Fughe e gol nella Milano da bere: Nicola Berti, l'uomo dei derby - Zona Cesarini

Fughe e gol nella Milano da bere: Nicola Berti, l’uomo dei derby

“Ora sono tutti molto quadrati, sono tutti amici! Una volta il derby era molto sentito, il derby era il derby! Era una “guerra” ci si dava dentro fino alla “morte”. Ho visto l’ultimo derby a S.Siro, di una noia pazzesca. Una rilassatezza incredibile. Sembrava una partita come le altre. Non deve essere così. Nel derby ci devi mettere il cuore, il sudore e il sangue… tutto!” (N. Berti)

È il 2010, quando FantAntonio Cassano si lascia sfuggire l’ennesima battuta sbagliata, indignando i golfisti più accaniti. Tra le varie reazioni stizzite al poco signorile “il golf è da sfigati”, spiccano pure quelle degli ex calciatori Donadoni, Ince, Djorkaeff e Massaro. Oltre a quella di Nicola Berti da Salsomaggiore Terme, all’epoca appena rientrato dal dorato esilio nell’isola caraibica di St. Barth, dove aveva deciso di vivere dopo il ritiro agonistico.

L’interruzione del silenzio del Nicolone nazionale colpisce l’opinione pubblica sportiva italiana, negli anni abituata alle battute sagaci e senza filtro alcuno dell’ex centrocampista azzurro. Non è inusuale, infatti, che quando la testa matta di turno (citofonare casa Balotelli, tra gli altri) si metta nei guai per qualche bravata, il primo ad essere ricercato per un’intervista sia proprio Berti, che il calcio giocato l’ha lasciato nel lontano 2000 dopo un’ultima stagione tra le spiagge e le onde di Sydney, in Australia.

Non che sia strano che in questi casi venga interpellato uno che per la platea è ed è sempre stato un bad-boy, tanto generoso e agonista in campo quanto sregolato fuori dal rettangolo verde. La fama di cattivo atleta è però solo in parte giustificata, visto che l’approccio di Berti al calcio giocato è da sempre reverenziale e disciplinato; ha poco da spartire, in parole povere, con quello fatto di eccessi di alcuni calciatori odierni, spesso malvisti dai compagni per la loro scarsa attitudine e per la subconscia idea che basti il talento per sopperire ad ogni limite.0c114ac296d70450150060af06391462-49626-1419239652Va anche detto che la nomèa di bon-viveur non gli è stata appiccicata casualmente: amante delle belle donne e delle uscite, sono davvero pochi i piaceri offerti dalla vita notturna meneghina che non abbia sperimentato. Se si torna al parallelismo con i colleghi di oggi, va detto che c’è una caratteristica che da sempre aiuta tanto il Berti calciatore quanto l’uomo: la furbizia. Che di fatto gli ha sempre impedito di essere colto in situazioni compromettenti.

“Non è che non facessi cazzate. Ne facevo eccome… solo che alla fine non mi beccavano mai. O comunque: finché corri, nessuno si porrà mai troppo il problema”.

Tra donne d’ogni sorta e scappatelle assortite, rientri a notte fonda e irrefrenabili corse su e giù per il campo, Nicolino ha contribuito a creare l’immagine contemporanea del calciatore frivolo, edonista e patinato. Un precursore dell’uomo-copertina prestato al pallone, simbolo della lunga onda degli anni ’80 della Milano da bere. Quella perfettamente raffigurata in un celebre spot dell’Amaro Ramazzotti, tra edonismo diffuso e un’inarrestabile ascesa consumistica.

Berti nasce a Salsomaggiore Terme, due passi da Parma, nel 1967, nei giorni in cui i Beatles pubblicano il leggendario Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Viene presto precettato nelle giovanili dei Ducali, che al tempo si barcamenano tra Serie B e Serie C. Precocissimo fin da subito, esordisce nella serie cadetta con i crociati appena 17enne. Quando nel 1985 viene portato alla Fiorentina, neanche maggiorenne, può già vantare una trentina di presenze tra i professionisti. Già allora interpreta il ruolo di centrocampista con un approccio piuttosto moderno: la buonissima tecnica, unita ad un fisico asciutto e longilineo (186 cm.), gli permettono infatti sortite e incursioni continue nella metà campo avversaria, spesso concluse con successo.

Sotto certi aspetti, Berti ricorda in parte un giocatore alla Ruud Gullit, meno tecnico, dominatore e potente dell’olandese, ma comunque in grado d’interpretare agevolmente entrambe le fasi, educato con i piedi e intelligente da un punto di vista tattico. Anche se la miglior qualità è e rimarrà sempre la resistenza aerobica, che gli permette recuperi, progressioni e inserimenti verticali ad altissima frequenza.

Analisi tecniche a parte, nella Fiorentina dei Pontello Berti s’impone come uno dei migliori prospetti del paese, diventando immediatamente titolare sotto Agroppi prima e Sven Goran Eriksson poi. A neanche 21 anni Berti è titolare inamovibile nella massima serie e una colonna – un leader emotivo, prima che tecnico – dell’Under 21 di Ciro Ferrara, Paolo Maldini e Roberto Baggio.

Le uniche macchie fiorentine sono rappresentate da qualche calo di continuità nei match a minore intensità agonistica e dalle sempre più insistenti voci che parlano di un Berti dedito a fare bisboccia fino a tarda notte nei locali cittadini più in voga. Scoop a parte, nell’estate del 1988 Berti è pronto per il grande salto: ad accaparrarselo è l’Inter di Pellegrini, che spende la bellezza di 7 miliardi di lire per ottenere i suoi servigi.

Tantissimi, considerate le incognite legate alla giovane età e alla concorrenza che rischia di bruciarlo (nel suo ruolo infatti gioca Lothar Matthaus). Tuttavia, sotto l’ala protettiva del “veterano” 25enne Bergomi, Berti impara ben presto una lezione fondamentale che non scorderà più: “Nicola, nel tempo libero puoi fare quello che vuoi. Ma se non ti presenti al top fisicamente in allenamento, il gruppo ti farà fuori”,  è il lapidario commento dello Zio.

Bergomi si accorge che Berti non si tira mai indietro davanti a un party in un locale o a una bottiglia di Dom Pérignon, ma chiude un occhio visto che regolarmente se lo vede comparire il mattino seguente fresco, sobrio e soprattutto abile ed arruolabile. Anzi, grazie a quel fisico alto e asciutto Berti sembra non esaurire mai le energie.Matthaus_Brehme_Berti_Bianchi_DiazCon l’esplosione nell’Inter arrivano anche le prime chiamate in Nazionale. Capitolo agrodolce per Berti, che ci giocherà per 7 anni collezionando un totale di 40 presenze. Carriera azzurra che per Nicola si chiude ancora giovane, a 29 anni, quando una serie infinita d’infortuni ne limita il rendimento e ne compromette l’utilizzo continuativo. Nel mezzo dell’esperienza azzurra c’è anche la finale persa nel Mondiale del ’94: Nicola è infatti in campo nell’infausta partita in cui i sogni azzurri naufragano insieme all’errore del miglior giocatore del torneo, Roberto Baggio.

A fine manifestazione Berti si toglie qualche sassolino dalla scarpa criticando più o meno direttamente l’allenatore Arrigo Sacchi, reo di aver praticato un calcio eccessivamente difensivista (“Come si fa a rinunciare sistematicamente a Signori e Zola?”) e di averlo schierato fuori ruolo e relegato più a compiti contenitivi che offensivi.

Tanto generoso quanto chiaro e diretto, Berti non si tira mai indietro quando c’è da prendere una posizione o esprimere un’opinione. Anche qui, l’approccio è sempre smaliziato: raramente infatti una sua dichiarazione va direttamente contro un compagno o l’allenatore. A meno che i giochi non siano del tutto compromessi, Berti sceglie con cura i destinatari delle sue affermazioni evitando di compromettersi o esporsi in modo eccessivo. Recentemente, però, Berti ha rivisto la sua posizione sulle esternazioni a caldo post-finale del Mondiale, affermando che:

“È passato tanto tempo. Comunque la mia soddisfazione più grande, unica, è quella di aver giocato una finale di Campionato del Mondo. Poi, riflettendo bene, il Brasile era più forte di noi. Noi siamo stati un po’ fortunati ad arrivare in finale, senza però sminuire il valore dell’Italia. Quella era una gran bella squadra. Ecco, il ricordo più bello è essere stato l’unico interista in quel gruppo con 14 milanisti.”

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Nel frattempo Berti diventa un simbolo della Beneamata. Sempre in campo e celebrato dalla stampa nazionale, Nicola alterna grandi e generosissime prestazioni a match incolori e sottotono. Senza mai tirarsi indietro o mancare nelle partite importanti, però. In quelle l’apporto di Berti non manca. Così come il carico mediatico delle sue esternazioni al vetriolo: celebre è infatti la frase “meglio sconfitti che milanisti“, pronunciata dopo un derby perso.

Questa e altre frasi simili lo rendono idolo incontrastato della Curva Nord e personaggio odiato e fischiato in alcuni stadi d’Italia, Firenze in primis. Amato o ripudiato: con Berti spesso non esiste una via di mezzo. Ormai lombardo d’adozione, sono molti i passaggi che riguardano Berti e che vivono nella memoria dei tifosi nerazzurri.

Come quando nel 1995 segna l’incredibile secondo gol in un derby cittadino contro il Milan di Boban, Baggio e Weah. Su cross di Ruben Sosa, Nicola s’inserisce e tira al volo una saetta che colpisce prima la traversa e poi la nuca di Rossi; il primo a non crederci è lo stesso Berti, il cui urlo liberatorio è diventato negli anni prima un celebre striscione e poi un’icona pagana da esibire nelle grandi occasioni.

Tuttavia, la rete interista per antonomasia Berti la segna nel 1988, quando contro il Bayern in Coppa Uefa timbra il cartellino dopo una pazzesca cavalcata verticale palla al piede di 60 metri. Nulla importa che l’Inter venga eliminata al ritorno: quel giorno, il 21enne dal ciuffo più “ingellato” d’Italia, si consegna per sempre alla memoria dei tifosi. Passerà alla storia come la Fuga di Monaco, la versione calcistica de La Grande Fuga di Steve McQueen. Un amore, quello coi nerazzurri, mai finito nonostante i diverbi tecnico-tattici che Berti ha nella seconda metà degli anni ’90 col tecnico inglese Roy Hodgson, che recentemente Nicola ha definito “il peggior allenatore che abbia mai avuto: ma come fa ad allenare l’Inghilterra?”.

Il grande amore è stato invece Giovanni Trapattoni – “Era una persona che sapeva dialogare con i calciatori, da ex giocatore qual è” – che lo schiera sempre nell’Inter dei record, e col quale piuttosto inspiegabilmente non riesce ad aprire un vero e proprio ciclo vincente, soprattutto dopo la delusione del titolo sfiorato nel 1991 (andato alla Sampdoria).

Dopo 10 anni nerazzurri conditi da uno scudetto e due coppe Uefa, Berti se ne va nell’anno dell’arrivo di Simoni e Ronaldo. È proprio il tecnico emiliano che decide per la sua cessione, non convinto dalle 10 partite scarse in due stagioni giocate dal conterraneo: ad appena 31 anni, la carriera di Berti pare al tramonto. E invece c’è tempo per un’ultima, soddisfacente impresa: la salvezza ottenuta col Tottenham all’ultima giornata, che si va a sommare a quella drammatica ottenuta con l’Inter nel 1993/94. Per i tifosi degli Spurs è tuttora un idolo: ancora ricordano quel modello dalla falcata lunga che così inaspettatamente si lega ai colori di uno dei club più antichi di Londra. Affetto ricambiato da Berti, che afferma:

“Tra i miei maggiori successi ci metto anche la salvezza del Tottenham, perché lo considero un trofeo anche quello. Come a Milano, mi sono sentito subito a casa. Peccato sia durata poco”.

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Col nuovo millennio scompare dalla circolazione, trasferendosi a St. Barth, nei Caraibi, dove decide di vivere in relax per qualche anno. Tornato da poco in Italia decisamente imbolsito ma sereno, col celebre ciuffo appena spolverato di bianco, si è recentemente sposato. Dopo un lungo peregrinare, adesso vive in una magione fuori Piacenza dove si gode la “pensione” tra una partita di golf e una sortita a San Siro; stadio dove è ancora ricordato, come se non fossero passati venti anni dalla sua ultima esibizione.

Nicola Berti, l’ultimo vero interista senza peli sulla lingua. Un centrocampista moderno sul campo e un’attitudine scanzonata fuori dal terreno di gioco: emblema di un’epoca illusoria dove tutto sembrava possibile, anche se, in fondo, non lo era.