La promessa, la svolta, il prestigio. Dejan Savicevic: apologia del Genio - Zona Cesarini
photo: Sports/Icon Sport

La promessa, la svolta, il prestigio. Dejan Savicevic: apologia del Genio

«L’illusionista prende qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente, bisogna anche farla riapparire. Ora voi state cercando il segreto. Ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando: volete essere ingannati. Per questo ogni numero di magia ha un ultimo atto, la parte più ardua: quello che chiamiamo il Prestigio.»

Il prologo del riuscito thriller di Christopher Nolan, The Prestige, mai come in questo caso serve per andare un po’ oltre e – per estensione – riuscire a descrivere il mondo ammantato di magia calcistica che abbraccia la figura di Dejan Savicevic.

Come spiega Michael Caine nella scena d’apertura del film, un prestigio è qualcosa che va oltre la “semplice” illusione: non basta un trucco, per quanto sofisticato, a decretarne successo e memoria; gli elementi cardine di chi ha fatto dell’illusione un mestiere sono necessariamente tre: la promessa, la svolta e il prestigio. Un’operazione raffinata che dapprima cattura l’attenzione dello spettatore, poi lo sorprende e infine – passaggio decisivo – lo inganna, lasciandolo con una sensazione a metà fra meraviglia e sgomento.

Lo stesso modus operandi si potrebbe applicare a colui che rimane uno dei fantasisti di maggior talento degli ultimi 25 anni. È montenegrino, indolente e mancino: Dejan Savicevic sembra racchiudere in sé i tratti distintivi del talento puro senza compromessi. Identikit oltremodo abusato nella narrazione calcistica di ieri e di oggi ma, per una volta, veritiero. Perché Savicevic ha rappresentato la sublimazione del concetto di genio e pigrizia, o di talento discontinuo. Fino ad unire gli estremi di tali concetti.

Savicevic durante un derby (credits: inter-news.it)

«Il caos spesso genera la vita, laddove l’ordine spesso genera l’abitudine». (H. Adams)

Se scandagliamo il concetto espresso in due righe da Henry Adams non appare difficile comprenderne la portata generale: il talento, come espressione pura di una misteriosa combinazione genetica è esso stesso risultato diretto e tangibile del caos; l’ordinarietà, come ricerca di un modello a cui aggrapparsi per inseguire un paradigma di vita è semplice abitudine, che spesso sfocia in manifestazione routinaria. Prendendo per buono l’assunto di base, Dejan Savicevic si eleva a prototipo avanzato del caos primigenio.

Perché la congiunzione astrale che ha consegnato alla storia del gioco i due fantasisti tecnicamente più dotati degli ultimi 40 anni di storia dei Balcani, è qualcosa di beffardo e insieme sublime. Nel 1966 a Podgorica, allora Titograd, viene alla luce Dejan; un anno prima a Niš, cittadina dell’entroterra serbo, nasce Dragan. Savicevic e Stojkovic. Sostanzialmente, metà dell’aura di leggenda che avvolge il calcio di una penisola selvaggia e decadente si deve a questa strana coincidenza temporale.

Perché i due, assieme, stanno al calcio come il tandem Jeff Beck-Eric Clapton alle chitarre degli Yardbirds. Come Slow Hand e The Loner, soprannomi dei due chitarristi, Dejan e Piksi sono due straordinari solisti che insieme riescono a dare il meglio di se stessi. Caso rarissimo. Come Clapton e Beck scardinarono regole e forme conferendo all’assolo rock una dignità a sé stante a colpi di feedback e fuzztone, gettando le basi di un’irripetibile stagione, allo stesso modo Savicevic e Stojkovic riuscirono a superare l’adagio calcistico che due fuoriclasse in ruoli simili finiscono per pestarsi i piedi. Questo periodo d’oro fa rima con Stella Rossa di Belgrado.

Una Stella a due punte

Rivedere oggi quei due numeri 10 in campo assieme, nel fiore della carriera e in una squadra giovanissima ma fenomenale, è qualcosa che puo’ far male agli appassionati. Per un paio di ragioni.

Anzitutto, l’essenzialità estetica del duo di fantasisti jugoslavi: dotati di un fisico comune, divise senza sponsor, scarpini total-black e un allure da antieroi da spy-story di John Le Carré. Poi la ragione principale: in campo, all’interno di un collettivo talentuoso e ben collaudato, seguono l’istinto e possono permettersi assoli oggi inimmaginabili. Infiniti soliloqui palla al piede. Arabeschi e illusioni.

Se Stojkovic con i suoi dribbling dalla forma sinusoidale è slow hand, Savicevic con le sue fughe solitarie palla al piede è the loner. Eppure, senza spazio per l’improvvisazione di entrambi non avrebbe mai preso forma il più grande underdog calcistico degli ultimi 25 anni: la Zvezda campione d’Europa.

In barba a tatticismi spinti e uber-statistiche da dati OPTA: siamo nel mondo del duello all’arma bianca, del genio e delle sue lunghe pause. O lo si accetta, cogliendone il lato romantico e ludico, o si può lasciar perdere.

Cogliere il passaggio emblematico di una carriera e forse di un’intera epoca non è operazione semplice, ma le due settimane che intercorrono fra il 27 ottobre e il 9 novembre del 1988 possono aiutare. Al Meazza si gioca la gara d’andata Milan-Stella Rossa, turno ad eliminazione diretta della Coppa dei Campioni. In quella serata umida esplode una supernova. Esonda un talento, con la forza di una mareggiata oceanica. È la notte di Piksi Stojkovic, che umilia il Milan di Sacchi portandolo a spasso lungo traiettorie non umane.

Stojkovic s’impone all’attenzione internazionale come si potrebbe imporre un meteorite che impatta la superficie terrestre. Gioca un calcio indecifrabile, anti-contemporaneo, barocco. Eppure, a ben vedere, è sempre e solo lui che detta tempi, giocate e passaggi; è Piksi che prende il tempo di gioco e lo piega al suo volere, all’ispirazione, ad insistiti tocchi di suola e ricerca dell’avversario. Non è soltanto un leader tecnico, è uno dei pochissimi giocatori al mondo che ha la capacità innata di incanalare una partita attorno a sé.

In quella partita, che finirà 1-1, segna un gol che è il suo manifesto tecnico: salta secco sull’interno Tassotti, poi sembra voler accentrarsi con quel passo corto e frenetico, con la palla incollata al piede, invece sterza sul destro, facendo fare a Baresi una brutta figura e trafiggendo un colpevole Galli con un collo destro in anticipo sul primo palo.

Il Milan pareggerà poco dopo con Virdis, ma Sacchi sa che la sua creatura modernista è chiamata ad una vera impresa al Marakana due settimane dopo. Perché, insieme a quel 10 che attrae il gioco su di sé, c’è un altro 10 che, al contrario, elude il gioco corale in attesa di un illogico quanto irrazionale momento per colpire.

Gioca quasi esclusivamente col sinistro e quando abbassa la testa per sfidare il marcatore nell’uno-contro-uno è un boia che recita la sua sentenza. Dejan Savicevic è l’altro 10; o meglio, è l’altro modo di intendere il numero 10: indolente e intermittente, ma semplicemente inarrestabile.

Vive una partita tutta sua, impossibile da catalogare almeno secondo i criteri odierni. È uno squarcio espressionista, un dripping pollockiano che gocciola timidamente sul campo. Al ritorno, però, le parti sembrano invertirsi. Stojkovic dà sempre sfoggio della sua classe, ma il migliore in campo è Dejan. Segnerebbe pure il gol qualificazione con una saetta mancina dai 15 metri, ma l’arbitro annulla e sospende la partita al 67°: una nebbia che ha del fantozziano avvolge Belgrado. Sarà la salvezza del primo grande Milan di Sacchi. Le sliding doors che apriranno un’epoca dorata e rivoluzionaria.

“C’erano solo due persone al mondo per cui valeva la pena pagare il prezzo del biglietto: Marco Van Basten e il Genio”. (A. Costacurta)

Billy si è scordato il terzo uomo per cui valeva la pena spendere in quel periodo…

Perché la partita verrà ripetuta, per intero, il giorno seguente. E il Milan porterà faticosamente ai rigori una sfida quasi compromessa che sarebbe potuta valere una finale. Proprio ai rigori riceverà il regalo più inaspettato: Savicevic fallisce clamorosamente il tiro. Il Milan, superate le gole dei Balcani grazie a una nebbia atavica, volerà verso la prima Coppa dei Campioni a firma Sacchi; la Stella ha preso coscienza che con quello schieramento col doble 10 può giocarsi il traguardo più prestigioso. Perché il tempo è dalla sua.

Il San Nicola, la consacrazione e la fuga

Infatti, due anni più tardi, il clamoroso trionfo europeo della Zvezda si materializzerà al San Nicola di Bari. Con un’enorme eccezione: Piksi è dall’altro lato della barricata, la dirigenza della Stella ha ceduto alle lusinghe del Berlusconi d’Oltralpe: l’edonismo rampante quanto opaco di Bernard Tapie ha fatto incetta dei migliori talenti europei, e Dragan Stojkovic è la stella più abbagliante in una walk-of-fame di nome Olympique Marsiglia che è chiamata a non fallire.

Quella squadra ha tutti i favori del pronostico, ma le finali secche, spesso, sono territorio inspiegabile. Come quella del 1991 a Bari: probabilmente la più brutta degli ultimi 25 anni. È una sfida contratta, al limite della paura, lo 0-0 è la soluzione più naturale. A deciderla saranno i calci di rigore: materia metafisica per eccellenza. Dagli undici metri la Stella Rossa dimostra incoscienza, freddezza e nervi d’acciaio, scaraventando dentro tutti i penalty a disposizione.

Savicevic segna spiazzando il portiere e decretando un trionfo per molti aspetti irripetibile. Stojkovic, dopo l’ennesimo infortunio, ha seguito la gara per 112 minuti come spettatore. Il grande ex ha lo sguardo malinconico di un pistolero western di Sam Peckinpah, la stessa smorfia sommessa di chi sa che ha perso un’occasione unica in carriera: era lui l’incaricato del quinto penalty, quello che non arriverà mai.

Quella notte, illuminata a giorno dal rosso dei bengala dei 20mila tifosi della Zvezda, ha sancito un passaggio di testimone: adesso il 10 in Jugoslavia è simboleggiato dal sinistro diabolico di Dejan.

È una cesura, una di quelle fratture che chiudono un’era per aprirne una nuova. Il trionfo della Stella Rossa del Genio è l’equivalente calcistico di Nevermind dei Nirvana, deflagrato su scala mondiale con la furia di un incendio poche settimane dopo la notte di Bari. Il trionfo dei ragazzi di Belgrado e l’esplosione su scala mondiale del fenomeno grunge viaggiano di pari passo: stessa forza, stesso sentore di destabilizzazione di un establishment. Soffia il vento di un’effimera stagione di antieroi.

Ma, come noto, quella carica eversiva in poco tempo si ridurrà ad ennesimo fenomeno di massa. Così come la Stella Rossa perderà per strada i suoi maggiori talenti – Savicevic, Prosinecki, Mihajlovic e Belodedici in primis – e la Jugoslavia affronterà di lì a pochi mesi il più sconvolgente conflitto su territorio europeo dai tempi della seconda Guerra Mondiale.

Le sirene del Milan, spinte dal desiderio di Berlusconi di vedere un vero 10 con la maglia rossonera, rimbombano fino a Belgrado mettendo sul piatto argomenti convincenti per la dirigenza della Zvezda. 10 miliardi di lire: Dejan fa le valigie, direzione Milanello.

Il Genio, il Generale e la notte di Atene

Insomma, quello che arriva a Milano nell’estate del 1992 è un giocatore d’eccellenza: porta in dote una Coppa dei Campioni, un’Intercontinentale e un secondo posto nella classifica del Pallone d’Oro. L’attesa nel vederlo all’opera è spasmodica, considerando che in quegli anni le occasioni di “conoscere” un giocatore erano ben poche: o lo osservavi dal vivo, o toccava farsi una vaga idea con qualche sparuta immagine dei turni delle coppe internazionali.

E ciò che accade al primo allenamento a Milanello è materiale che sublima nel Prestigio. È la quintessenza del Genio. Il Milan di Fabio Capello ha la miglior difesa al mondo per distacco. Superfluo sottolineare forza, talento e compattezza del poker Tassotti-Baresi-Costacurta-Maldini. Quel pomeriggio, però, in un clima estivo particolarmente rilassato, Dejan scende in campo per la sua prima partitella tra compagni.

E per quella difesa è un incubo della durata di 30 minuti: salta sempre il diretto marcatore, sia esso Maldini o Baresi, nasconde il pallone e lo fa riapparire, brucia chiunque nei primissimi metri, tiene palla per decine di secondi. Schierato nella “squadra riserve”, al primo allenamento, Savicevic fa capire di cosa è capace. E i tifosi presenti a bordocampo rimangono increduli, divisi fra sorrisi e una strana sensazione di meraviglia. Di cosa è davvero capace questo montenegrino dall’aria trasognata e un po’ bohémien?

Di tutto e il contrario di tutto. Perché Savicevic, forse come nessun altro, incarna alla perfezione gli stilemi del fantasista jugoslavo. Nel suo calcio fuori dagli schemi, che vive d’istinto e ispirazione, convive l’anima di una terra sorprendente e selvaggia, spesso indecifrabile ad osservatori esterni. Nel suo modo di dribblare c’è il fare scanzonato di un gitano, nelle sue lunghe pause c’è la rilassatezza dell’incrocio fra Sava e Danubio, i due grandi fiumi che s’incontrano nel parco di Kalemegdan, il cuore di Belgrado. È, insomma, un 10 tout-court. In questo senso la caratteristica apicale è il fatto di essere mancino.

Alcune ricerche hanno permesso di stabilire, con buona attendibilità, che il mancinismo applicato allo sport sia caratteristica di qualità innate. È questione di percezione dello spazio e del tempo in rapporto al gioco. Alcuni mancini ne hanno una tutta loro, più immediata ed efficace rispetto ai destrorsi. In questa particolare skill, Savicevic esagera. Sta forse qui il segreto del Prestigio, perché più si osservano le giocate proposte dal Genio e più siamo davanti a qualcosa di bizzarro.

Il suo dribbling non è soltanto un mix stordente di tecnica e rapidità, ma fa storia a sé. Come le punizioni di Roberto Carlos e Rivelino o i pallonetti di Maradona. È una dimensione parallela dove le normali certezze si frantumano sotto la spinta del numero 10 rossonero. Decrittare il dribbling di Dejan è come provare a spiegare un quadro di Kandinskij: il risultato rimarrà sempre lontano dalla sensazione suscitata sul momento. Eppure qualcosa si può dire.

Ad esempio che Savicevic sposta in avanti il concetto di “conduzione di palla”: quando decide di accelerare e ha campo, riesce a mantenere la testa alta senza mai guardare la sfera (come un altro grande sinistro) mantenendola a distanza perfetta per la giocata successiva. Padronanza assoluta del lato tecnico.

Quando è chiuso in un fazzoletto di campo, circondato da avversari, mette in moto quel meccanismo da illusionista che fa apparire e scomparire la palla in pochi, sveltissimi tocchi usando indifferentemente suola, interno, esterno, tacco e punta di quel piede fatato. Uscendo da tonnare di tacchetti e tackle, come se avesse la capacità di attraversare i corpi solidi. Inoltre, il suo dribbling insistito e improvviso è di difficilissima lettura per qualsiasi avversario proprio per la natura caotica e inconscia dello stesso.

Ma dato che è così talentuoso e fuori da ogni sovrastruttura tattica, Dejan è pure oltremodo discontinuo, indolente. Sublimazione di alto e basso. Un’essenza che mal si sposa con le esigenze di un campionato di altissimo livello e con un allenatore che potrebbe recitare la parte del reazionario capo della Polizia in un film à-la William Friedkin. Il braccio violento della Legge è rappresentato da Fabio Capello, il mister che più di tutti rappresenta la nemesi dell’istintività di Savicevic.

Durante il regno di Don Fabio non mancano le incomprensioni, anzi. È la routine. Più il mister cerca di comprimerlo all’interno di un contesto tattico rigoroso e organizzato, più il Nostro rifugge ogni soffocante dettame; è così che si sviluppa un rapporto elusivo e a tratti logorante.

Capello non è uomo da mettere in discussione le proprie convinzioni – e risultati – in onore dello spettacolo o dell’esibizione di un talento. È totalitario, e il Genio ne fa le spese: dopo il periodo iniziale le sue presenze da titolare diminuiscono, le giocate scemano insieme ai minuti e a una collocazione tattica mai chiarita fino in fondo.

Il Prestigio si è inceppato. Chiamandosi dietro le urla di frustrazione di buona parte del pubblico milanista, che, negli anni, osserva un fantasista fuori dai canoni che troppo spesso dimentica il significato di continuità. Amore e disperazione convivono nell’animo del tifoso rossonero.

Peccato che Capello mi ha tolto, nel secondo tempo con l’ombra al posto del sole avrei dato spettacolo.” (Savicevic su una sostituzione in campionato)

Fino a una notte di maggio del 1994. Il mondiale è alle porte, la Jugoslavia non esiste più, il Montenegro è solo un’enclave federale serba e la penisola balcanica è dilaniata da una guerra fratricida che, tra le altre cose, spazza via dalla geografia calcistica internazionale una generazione ricchissima di talento. A Savicevic non rimane che sorprendere con la maglia del Milan sul palcoscenico più affascinante, la Champions. Il Diavolo di Capello è arrivato in finale, ad Atene, contro il Barcellona di Johan Cruijff; per tutti, semplicemente il Dream Team.

La storia è nota. Probabilmente, la serata più memorabile degli ultimi 20 anni a tinte rossonere. Il Milan, privo di Baresi e Costacurta, affronta il Barça di Romário, Stoichkov, Guardiola e Koeman. Quello che stava dominando la scena, nazionale ed internazionale, ormai da anni. Cruijff, in uno dei suoi tipici slanci tra sbruffoneria e provocazione, il giorno prima si era fatto fotografare con la coppa dalle grandi orecchie. Mai gesto fu più sciagurato.

Il Barcellona di Cruijff

Il Milan degli Invincibili mette in scena la partita perfetta: la dimostrazione plastica di una superiorità assoluta. È l’emblema del calcio “capelliano“, una supremazia di ritmo, intensità, velocità e ordine che mette in soggezione qualunque avversario, anche il Dream Team, che viene spazzato via da quel 4-4-2 geometrico, essenziale, plasmato in ogni dettaglio dalla mente ultra-razionale di Capello. Ma in quel modulo basato su corsa, sovrapposizioni, pressing alto e distanze ed organizzazione ferrea tra reparti, c’è spazio per un elemento di caos. Che lascia ai posteri una giocata espressionista.

Sul 2-0 per il Milan, il Barcellona cerca disperatamente di accennare una reazione perché la partita è ancora da sigillare. Qui sbuca il Genio. Va in pressing su Nadal un paio di metri fuori dall’area blaugrana, commetterebbe pure una gamba tesa ma poco importa, ruba il pallone con la suola al centrale e la palla rimbalza sul vertice dell’area di rigore. Ha lo spazio per controllare, addomesticare con un tocco, entrare dentro e provare il tiro oppure attendere un paio di secondi e scaricare all’indietro per il più classico dei gol “a rimorchio”. Ma così non si entra nella storia del calcio.

Deve aver pensato questo, Dejan, in quell’esatto istante di follia e genio che intercorre fra il primo e il secondo rimbalzo del pallone. Perché ciò che esibisce per il 3-0 rossonero è materia metafisica. Una parabola a campanile amplissima, irresistibile, geniale. Apre il piatto mancino e illumina la notte di Atene con uno dei gol più belli della storia della Champions per coefficiente di difficoltà e imprevedibilità. Perfino un monumento come Zubizzarreta fa la figura del peracottaro.

Il colpo rarefatto del Genio è una pennellata che non ammette repliche: si può solo ammirare, arrovellandosi il cervello alla ricerca di una spiegazione che probabilmente non esiste. È istinto, talento puro che viaggia nello spazio e finisce la sua corsa nell’incrocio più lontano.

Una di quelle opere da inserire di diritto nella lista che Woody Allen sciorina in Manhattan, quando s’interroga sulle cose per cui vale la pena di vivere: insieme a Joe Di Maggio, Louis Armstrong, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, i film di Bergman e le nature morte di Cézanne. Il pallonetto di Savicevic è volontà di creazione. Dejan, adesso, ha dimostrato al mondo il perché di quel soprannome così totalizzante. Da prestigiatore di talento a Genio. Un salto di nobiltà calcistica nell’occasione più importante. Perfino Capello – solitamente restìo a commenti personali – si lascia andare:

In quella partita sono stati tutti da dieci, ma Dejan da dieci e lode”.

Da comprimario di lusso ad attore protagonista nella notte più importante; da elzeviro decorativo a fuoriclasse che incenerisce la banda di Cruijff. Savicevic ha definitivamente cancellato le sue assenze, il suo piglio indolente e le sue giocate astratte grazie a quella partita da “dieci e lode”, quella che lo consacrerà nei ricordi dei tifosi come il Genio. Eppure, nelle pochissime occasioni in cui parla di sé, pare sinceramente sorpreso da questa definizione. Come se fosse qualcosa che in fondo non lo riguarda da vicino.

“Io non mi considero affatto un genio. Ero un ottimo giocatore e basta. Mi hanno dato quel nome perché facevo cose che altri non provavano mai a fare.”

Risiede forse tutto qui il segreto di Dejan Savicevic: in quella patina ribelle, anticonformista e dimessa. Quella di chi vive e gioca assecondando un istinto e una dote naturale. Senza dare troppa importanza a quelle che rimangono delle giocate su un campo da calcio.

Fuori sincrono rispetto ad un ambiente fondato su pressioni, attenzioni, enormi interessi e pulsioni d’ogni sorta, il Genio è l’espressione ultima di un giocatore che vive per accarezzare la palla, creare sofisticati dribbling per lasciare lo spettatore con gli occhi sgranati o con le urla d’imprecazione in gola per una soluzione inspiegabile e per prestazioni spettrali, divertendosi come il primo giorno e dando poca importanza al resto.

Proprio come oggi: Savicevic vive a Podgorica e ricopre il ruolo di Presidente della Federazione calcistica montenegrina. Con un bizzarro contratto che prevede zero euro di stipendio annuale e orari ultra-flessibili, o meglio: gli orari del suo ufficio non esistono. Inizia e finisce quando lo ritiene più opportuno, senza intascare un euro. Seguendo istinto e voglia. Ma questo si era già intuito.

“Io sono fatto così: sono un po’ strano…”.