Calcio e omofobia: parliamone seriamente - Zona Cesarini

Calcio e omofobia: parliamone seriamente

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha eliminato l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali soltanto il 17 maggio 1990.

Alcuni mesi dopo in quello stesso anno, Justin Fashanu, allora al West Ham, dichiarò pubblicamente in un’intervista al The Sun la sua omosessualità, la prima di un calciatore professionista: certo, c’era stato il caso di Wilson Oliver, cacciato due anni prima dal Nacional Montevideo perché “pizzicato” più volte nelle discoteche gay della capitale della Repùblica Oriental, ma la sua risonanza fu infinitamente minore, e soprattutto mancò la decisiva dichiarazione pubblica.

Forse Fashanu, una vera e propria icona per quanto riguarda l’emancipazione della comunità LGBT nel calcio, sperava che il suo coming out non pregiudicasse la sua (pur declinante) carriera: d’altronde Martina Navratilova dichiarò la sua bisessualità nel 1981, per poi, nei mesi successivi, raggiungere la finale di Flushing Meadows e trionfare agli Australian Open.

Tuttavia, il tennis è uno sport individuale: si può anche essere ignorati dalla propria nazionale per la Coppa Davies/Fed Cup, ma nessuno può impedire, a chi è capace, di giocare sull’iconico prato del central court di Wimbledon; nel calcio, una parola che sconvolge l’ambiente circostante può costare la carriera, se non di più.

Non a caso Fashanu, accusato ingiustamente di stupro nel 1998 e dopo aver subìto il completo ostracismo sportivo e sociale da parte del calcio europeo, si impiccò in un garage a Shoreditch, Londra.

Justin Fashanu ai tempi del Norwich City

Secondo un sondaggio della rivista australiana FourFourTwo, risalente all’anno scorso, l’11% di 123 calciatori interpellati militanti nelle prime quattro divisioni inglesi e nella Premiership scozzese, ha dichiarato di conoscere colleghi omosessuali nel loro ambiente.

Tuttavia, nonostante la progressiva virilizzazione del calcio avvenuta negli ultimi anni, la maggiore accettazione dell’omosessualità nel contesto sociale odierno potrebbe aprire le porte ad un prossimo coming out, con conseguenze sicuramente meno drammatiche rispetto a quelle subite da Fashanu; quando nel dicembre 2009 il rugbysta gallese Gareth Thomas dichiarò pubblicamente le sue preferenze sessuali, la sua carriera terminò infatti alcuni anni dopo senza sconvolgimenti degni di nota.

C’è quindi da ritenere possibile che giocatori e allenatori attuali sarebbero pronti ad un coming out? Probabilmente sì, senza contare che l’outing di un calciatore ai giorni d’oggi avrebbe sicuramente un altro grande significato, ovvero la sua enorme influenza su tutto il “villaggio globale”.

Se, poniamo, un giocatore del Manchester United si proclamasse gay, quali sarebbero le conseguenze nei paesi più chiusi nei confronti dell’omosessualità ma che allo stesso momento dedicano grande attenzione al calcio europeo? In India le “pratiche omosessuali” continuano ad essere illegali, mentre in Iran e Arabia Saudita viene addirittura prevista la pena di morte; quanto potenzialmente potrebbe essere decisiva almeno in India (nelle altre due nazioni servirebbe una rivoluzione difficilmente concepibile) per l’emancipazione dei diritti della comunità LGBT sapere che un gay, uno “come loro”, gioca ogni due settimane all’Old Trafford?

Va tuttavia considerato che anche se avvenisse questo sospirato coming out, c’è il concreto rischio che rimanga un semplice gesto isolato e non destinato ad innescare un effetto domino se le future stelle di questo sport non verranno educate a non aver il terrore di condividere lo spogliatoio con un omosessuale.

Il ruolo degli allenatori delle giovanili è spesso sottovalutato, visto che è proprio negli anni dell’adolescenza che si forma non solo il carattere dell’adulto, ma allo stesso tempo la sua sessualità: quanto può essere devastante per un ragazzo, già stressato per il suo coming out interiore, dover affrontare anche la cruda realtà di uno spogliatoio che con la connivenza, se non con la complicità, dell’allenatore reagisce in maniera discriminatoria?

Oggettivamente, non c’è da stupirsi: lo sport, soprattutto quello di squadra che porta quindi al contatto fisico – senza parlare dell’ambiguo ambiente dello spogliatoio – è un efficacissimo veicolo di deviazione degli istinti omosessuali, così come lo è l’attività militare (basti citare per l’esercito statunitense il celebre motto “don’t ask, don’t tell”): allo stesso modo, però, quando l’iper-machismo della caserma o dello spogliatoio viene rotto da un coming out, il “colpevole” è irrimediabilmente isolato.

Se per un calciatore gay ci sono così tante incognite da affrontare per quanto riguarda un ambiente che dovrebbe essere solidale, come quello della propria squadra, è facile immaginare la sua preoccupazione nel dover vivere ogni attimo della sua carriera di giocatore sotto le provocazioni delle tifoserie avversarie e le pressioni della stampa (scandalistica e non), che, c’è da starne certi, si getterebbe come la più famelica delle iene su una storia simile.

D’altronde Graeme Le Saux, che omosessuale non era, fu costretto per anni ad affrontare qualsiasi tipo di insulto omofobo da parte di avversari e tifosi delle squadre contro cui giocava; è forse proprio per questo motivo che Thomas Hitzlsperger ha dichiarato la sua omosessualità soltanto un anno dopo la chiusura di una carriera ad alto livello (100 gare in Premier League con l’Aston Villa, una Bundesliga vinta con lo Stoccarda, il terzo posto ai mondiali del 2006 ed il secondo a Euro 2008 con la nazionale tedesca); la domanda se la sua vita sportiva sarebbe stata così positiva se il coming out fosse avvenuto a metà carriera, sorge da sola.

Thomas Hitzlsperger all’Everton

In questi ultimi anni molte società calcistiche hanno affrontato il problema della discriminazione sessuale, soprattutto in Premier League: febbraio è stato, nella massima serie inglese, il mese della lotta all’omofobia, a cui hanno aderito club importanti e di larga visibilità come Manchester City, Chelsea e Tottenham, senza contare l’esistenza capillare di fan club LGBT delle principali società britanniche; lo stesso succede in Germania, dove l’omofobia non è tollerata non solo nella curva del St.Pauli che ben conosciamo, ma praticamente in tutti gli stadi, dal Westfalenstadion di Dortmund all’Espirit Arena di Düsseldorf.

E in Italia? La situazione non è delle più rosee, anzi: nonostante numerosi sondaggi attestino ormai che la maggioranza degli italiani sia favorevole ai riconoscimenti giuridici – siano essi matrimoni o semplici unioni civili – per le coppie omosessuali, i tentativi di spingere un calciatore gay al coming out si sono risolti con un buco nell’acqua, vista non solo la bieca trivialità di Tavecchio e le sgrammaticate frasi di Cassano, ma anche quelle ottuse di Rivera – “Se c’erano giocatori gay ai miei tempi e non lo dicevano, potrebbero fare la stessa cosa adesso. Non capisco a cosa possa servire dirlo in giro, mica gli eterosessuali lo vanno a dire in pubblico” – che, essendo stato deputato per circa 20 anni, avrebbe dovuto saper dosare meglio le parole.

Riguardo a quello che è successo tra Sarri e Mancini è forse meglio parlarne adesso, a bocce ferme: Sarri è stato sicuramente un cretino (ad essere gentili) perché ad un livello del genere sapeva benissimo che avrebbe potuto offendere con qualsiasi altra parola, e non si sarebbe dovuto subire la – a mio avviso giusta – stigmatizzazione generale; anche perché il clamore portato da quelle parole rappresenta quantomeno un segno del vento che anche in Italia spira ormai in favore dei diritti alla comunità LGBT.

Questo non significa che Mancini sia un paladino degli oppressi: i cori razzisti che perseguitarono Zoro durante un Inter-Messina del 2004/05 non subirono nessuna stigmatizzazione da parte dell’allenatore nerazzurro, che allo stesso modo difese Mihajlović quando insultò Vieira con un “negro di merda” durante un incontro di Champions League tra Lazio e Arsenal; Mancini è stato certamente molto furbo, ma attaccarlo con l’abusata frase “quello che succede in campo rimane in campo” (la stessa usata a suo tempo da Mancini per difendere Mihajlović) è sbagliato, visto che grazie alle sue dichiarazioni si è finalmente aperta una discussione sull’omofobia nel calcio, peraltro in contemporanea con il dibattito politico sul ddl Cirinnà.

La cosa migliore che potrebbe capitare al movimento LGBT nel calcio è probabilmente che un giocatore di fama mondiale decidesse finalmente per il coming out: all’inizio dell’anno scorso, l’Ultimo Uomo aveva teorizzato, in un’interessante distopia, l’outing di Cristiano Ronaldo, vera e propria icona del calcio metrosexual ed in generale di questo sport.

Forse, però, non sarebbe lui la persona più indicata: rimane un giocatore che divide, anche per il fatto di rappresentare il modello di calciatore “fighetta” affermatosi in questi anni: completamente depilato, oliato, lampadato e in netto contrasto con gli ultimi “duri” del calcio.

Il calciatore che in questo caso indicherei è Zlatan Ibrahimović: non è solamente un fuoriclasse conosciuto a livello globale, ma è anche l’emblema del giocatore duro e puro, di quelli che resistono all’invasione delle “checche” nel calcio moderno a colpi di comportamenti machisti come frasi arroganti, battibecchi in campo e dichiarazioni sincere e sprezzanti verso tutto e tutti. Senza risparmiare nessuno.

A 26 anni dal primo coming out nel calcio, ci sarebbero ancora molte questioni da discutere e iniziative da intraprendere per combattere efficacemente l’omofobia: l’outing di un calciatore famoso aiuterebbe qualsiasi iniziativa, anche perché nessun ex compagno di squadra di Hitzlsperger o Fashanu ha mai lamentato atteggiamenti sconvenienti dovuti alla loro sessualità.

Forse già questo dovrebbe far capire ai giocatori più retrivi quanto l’omosessualità di una persona, nello spogliatoio come nella vita, non ha mai fatto del male a nessuno; mentre l’omofobia di chi ti sta vicino, nello spogliatoio come nella vita, ha causato – e continua a causare – soltanto vite distrutte e lutti inutili.

Nonostante gli ultimi anni abbiano visto un parziale miglioramento delle condizioni della comunità LGBT in Italia, non va abbassata la guardia. La pressione dal basso in favore di una legge che livelli l’Italia al resto dell’Europa Occidentale sta ottenendo poco alla volta dei risultati, ma nello stato dove il Vaticano ha più influenza, la lotta per riconoscere alle coppie omosessuali anche i più elementari diritti non deve arrestarsi neppure un secondo. O essere usata esclusivamente come bieco veicolo di consenso e share televisivo.

Personalmente, non credo si debba avere fiducia nell’attuale classe politica affinché le cose cambino; in quest’ultimo mese, infatti, abbiamo visto come le vite di milioni di persone facenti parte del tessuto sociale italiano siano state oggetto di compromessi e giochi politici al ribasso da parte di parlamentari reazionari, intenti soltanto ad intascare l’approvazione di una fetta di popolazione spesso ignorante o becera, che sembra rappresentare una minoranza che, seppur in calo, rimane platea consistente e decisiva ai fini del consenso.

Ma prima o poi, come dicono gli irlandesi in altri contesti “our day will come”; e se sarà più prima che poi, sarà soprattutto grazie al coraggio di chi negli anni più difficili ha alzato la testa pagandone lo scotto: da Justin Fashanu a Simon Nkoli, dai manifestanti di Stonewall a Mario Mieli.