Da baby-fenomeni a desaparecidos: 5 meteore del calcio italiano - Zona Cesarini

Da baby-fenomeni a desaparecidos: 5 meteore del calcio italiano

“Avere talento o essere un talento: due cose che vengono sempre confuse”. (Karl Kraus; Detti e contraddetti)

Sono tanti i giocatori che, per vari motivi, si perdono per strada. Infortuni o tentazioni sono infatti sempre dietro l’angolo, pronti a rovinare carriere per alcuni e addirittura vite per altri. Esiste, però, un nugolo di giocatori la cui carriera naufraga in un secondo momento, quando già sono noti non soltanto agli addetti ai lavori. Parliamo di coloro che hanno avuto un inizio di carriera folgorante, che hanno fatto gridare al fenomeno, salvo poi perdersi fino a scadere nella mediocrità. Perché, spesso, il solo talento non basta.

Al solito, mi permetto una piccola precisazione: sono molti i giocatori che ho lasciato fuori dalla lista. Mi sono infatti concentrato su un periodo storico piuttosto netto, che va dalla fine degli anni ’90 ai primi anni 2000. Tra le diverse storie, il fil rouge è il talento di base ed un’importante carriera nella Under 21. Proprio perché è un attimo – ci si conceda il triste gioco di parole – passare dall’essere fari dell’Under ad essere fenomeni del misunderstanding.

ROBERTO BARONIO

“Sembra che io non sappia più giocare. La verità è un’altra: non gioco.”

“Beh, forse le due cose sono collegate”.

(Scambio di battute tra Baronio & Serse Cosmi, 2003)

Slovacchia, giugno 2000, campionati Europei Under 21. A vincere l’ambita manifestazione sono proprio gli azzurrini di Marco Tardelli. Quell’Under non propriamente zeppa di talenti schiera a centrocampo 3 futuri campioni del mondo (Perrotta, Pirlo e Gattuso), ma le colonne sono altri giocatori: rispettivamente Matteo Ferrari in difesa, Gionatha Spinesi e Gianni Comandini davanti, e Roberto Baronio a centrocampo, che guida con perizia i giovani compagni di reparto (tra cui anche Cristiano Zanetti).

Baronio con Andrea Pirlo

Al tempo, Pirlo viene ancora percepito come un fantasista senza continuità di rendimento, forse destinato a perdersi in una carriera mediocre tra squadre di seconda fascia. Mentre quello considerato forte, anzi fortissimo, è il capitano e leader indiscusso di quell’Under, cioè il Nostro. Unico fuoriquota, nel 2000 si cominciano già ad intravedere i limiti di un giocatore troppo poco mobile e dinamico per il calcio moderno.

Ed è proprio nella finale di quel torneo, contro la Repubblica Ceca di Baros, Jankulovski e Ujfalusi, che il mondo capisce che quello forte è Andrea (doppietta in quella finale) e non Roberto. Nonostante quello che si mormora ormai da un paio di stagioni. La sua onesta carriera Baronio in realtà se la costruisce, ritirandosi nel 2011 dopo 17 anni di professionismo, e pochissime partite giocate – poco più di 200 – complici vari infortuni e una scarsissima continuità di rendimento.

La miglior stagione rimane probabilmente quella che lo consacra a livello nazionale con la Reggina nel 1999/00. Da lì in poi si registra un buon biennio col Chievo (2003-2005, con l’unica convocazione in Nazionale della carriera) e qualche sprazzo con la Lazio, che pure aveva puntato su di lui appena 19enne nel lontano 1996, investendo 6,5 miliardi. Una follia, per un giocatore che non è mai sostanzialmente esploso, frenato più dal relativo talento che da una testa che invece ha sempre funzionato. Attualmente allena, ironia della sorte, le nazionali giovanili.

NICOLA VENTOLA

“Il mio giocatore preferito di sempre? Nicola Ventola”. (Erick Thohir, 2013)

Nell’Under campione nel 2000 gioca anche Nicola Ventola da Grumo Appula, hinterland di Bari. Che per la verità già nel 1998 è vicino all’esordio con la Nazionale maggiore: Nicola può già infatti vantare 40 partite da professionista quando, all’alba di una amichevole Italia-Spagna, riceve la chiamata dal ct dei grandi, Dino Zoff. Neanche il tempo di festeggiare che arriva la doccia fredda: in un banale contrasto di gioco il collaterale di Ventola salta, costringendolo ad un lunghissimo stop.

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Ventola con Paulo Sousa (al centro) e Andrea Pirlo

Lui, che esordisce appena 16enne nella massima serie, e che a fine stagione sarebbe finito nientemeno che all’Inter di Gigi Simoni e Ronaldo, da quel tremendo choc non si riprende più. Perché, se nella prima parte di carriera è la sfortuna a frapporsi tra Nicola e il successo, nella seconda ci mette molto del suo: la movida milanese pare che lo avvolga in qualche occasione di troppo e la fama di sciupafemmine e l’allure da modello non aiutano a resistere alle tentazioni. Anche se il suo approccio da professionista non viene messo troppo in discussione. Semmai l’indolenza, quella sì.

Eppure chiude una carriera tutto sommato di rispetto, che nel 2011 conta circa 90 reti da professionista in 250 incontri. Buono score, ma neanche troppo considerate le aspettative altissime verso colui che spesso e volentieri viene schierato come partner d’attacco di un certo Ronaldo il Fenomeno, e che di lampi di talento negli ultimi 20 metri ne aveva messi in mostra parecchi.

E che paradossalmente è più forte e deciso a 18 anni piuttosto che a 25. Di carattere allegro, sposato con una modella svizzera, si gode la pensione dorata tra un bagno in Puglia e un impegno con l’Inter, di cui è tuttora uomo immagine. Come il suo più grande amico nel mondo del calcio: Javiér Zanetti.

FRANCESCO COCO

“Dovranno allargare o spostare la porta perché io riesca a segnare un gol in Serie A.” (Francesco Coco, 2003)

Siciliano doc, viene acquistato 18enne nel 1995 dal Milan di Capello. Non viene accolto benissimo dal tecnico friuliano, che davanti a tutti spara la celebre battuta “Se diventi un giocatore, mi taglio i coglioni”, a cui il giovane terzino risponde con un irriverente “Prepari le forbici, mister”.

Ecco, la parola irriverente è giusta per descrivere la prima parte di carriera di Francesco: destro naturale ma schierato a sinistra, da sempre Coco è capace di crossare bene con entrambi i piedi (chiedere ad Oliver Bierhoff). Terzino moderno, più offensivo che difensivo, le caratteristiche che saltano subito agli occhi sono quelle della propensione alla corsa, della buona adattabilità e del non mollare mai durante i 90 minuti.

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Coco al Barcellona

Invece, qualche infortunio di troppo e la progressiva perdita di garra lo relegano ad una sempre maggiore mediocrità. Lui, che è capace di conquistare la Nazionale e Manuela Arcuri nella stessa stagione. E sempre lui, che viene additato come il nuovo Maldini prima e come il nuovo Georgatos poi, si perde nella movida milanese, venendo così etichettato come personaggio frivolo e superficiale. Certo, non aiuta l’essere scambiato alla pari con Clarence Seedorf, o l’essere paparazzato più di qualunque altro giocatore del pianeta che non si chiami David Beckham.

Eppure è diventato il primo giocatore italiano a vestire la casacca del Barcellona (prestito dal Milan a 7 miliardi di vecchie lire con riscatto a 38,5 miliardi), con la quale disputa una buona stagione fatta di alcuni lampi, ma anche di numerose incompresioni con dirigenza e tifosi.

Lentamente ma inesorabilmente, Coco trova sempre meno continuità fra persistenti acciacchi e qualche episodio poco edificante, come quando viene tagliato durante il training camp del Manchester City per essersi presentato al primo allenamento fumando una sigaretta.

Alfiere della lotta all’omofobia (“Molti mi credono gay. E quindi? Che problema ci sarebbe ad avere un gay in Nazionale?”), guascone con il vizio del lusso sfrenato – dall’estate 2007 è responsabile delle pubbliche relazioni della discoteca Billionaire di Porto Cervo, mentre “vanta” pure una partecipazione all’Isola dei Famosi –, Francesco si ritira neanche 30enne nel 2007.

Due anni prima l’ultima vera stagione del terzino siciliano nel Livorno di Donadoni, che fa gridare gridare alla rinascita. Puntualmente smentita. Decisamente troppo poco, considerate le premesse.

SAMUELE DALLA BONA

Se potessi tornare indietro, resterei per sempre in Inghilterra: è dal 2010 che sono un ex giocatore.” (Sam Dalla Bona, 2014)

Come molti giocatori veneti il gioiellino Sam Dalla Bona viene, appena 14enne, accolto dalle giovanili dell’Atalanta nel 1995. Tecnico e forte fisicamente, viene scippato 17enne dal Chelsea di Vialli, Zola e Poyet. Dopo una stagione da 16 gol nella squadra riserve, è eletto “miglior giocatore emergente delle Academy”, affacciandosi continuativamente alla prima squadra e lasciando intravedere qualità degne del primo Frank Lampard.

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Dalla Bona a 20 anni con Gianfranco Zola

Dal 2000 – anno in cui Vialli lo lancia tra i titolari – al 2002, Sam gioca da titolarissimo in uno dei club più nobili di Londra. Non è ancora il Chelsea odierno di Abramovich, questo va detto. Ma neanche l’Atletico Van Goof, se ci passate la citazione casereccia. Insomma, nel 2002 Sam Dalla Bona è in vetta al mondo: Manchester, Arsenal, Inter e Juve sono soltanto alcuni dei top team interessati alle sue prestazioni.

Lì, il destino gira. Sam è ancora giovane ma vuole di più: prova così il grande salto, rifiutando il rinnovo e scegliendo il campionato italiano, firmando per il Milan di Berlusconi. Sostanzialmente, firma la sua condanna. Crescendo viene infatti meno il dinamismo e il tatticismo del calcio italiano lo stritola inesorabilmente. Iniziano pure ad apostrofarlo come Lady Oscar: il tiro c’è sempre, ma la visione di gioco è limitata e lo si nota più contro la Reggina di turno, tutta arroccata dietro, che in partite di livello.

Ingrigito e imbolsito, l’enfant prodige si perde lentamente tra Milan, Napoli e qualche prestito in giro per l’Italia. Che progressivamente si scorda di lui, così come l’amata Inghilterra. Dopo la morte del padre nel 2010, Dalla Bona cede alla depressione e praticamente smette di giocare. Oggi ha 34 anni, ed è alla ricerca di un’occasione che non arriva dal 2012, sua ultima stagione giocata (8 partite in serie cadetta col Mantova). Peccato. Peccato davvero.

TOMAS LOCATELLI

«È vero, con Mastronunzio mi sono visto, ma per un pour parler. Certo non per il calcioscommesse, perché la partita non era quotata. Gervasoni dice che chiesi all’avversario una “cortesia”, che poi di fatto non c’è stata, perché Mastronunzio fece due gol e ci mandò in Serie C». (Tomas Locatelli, 2012)

Bergamasco, anche lui inizia la carriera nel vivaio dell’Atalanta, che raggiunge 15enne nel lontano 1991. Dopo una vita passata tra squadre di mezza classifica (dall’Udinese al Bologna fino a Siena e Mantova), il biondo mechato più famoso dei primi anni 2000 si ritira all’alba della stagione 2012/13, costretto dal PM dopo un patteggiamento – nell’ambito dell’ennesimo caso di calcioscommesse che travolge la penisola – ad una squalifica di 2 anni. Troppi per rientrare, considerata l’età del Nostro, allora 36enne.

Tomas si dichiara innocente da sempre, anche se non è in grado di dare una risposta precisa alla domanda “Allora Locatelli, perché ha patteggiato?”. Evidentemente, pesa la sua incapacità nel dare la risposta ad un’altra domanda ancor più interessante: “Cosa ci faceva, di notte fonda, nel parcheggio di un supermercato col centravanti della squadra avversaria, che avresti incontrato in un match decisivo di lì a poche ore?”. Colpevole o no, la squalifica rimane una macchia difficile da lavare nella lunga carriera di Tomas.

SIENA, ITALY - OCTOBER 15: Christian Obodo of Udinese competes with Tomas Locatelli of Siena during the Serie A match between Siena and Udinese at the Comunale Artemio Franchi Stadium on October 15, 2005 in Siena , Italy. (Photo by New Press/Getty Images) *** Local Caption *** Christian Obodo;Tomas Locatelli
Locatelli al Siena

Che pure comincia col botto: già titolare in Serie B a 17 anni, nel 1995 viene acquistato per quasi 3 miliardi di lire nientemeno che dal Milan. Chiuso dai fenomeni rossoneri – non che fosse male crescere osservando in allenamento Roberto Baggio – dopo una manciata di partite in due stagioni, migra nell’Udinese. Qui Tomas, mezzapunta dal sinistro fatato spesso schierato dietro le punte, esplode e raggiunge due convocazioni nella Nazionale maggiore. Lui, che da anni imperversa e incanta nelle varie selezioni giovanili.

Poi, improvvisamente, qualcosa si rompe: l’Udinese accetta 10 milioni di euro – dopo che la stagione precedente ne aveva rifiutati 20 dall’Inter – e Loca passa al Bologna, dove giocherà a fasi alterne per ben 5 stagioni. Alternando partite fantastiche a prestazioni imbarazzanti e a tratti irritanti. Nel mezzo, finiscono pure un terrificante infortunio e le sempre più insistenti e continue voci che vogliono Locatelli troppo spesso fuori – in compagnia dell’amico Macellari e spesso di “gentili” signorine – a fare le ore piccole, perso tra vizi d’ogni sorta.

Fin troppo sicuro di sé, al limite dell’arroganza ed allergico agli allenamenti, Locatelli lentamente si perde: la vita sregolata gli costa una lenta discesa nell’anonimato. Dal quale emerge sempre più raramente, grazie a quel talento cristallino, che da sempre si porta dietro col suo mancino morbido ed effettato. Spesso cazziato dal portierone Pagliuca, in quegli anni a Bologna gira spesso la voce che Loca – in realtà amatissimo da tifosi e compagni – giochi bene soltanto alla sera, quando le tossine delle serate alcoliche sono ormai state espulse dall’organismo.

Veritiere o meno che siano le voci, alla fine la dirigenza si stufa di lui e a malincuore lo manda a Siena nel 2005 (ormai 32enne); coi senesi Tomas gioca qualche mediocre stagione fatta di pochi lampi e molte lunghe notti. Fino ad arrivare al Mantova in B, alla Spal in Lega Pro e infine a svernare in serie D con l’Arezzo. Peccato, perché di talenti così puri se ne vedono pochi in giro.