Il Ponziana, squadra di Trieste che scelse il campionato jugoslavo - Zona Cesarini

Il Ponziana, squadra di Trieste che scelse il campionato jugoslavo

«Quando una città non sa dov’è, di chi è, che cos’è, allora si affida alla letteratura».

Claudio Magris è il più grande intellettuale triestino vivente. Come pochi altri ha saputo catturare l’anima inquieta della città natale, la sua identità sfuggente e multiforme, l’asprezza di una storia dove il confine non è solamente una dogana o un cartello stradale, ma essenza stessa di un modo di vivere e raccontarsi.

Il tormento di Magris s’inserisce in un lungo percorso culturale che affonda nei grandi scrittori della città, da Slataper a Svevo, passando per il soggiorno di James Joyce e i versi di Umberto Saba, cantori di una radice e una vocazione – mitteleuropea e mediterranea allo stesso tempo – che ha fatto di Trieste una città aperta, rigogliosa e tollerante.

Del resto, quando hai una piazza unica al mondo che si affaccia direttamente sul mare e dentro le tue mura convivono gli edifici di ben sette confessioni religiose, è normale che alla naturale diffidenza si accompagni anche un malcelato senso di gentilezza e generosità.

saba

E se davvero la letteratura ha agito da collante, rimarginando e riaggregando i brandelli di un’identità composita e ingannevole, altrettanto ha tentato di fare il calcio, scontrandosi tuttavia, in più di un’occasione, con i frammenti di una storia vissuta pericolosamente lungo una delle più tragiche frontiere del Novecento.

Proprio Saba, peraltro, fece incontrare per primo il pallone e la poesia, dedicando alla squadra della città alcune delle sue liriche più celebri, le cinque poesie sul gioco del calcio composte negli anni ’30.

“Anch’io tra i molti vi saluto, rosso alabardati,
sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati.

La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.”

Nei versi di Saba riecheggiano la scoperta quasi casuale del calcio, il suo simbolismo metaforico capace di scandagliare l’animo umano e, soprattutto, l’attrazione popolare verso la Triestina, la squadra della città fondata nel 1919. Ma all’inizio del secolo, e in particolar modo a Trieste, il calcio è anche e soprattutto politica. Nel 1904, per esempio, nasce l’Edera, una società sportiva di evidente matrice repubblicana e mazziniana: bandiera rossa con edera verde e un indomito sentimento di irredentismo antiasburgico a guidarne le imprese sportive.

Qualche anno più tardi, nel 1912, nel quartiere operaio di San Giacomo vede invece la luce il Ponziana, colori sociali bianco-celeste. Alla vocazione politica, costituita prevalentemente dai nascenti ideali socialisti, si aggiunge quella rionale, con la forte componente della comunità slovena della città.

La storia del Ponziana è un viaggio di speranza e sofferenza dentro le più paradossali incongruenze del secolo; costretto alla fusione da cui nasce la Triestina, il club si riforma nel 1920 arrivando fino all’allora serie B.

Nel 1928, il fascismo impone la riorganizzazione dei campionati e l’accorpamento di società sportive considerate non particolarmente inclini al regime: l’operaio Ponziana e la repubblicana Edera si uniscono trasformandosi nell’ASPE, l’Associazione Sportiva Ponziana Edera, mentre un gruppo di dirigenti e associati contrari all’operazione esce dalla Figc per partecipare ai tornei minori con il nome di Ponzianini Erranti.

Nel giro di pochi anni, l’ASPE riassume il nome di Ponziana, con cui prende parte stabilmente ai campionati di Seconda Divisione, il terzo livello del calcio italiano dell’epoca, incrociando le strade di formazioni che cominciavano a sentire sulla propria pelle le tensioni crescenti tra le due sponde dell’Adriatico, come le istriane Fiumana e Grion Pola, a loro volta portatrici di un valore e un significato capaci di andare oltre il semplice tiro di un pallone. La “squadra dei cantieri”, come viene ribattezzata, si trova così al centro di un complesso crocevia di passioni e rivendicazioni che presto finiranno con il travolgerla direttamente.

Il confine Trieste-Jugoslavia

Al termine della seconda guerra mondiale, infatti, mentre ovunque in Europa il calcio riprende le sue attività, Trieste è ancora sede di un conflitto permanente che coinvolge l’Italia, gli alleati e la neonata Jugoslavia comunista di Tito. Si è venuto a formare il TLT, il Territorio Libero di Trieste, con la suddivisione del territorio in due zone: la A, comprendente il capoluogo e parte della Venezia Giulia, sotto il controllo delle forze alleate, e la B, formata dalla parte orientale della regione fino all’Istria, in mano all’esercito jugoslavo.

Dentro i vicoli del centro, tra i salotti e i caffè della borghesia illuminata e le osterie dei rioni popolari, si gioca un’attendista e diplomatica partita per la sopravvivenza e la definizione stessa dell’anima di una città. E i campi di calcio, come spesso accade, ne diventano detonatori esplosivi e improvvisi. Sono anni di stenti e ricostruzioni; dal fronte ritornano giovani stremati, ma pieni della voglia di rimettere in ordine i cocci di vite in bilico. Li aspettano i cantieri e, nella migliore delle ipotesi, le maglie delle squadre di calcio cittadine: la Triestina e il Ponziana.

Euro Giannini è uno di questi: è un mediano dotato di un atletismo e una resistenza forgiati dentro il campo di prigionia di Mundorf e negli occhi brilla il richiamo dell’orizzonte natale e di una maglia del Ponziana pronta per essere indossata. Il suo stupore, di fronte a un’offerta sei volte superiore rispetto a quando se n’era partito per la guerra, è raccontato magistralmente da Giuliano Sadar nel bellissimo Una lunga giornata di bora, romanzo sportivo e umano sulle vicende del calcio triestino.

Giannini accetta e capisce: il Ponziana ora si chiama Amatori Ponziana e sta per cominciare un’insolita avventura nella massima divisione del campionato jugoslavo. I soldi arrivano direttamente dal regime di Tito, per il quale il controllo di Trieste è strategico e il coinvolgimento del pallone un grimaldello irrinunciabile. Una squadra di Trieste sta per esordire in un torneo sportivo di una nazione confinante.

È successo qualcosa di strano: nel rione di San Giacomo, l’ideologia socialista ha preso il sopravvento e il richiamo di Tito è stato più potente di qualsiasi collocazione territoriale. Sulle due sponde della città, si gioca un insolito derby che non vede le due squadre incrociare i tacchetti sul campo, ma i loro dirigenti tentare di prevalere presso gli uffici legali e burocratici; inizia un lungo braccio di ferro per far rientrare i migliori calciatori triestini, con la consapevolezza che la scelta dell’una o dell’altra maglia rappresenti qualcosa di più di un semplice vantaggio sportivo.

Al Ponziana ritorna, tra gli altri, anche Ettore “Etto” Valcareggi, fratello minore di Ferruccio, il futuro commissario tecnico della nazionale. La tensione lambisce anche altre sfere dello sport: durante il Giro d’Italia del 1946, la tappa Rovigo-Trieste viene interrotta da attivisti triestini che sostengono l’annessione alla Jugoslavia. In località Pieris, la strada viene ostruita con blocchi di cemento e i corridori bersagliati da un lancio di chiodi e pietre, mentre con la polizia, composta prevalentemente da militari americani, scaturisce anche un breve conflitto a fuoco.

Per tre stagioni, fino al 1949, lo stadio “Comunale” di Trieste si trova nella grottesca situazione di ospitare alternativamente, ogni fine settimana, una gara del campionato italiano e una di quello jugoslavo. Passano in città i grandi club della Stella Rossa, del Partizan e dell’Hajduk Spalato, calpestano il suolo triestino i campioni slavi dell’epoca come il leggendario Vladimir Beara, il portiere-ballerino, Vujadin Boškov e il suo Vojvodina, i formidabili Zlatko Čajkovski e Rajko Mitić.

Di contro, il Ponziana si trova ad affrontare interminabili viaggi in treno, fin dentro le gole dei Balcani, accolto sovente da stadi con oltre 50mila spettatori, così diversi dalle modeste presenze registrate nell’impianto triestino.

Immagini di Ponziana – Partizan Belgrado (stagione 1946/47)

Sono frangenti paradossali, con le cronache sportive che si illuminano o si quietano a seconda degli orientamenti ideologici dei giornali: il Piccolo, il quotidiano della borghesia cittadina, quasi censura le avventure del Ponziana, che assumono al contrario contorni epici sulle colonne del Corriere di Trieste, con simpatie di sinistra e indipendentiste, o sullo sloveno Primorski Dnevnik.

Trieste è terminale di una partita a scacchi che si gioca tra Belgrado e Roma; già, perché se è vero che Tito e suoi uomini finanziano apertamente i dirigenti ponzianini, anche la Triestina occupa i pensieri e le preoccupazioni del potere politico italiano. Incaricato di gestire i rapporti con la società alabardata e garantire il trasferimento dei soldi necessari, è un giovane sottosegretario democristiano di nome Giulio Andreotti.

E quando, al termine della stagione 1946/47, la Triestina si classifica tristemente ultima, la politica e la federazione non manifestano alcuna esitazione, deliberando il ripescaggio e l’ampliamento del numero di squadre del campionato successivo. Ma se gli alabardati devono restare nella massima serie come segno di riconoscenza verso una città lacerata e divisa tra i vincitori della guerra, allo stesso modo le autorità comuniste jugoslave ripescano il retrocesso Ponziana nel massimo campionato.

Nella stagione 1947/48, la Triestina, con Nereo Rocco in panchina e Giannini passato sulla sponda “alleata”, si rivela come la sorpresa del torneo, classificandosi al secondo posto dietro il Grande Torino, mentre il Ponziana conquista la salvezza, togliendosi la soddisfazione di vincere in trasferta contro l’Hajduk Spalato.

L’affascinante epopea del Ponziana jugoslavo comincia ad affievolirsi in un giorno di giugno del 1948: la rottura tra Tito e Stalin e la scissione del Cominform comportano il riavvicinamento del Maresciallo ai governi occidentali, aprendo la strada alla soluzione della questione di Trieste che viene formalizzata nel 1954 con l’abbandono di ogni velleità sulla città in cambio della cessione della regione istriana.

Il Ponziana negli anni ’70 (credits: Il Piccolo di Trieste)

L’episodio, che segna anche una lacerante contraddizione all’interno del movimento operaio triestino, con i comunisti di etnia italiana fedeli a Stalin e quelli sloveni più vicini alle posizioni di Tito, contribuisce di fatto alla rinuncia nei confronti dell’esperienza simbolica del Ponziana; privato di sostegno economico e appoggio politico, svanisce di fatto il sogno del club, che nel 1949 si riunisce al Ponziana italiano nel campionato di serie C, non senza una sorta di espiazione della colpa, imposta dalla Figc a tutti i calciatori che erano stati tesserati per la federazione jugoslava a cui viene inflitta una squalifica di sei mesi.

Comincia una nuova storia, quella di una squadra rionale che nel 1960 diventa persino campione nazionale di Prima Categoria nella finale giocata a Rimini contro la Scafatese; quella di una società che lancia giovani promesse come Fabio Cudicini, Giovanni Galeone e Giorgio Ferrini, che sarà indimenticato capitano del Torino e a cui è dedicato il piccolo centro sportivo dove i “veltri” (altro soprannome del Ponziana) hanno proseguito negli anni più recenti la propria attività.

annulo

È anche la storia di una squadra che nella stagione 1974/75, tornata in serie C, si trova inaspettatamente ad affrontare il derby contro i rivali cittadini della Triestina; e il 1° dicembre 1974, davanti a 20mila spettatori assiepati nello stadio del rione Valmaura intitolato a Pino Grezar, il piccolo Ponziana sostenuto dalla base operaia e popolare in arrivo da San Giacomo e da Servola si permette il lusso di sconfiggere 1-0 con un gol di Miorandi il blasonato ed elitario avversario.

ventimila al grezar

L’ultimo sussulto prima del declino definitivo, culminato con la scomparsa del club decretata sul finire del 2014, dopo 102 anni di storia. Un’agonia che suona anche come un messaggio di speranza, un segno distintivo d’identità dentro i rivoli scivolosi e inafferrabili di una città unica, solitaria e che, come sostiene Magris, non sa bene cos’è.

Perché, come diceva Kierkegaard, la vita può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti, ossia verso qualcosa che non esiste.