Tormento, orgoglio ed esilio: il fenomeno Bastia - Zona Cesarini

Tormento, orgoglio ed esilio: il fenomeno Bastia

Il molo di Bastia è un approdo solitario. Uno di quei luoghi un po’ sommessi, nascosti alla periferia d’Europa. Un angolo fiero della sua marginalità isolana. Un sentimento che, a ben vedere, permea tutta l’isola nelle sue realtà sociali e sportive: quella della Corsica e del suo calcio indecifrabile ad occhi stranieri.

Perché Bastia, come Corsica, significa uno stato d’animo. Una condizione mai sottaciuta di conflitto e tensione, identità e orgoglio in pari misura. Un dna che trova poche similitudini in tutta Europa, sia nella sua dimensione di calcio giocato che vissuto sugli spalti e in città. Ma cosa significa, oggi, tifare Bastia e più in generale fare calcio in Corsica? Probabilmente, la lontananza fisica e morale da ogni effettiva forma di potere e compromesso. Come la squadra che è il dominus del calcio corso: lo Sporting Club de Bastia.

Maledizioni, irredentismo e orgoglio: il Bastia nella sua storia ultracentenaria ha vissuto ogni forma di coercizione, sfida e sentimento di distacco dal continente. Come in buona parte è avvenuto e tuttora avviene con i “cugini” della parte settentrionale della Sardegna. Identità distinte, che parlano una lingua millenaria semi-incomprensibile al resto del mondo.

Come di difficile comprensione è il fenomeno Bastia, con uno stadio dal passato maledetto e progettualmente bizzarro – l’Armand Cesari, noto anche come Furiani – una tifoseria che è espressione diretta della comunità e delle sue istanze irredentiste, che si sobbarca trasferte via Corsica Ferries senza soluzione di continuità.

Insomma, la dimensione geo-fisica non si distacca dal lato sociale e sportivo. E anzi, pare formare un soggetto unico. Compatto, duro, inscalfibile come le pietre delle mulattiere che marcano la divisione fra mare e civiltà. Un’immagine che sembra partorita dal capolavoro world-folk di Fabrizio De André, Crêuza de mä, disco intrecciato su un tappeto di esotismo filosofico e linguaggio etnico comuni soltanto ai popoli di mare del Mediterraneo: un compendio di questa terra affascinante e in parte selvaggia.

Quintessenza calcistica di quest’isola è il Bastia. Marginale, scomodo e anomalo. Un club stabilmente aggrappato alla Ligue 1 da quattro anni, ma che ha conosciuto ogni forma di declino e rinascita intervallando soprendenti annate a tonfi fragorosi. Estremizzando così il concetto di “provincia del calcio.

Che tifare Bastia sia operazione tout-court che trascende il lato calcistico è evidente fin da subito: sugli spalti del Furiani bandiere col moro si mischiano a cori e magliette come Uniti vinceremu”. O al ben più eloquente “On n’est pas français” – Non siamo francesi – unico striscione vergato in lingua transalpina che campeggia sulle gradinate del Furiani.

La tifoseria, ma sarebbe preferibile dire la comunità, è conosciuta come i Turchini, dall’azzurro che contraddistingue le maglie della squadra. E dal colore che abbraccia l’isola dalla notte dei tempi. Insomma, a queste latitudini del sentimento di grandeûr francese e di Francia in generale rimane niente. Il Bastia lotta e sopravvive grazie alla sua ostentata diversità, sia in campo che fuori. Perché i Lioni di Furiani rivendicano una weltanschauung totalizzante: essere turchini significa vivere Bastia, le sue crisi occupazionali, i suoi mutamenti impercettibili, il suo ermetico humus sociale. Significa essere còrsi.

Così si spiegano alcune unicità che dall’isola permeano direttamente squadra e società. Come la necessità storica di una figura politica – più che presidenziale – a capo del club: un collettore di istanze sociali, identitarie. Portavoce di quell’irredentismo anti-francese che da queste parti è faccenda secolare e che incassa una percentuale vicina al 100% dei consensi. Presidenti come Pierre-Marie Géronimi.

Attuale numero uno della società con un curriculum che recita: sindaco di sinistra, per due mandati, della cittadina di Casamaggioli. Villaggio di 150 anime nascosto al centro dell’isola fra gole carsiche, montagne innevate e produzione di formaggi caprini. Un presidente che segue costantemente a bordo campo la squadra e che si è visto assegnare pure un paio di sospensioni dalla Lega Calcio francese per intemperanze verso i direttori di gara; una figura lontanissima dall’immaginario comune del presidente di calcio di un club di massima serie. Un capopopolo, non certo un manager o un imprenditore à-la page.

Il Presidente Pierre Marie Géronimi

C’è poi il Bastia 1905, o Brigata Turchina. Nome tanto romantico quanto collettore di polemiche ai piani alti del sistema-calcio francese. Spesso ostracizzati e trattati con un malcelato disprezzo che fa rima con divieti e nessuna forma di riconoscimento. Come protagonisti di intemperanze e riots di varia natura in territorio francese. Sono, ovviamente, il tifo organizzato del Bastia. Quelli che riempiono oltre la capienza le scarne gradinate del Furiani ogni due settimane – polverizzando ogni statistica nel rapporto abbonamenti/capienza – e che si spostano verso il continente solo in occasione delle partite del club, esclusivamente in nave.

È il ritratto di un tifo agée, ancora legato a doppio filo alle tradizioni della propria terra e ad un modo passionale e retrò di vivere l’evento sportivo: fumogeni, coreografie, stendardi, tamburi e bandiere costituiscono l’ossatura imprescindibile del viscerale tifo corso. Come quando hanno organizzato una trasferta via traghetto per poi presentarsi in 26.000 al Saint Denis. Oltre metà degli abitanti della città, che conta circa 45.000 persone.

Numeri che se rapportati con l’odioso parametro nostrano del “bacino di utenza”, non conoscerebbero eguali in Europa. Certo, il Bastia unisce buona parte dell’isola e inoltre si trattava di un’occasione speciale: la finale di coppa di Francia dello scorso anno, contro il PSG degli sceicchi, nella cattedrale modernista emblema dei trionfi francesi.

Una finale senza storia. I parigini, trascinati dallo spaventoso potenziale offensivo a disposizione, hanno impiegato una manciata di minuti per spezzare ogni resistenza corsa. Ibrahimovic e Cavani, con una doppietta a testa, hanno passeggiato sulle velleità isolane sfruttando l’affrettata espulsione – rigore compreso – del leader difensivo del Bastia, il 35enne Sébastien Squillaci. Insomma, tutto come da copione. I trofei sono affare troppo grosso e serio per una banda di corsari irredentisti che si trascinano dietro un intero popolo alla ricerca di un’affermazione storica che ne sancisca l’esistenza sullo scacchiere europeo.

Esistenza che per una stagione, quella del 1977/78, fu vicina a toccare una vetta inimmaginabile. Quell’anno, tra crisi occupazionali, scontri di strada con la Gendarmerie e un clima sociale teso, i Lioni arrivarono a giocarsi la finale della Coppa Uefa. Una squadra che stupì l’Europa, un undici giovanissimo e sconosciuto – se escludiamo Johnny Rep e Claude Papi – che ribaltò ogni gerarchia mettendo in luce, oltre a uno straordinario gioco offensivo, una capacità naturale nel rendere il piccolo e fatiscente Armand Cesari una sorta di Fort Knox.

Nel catino di Bastia arrivarono in ordine: tre gol allo Sporting Lisbona, due al Newcastle, due al Torino di Gigi Radice e della coppia Pulici-Graziani, addirittura sette al Carl Zeiss Jena, uno al Grasshoppers e infine il mortifero 0-0 nel pantano della finale d’andata contro il PSV. Materiale punk, perfettamente inserito nello spirito del tempo di quel biennio instabile: come ascoltare un irriverente album dei Buzzcocks.

Cavalcata inaspettata, costruita sulle fondamenta di un gioco propositivo e moderno grazie al lavoro di un allenatore come Pierre Cahuzac, altro outsider degno di nota: ex terzino di modesto spessore, poi mister della seconda squadra di Ajaccio, il Gazélec, con cui vinse quattro campionati di fila a livello non professionistico, per poi consegnarsi alla storia corsa sul crepuscolo degli anni ’70 come il Profeta della corte dei Miracoli.

Il suo nome tutt’oggi è elemento distintivo del club, che gli ha dedicato la tribuna ovest dello stadio con una delibera ad hoc nel 2005. Non solo, a sottolineare l’indissolubile legame con questa terra di calcio e identità c’è Yannick Cahuzac, figlio dell’allenatore, cresciuto nel vivaio turchino e oggi difensore e capitano del Bastia. Una versione antidivistica e insulare della dinastia Maldini, se vogliamo.

Insomma, da queste parti tutto ruota intorno ad una connessione diretta con quest’isola tormentata, più vicina all’Italia che alla Francia ma al tempo stesso lontanissima dal continente per sentimenti, usi e lingua. A testimonianza di come ambiente e tifo a queste latitudini siano da sempre fattori decisivi.

Anche quando, come accaduto in più occasioni, viene sonoramente fischiata la Marsigliese e “messo in fuga” il Presidente della Repubblica: come successo a un infuriato Jacques Chirac nel 2002 durante la finale di coppa di Francia. O quando si contesta apertamente la deriva del campionato francese, ormai sollazzo privato del PSG degli sceicchi.

Ma anche quando, cronaca recente, la Brigata turchina va incontro a trasferte turbolente in terra di Francia. Come a Reims. Dove dopo una pesantissima vittoria esterna in chiave-salvezza, i tifosi si sono trovati a passare nel bel mezzo di una frangia di ultras bianco-rossi. Senza scorta o particolari attenzioni per la sicurezza, scatenando così dei violenti scontri. Fino all’intervento pesante della Polizia, che, per dirimere la rissa da strada e disperdere i còrsi, ha deciso di usare fucili caricati con proiettili di gomma.

Risultato: decine di feriti in serie condizioni e un tifoso turchino che ci ha lasciato un occhio mentre cercava di fuggire dal caos. Questione tuttora aperta con il Presidente dell’Esecutivo corso, nonché sindaco di Bastia, Gilles Simeoni, che ha ufficialmente chiesto spiegazioni al Ministero dell’Interno e l’apertura di un’indagine sull’accaduto.

O quando in campo vengono fieramente messe in mostra, dai calciatori stessi, t-shirt col moro che richiamano a gran voce l’indipendenza. Perché calpestare il rettangolo grezzo del Furiani significa sposare una causa, entrare in un microcosmo duro come la siccità che attanaglia l’isola per buona parte dell’anno. Firmare un contratto col Bastia vuol dire calarsi in una missione sportiva che non trascende le istanze collettive.

Giocatori del Bastia nell’ultimo “derby” con il Nizza

Come successo nell’ultimo e infuocatissimo derby della bandiera contro il Nizza. Dove a prevalere sul campo, dopo 20 anni di delusioni, è stato proprio il Bastia; scatenando le ire dei tifosi nizzardi che hanno addirittura invaso il terreno di gioco quando Jean-Luis Leca, secondo portiere corso, ha festeggiato i compagni impugnando l’iconica bandiera col moro, che era stata addirittura vietata dalle autorità francesi. Insomma, un quadro di difficile gestione a ogni livello.

Farsi carico di un sentimento di appartenenza, sfidare o quantomeno contrapporsi agli organi di potere e controllo, siano essi sportivi o istituzionali, praticare un calcio di alto livello nonostante le endemiche difficoltà economiche e infrastrutturali consolidando un micro-sistema sportivo parallelo che poggia sulle fondamenta di un vivaio ben strutturato e all’avanguardia, rifuggendo ogni scorciatoia di sorta e cementando una coesione fiera e assoluta tra isola, società, squadra e comunità. Questo è il calcio còrso.

Un modello autarchico e anti-contemporaneo, eppure affascinante. Come lo è quell’approdo avvolto da un silenzio atavico: quel molo che è il primo elemento di straneità rispetto al continente. L’attracco che il grande regista ungherese Béla Tarr ha scelto come set per uno dei suoi film – L’uomo di Londra – che riflette sulla natura umana secondo un pessimismo storico: fotografato in un bianco e nero funereo, calato in un indecifrabile silenzio notturno appena interrotto dal rumore del mare che si infrange sulla battigia e illuminato dalle fioche luci del faro, il porto di Bastia d’inverno emana un sentimento di esilio.

L’uomo di Londra (B. Tarr, 2007)

Una forma di cristallizzazione del tempo. Contrapposto al modello imperante di cartolina vacanziera baciata da un’eterna estate mediterranea, quel porto cupo e suggestivo resta probabilmente l’istantanea più efficace per trasmettere all’esterno storia, ragioni e sensazioni di un’isola solitaria. E di un popolo senza pace. Colorato di turchino, nonostante tutto.