffardo che lo ha trafitto più di ogni attaccante avversario.

Perché Signorini si è arreso solo alla sclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Lou Gehrig che ha colpito tanti, troppi ex calciatori. È successo in fretta, dopo che il capitano si era ritirato per intraprendere un percorso da dirigente del suo Pisa; morirà il 6 novembre 2002, all’età di 42 anni. Ma prima di andarsene, c’è stato il tempo per un’altra corsa, l’ultima. Diversa dalle altre, ma struggente nella sua caparbietà; nel maggio del 2001, in 30mila lo accolgono a Marassi per una partita celebrativa in cui ci sono tutti, compagni e allenatori della sua carriera: Sacchi, Scoglio, Liedholm, Bagnoli.

Entra in campo sulla carrozzina; la figlia lo spinge fino sotto la gradinata Nord a raccogliere l’abbraccio di un popolo intero. Immobile, ma emozionato, con gli stessi occhi fieri e sorridenti di un tempo nemmeno così tanto lontano. Occhi con cui comunica e detta frasi, impressioni. Come quella che ne segna la triste fine e l’immortalità sportiva.

“Vorrei alzarmi e correre con voi, ma non posso. Vorrei urlare con voi canti di gioia, ma non posso. Vorrei che questo fosse un sogno dal quale svegliarmi felice, ma non lo è. Vorrei che la mia vita riprendesse da dove si è fermata.”

Ma basta chiudere i nostri di occhi, e te lo puoi immaginare correre ancora verso la sua gente, come in quel pomeriggio di giugno del ’95 o nel campetto alla periferia di Torino nell’aprile dell’anno successivo. Capace di unire in un solo filo le due città della sua vita; senza mai tradirle, senza risparmiarsi, portando la sua croce quotidiana con dignità. Normale nella sua eccezionalità, protagonista nel suo rifuggire ogni forma di divismo e compassione, generoso come chi sta sulla frontiera, a dominare il mare e immaginare di correre incontro alla vita.