Apologia di Johan Cruijff - Zona Cesarini

Apologia di Johan Cruijff

Dopo aver appreso la notizia della scomparsa di Johan Cruijff, abbiamo deciso di ricordare la leggenda olandese come meglio possiamo. Alcuni di noi hanno scritto in poche parole la propria riflessione su questo indimenticabile fuoriclasse: qualcuno ha spiegato cosa ha rappresentato nella storia del calcio, altri hanno preferito ricordarlo come icona dell’Olanda del 1974 o anche tramite una partita di Coppa dei Campioni che sintetizza il suo calcio e qualcun altro ha preferito scrivere sul periodo meno noto della carriera di Cruijff, il biennio americano.

Nessuno di noi ha avuto la fortuna di vederlo giocare nei suoi anni migliori e gran parte delle nostre conoscenze sul Quattordici derivano da speciali tv, articoli, libri e video che si possono trovare su YouTube e dalle analisi tecniche che si possono elaborare di conseguenza: i nostri sono ricordi atemporali, ma comunque significativi per cercare di fotografare la figura del Profeta del gol nella storia del calcio e non solo.

 

Regole, rivoluzioni e libertà

di Paolo Carelli

Nel 1939, il filosofo olandese Johan Huizinga diede alle stampe un volume ritenuto uno dei precursori e dei capisaldi della sociologia applicata allo sport; il titolo, Homo Ludens, richiamava da subito l’essenza del gioco e dell’abbandono dei vincoli della vita ordinaria come elementi connaturati da millenni in ciascun essere umano. In una Amsterdam dove la folta comunità ebraica cominciava a sperimentare la cinica e macabra avversione razziale prodotta dal nazismo, il saggio voleva forse individuare nella creatività e irrazionalità delle azioni umane legate al gioco una via d’uscita salvifica dall’orrore scientifico che andava consolidandosi e consumandosi in quegli anni. Non a caso, l’opera di Huizinga influenzerà più avanti, nei tardi anni Sessanta, il pensiero situazionista, le sue correnti attraversate da un approccio anarchico e surrealista, il senso profondo del legame tra ambiente e comportamenti.

Eppure, nonostante l’impostazione chiaramente ludica e disincantata, il saggio di Huizinga riconosce al gioco – in qualunque forma si manifesti – la necessaria esistenza dell’ordine, di una cornice di regole e valori strutturata, gerarchica e sostanzialmente irrinunciabile. Ed è proprio nella tensione costante tra questi due estremi che è possibile scovare la matrice alla base del ‘calcio totale’ olandese degli anni Settanta; è nella combinazione per nulla inconciliabile tra il massimo grado di creatività e quello di ordine che l’utopia pragmatica di Rinus Michels e dei suoi talenti ha trovato un equilibrio capace di consegnarla alla storia non solo delle tattiche calcistiche, ma del cambiamento sociale nel suo complesso. In una parola, al mito.

La stella di Johan Cruijff comincia a brillare intorno alla metà degli anni Sessanta, in un paese che sta assistendo al rapido consumarsi della solida e tradizionale esperienza dei ‘pilastri’, quella particolare forma di organizzazione sociale per cui ogni confessione religiosa era in grado di strutturare verticalmente la vita dei propri affiliati, fornendo ad essi assistenza non solo morale e spirituale, ma anche educativa, sindacale, associativa. Una società costruita per blocchi, per caste verrebbe da dire, dove infrequenti erano i contatti tra gruppi diversi e che proprio gli anni Sessanta cominciarono a indebolire pesantemente. L’Ajax di Cruijff e di Michels, insieme ai movimenti d’avanguardia politica e architettonica che, di fatto, anticiparono di un paio d’anni il ’68, contribuì a sgretolare quell’impianto, salvaguardandone l’utile concezione collettivistica per sposarla con la liberazione sfrenata dell’impulso individuale, del talento capace di moltiplicare la somma delle parti.

È davvero difficile, a differenza degli altri grandi fuoriclasse della storia del calcio, dare un ruolo a Cruijff, imbrigliarlo nei rigidi schemi dell’epoca e delle epoche; anche la mitologia del numero 14, in fondo, si configura come il rifiuto di lasciarsi inserire dentro caselle vuote e come l’ambizione di prendere quanto di meglio concepito dal gioco fino a quel momento per modellarlo in qualcosa di completamente nuovo e mai visto prima. Né regista né trequartista, né interno né centravanti, Cruijff amava costruire il campo a seconda delle situazioni, sfruttando una visione e un’intelligenza tattica senza eguali.

Si è parlato molto, e a ragione, della sua classe, dei dribbling e delle veroniche, ma l’essenza vera di un campione come Cruijff va forse cercata non nella singola giocata, ma nelle progressioni, nei lucidi meccanismi di avanzamento e avvicinamento all’obiettivo. Basti prendere l’azione che, nella finale dei mondiali del 1974 contro la Germania, porta al rigore in favore degli olandesi dopo poco più di un minuto di gioco: dopo una lenta circolazione di palla tra i difensori, Cruijff riceve la sfera nei pressi della linea del centrocampo e improvvisamente si avventura in un’accelerazione che si conclude nell’area avversaria con l’atterramento.

È un attimo, un frammento di secondo con cui il campione olandese imprime all’oscillazione rigida dello schema un ribaltamento radicale. C’è un’idea di spazio e di tempo allucinata e razionale allo stesso tempo: il cambio di ritmo che accorcia le distanze, il pensiero anticipato che restringe il campo e lo domina senza lasciarsene subordinare. C’è quella che David Winner nello splendido Brilliant Orange, una sorta d’indagine psichica e cerebrale del Calcio totale, ha individuato come l’essenza del fenomeno Cruijff, la sua rappresentazione più duratura: non quella di un giocatore che segna, corre o contrasta, ma quella di uno che dà indicazioni, come fa un direttore d’orchestra. Un profeta non solo del gol, ma dello spazio. Perché è vero che, in fondo, il calcio è solo un gioco, ma terribilmente serio, proprio come Cruijff ha voluto farci capire con il più incontrovertibile dei paradossi: solo se abbiamo regole, siamo veramente liberi.

 

Gli attimi eterni

di Federico Castiglioni

12 secondi. Olanda-Uruguay, prima gara del gruppo 3 dei campionati del mondo 1974. Minuto 87. Gli oranje conducono 1-0 una partita che stanno dominando sul piano del gioco. Neeskens appoggia per Suurbier. Cambio di gioco per Van Hanegem, che controlla e vede lo scatto di Rensenbrink. Verticalizzazione che taglia la difesa celeste, Rensenbrink controlla e appoggia rasoterra per Rep. Conclusione sporca, ma la porta è vuota. Gol, 2-0. 40 metri di campo coperti con quattro passaggi in 12 secondi. E i giocatori uruguaiani che non hanno la minima idea di cosa sia successo.

Era questa la Grande Olanda. La Brilliant Orange. L’Arancia Meccanica. Colei che aveva fatto conoscere al mondo il Calcio Totale, quel rivoluzionario sistema di gioco partorito dal ct Rinus Michels al glorioso Ajax e poi a Barcellona. Sempre con lui, Hendrik Johannes Cruijff, in arte Johan. Il Profeta del gol. E profeta del nuovo calcio, fatto di sovrapposizioni, pressing a tutto campo, difesa alta, Zona, fitte reti di passaggi a sfiancare e disorientare l’avversario. E di quel tocco di poesia che solo Cruijff poteva dare, con le sue finte, le sue accelerazioni, le sue verticalizzazioni.

Com’era bello, Johan, con quella maglia numero 14. Come correva leggero ed elegante, e come accarezzava dolcemente il pallone. Si volevano bene, lui e quella sfera di cuoio. Con quel caratteraccio che si ritrovava, solo lei lo poteva sopportare, amica silente e fedele, musa ispiratrice di quei meravigliosi disegni che Johan lasciava sui rettangoli verdi e negli occhi del pubblico.

Ma Cruijff era solo il tulipano più bello di quel magnifico bouquet a tinte arancio che stava strabiliando il mondo dai campi di calcio della Germania occidentale. E pazienza se quel bouquet era pieno di vespe, tra i primi sintomi di divismo dei calciatori, le faide di spogliatoio e l’amore per lo champagne che scorreva a fiume nei vari momenti di tempo libero che Michels concedeva ai suoi. A vederlo in campo, quel mazzo di tulipani ti faceva emozionare.

Uli Hoeness stende in area Johan Cruijff e l'arbitro decreta calcio di rigore (Allsport UK)
Uli Hoeness stende in area Johan Cruijff e l’arbitro decreta calcio di rigore (Allsport UK)

53 secondi. Germania Ovest-Olanda, finale del campionati del mondo 1974. Contro l’Arancia Meccanica c’è il più antitetico degli avversari, il panzer tedesco guidato da un roccioso difensore vecchio stile come Franz Beckenbauer e armato dal cannoniere di razza Gerd Müller. È il nuovo contro l’antico. Calcio d’inizio. L’Olanda traccheggia, fa girare con calma il pallone. Osserva. Poi il lampo, improvviso, che squarcia il cielo. Cruijff parte. Una percussione centrale devastante, Vogts è bruciato, Hoeness lo deve stendere. Ma siamo già in area di rigore. E l’arbitro deve concedere il primo penalty della storia delle finali mondiali.

70 metri di campo coperti con quindici passaggi in 53 secondi. E i giocatori tedeschi che ancora non hanno toccato il pallone. Neeskens trasformerà di potenza quel rigore, punto più alto della grande Olanda di Cruijff. Già, perché la favola finisce qui. La meravigliosa architettura olandese cadrà sotto il peso delle proprie aspirazioni, lasciando spazio al ritorno dei tedeschi che pareggeranno con Breitner e andranno al sorpasso proprio con Müller. Il 2-1 finale consegnerà il titolo di campioni del mondo ai tedeschi dell’ovest, e sarà Kaiser Franz ad alzare al cielo la coppa.

Ma quei 53 secondi… quei 53 secondi, li narreremo di generazione in generazione.

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Il calcio futuristico ai tempi del pionierismo

di Giovanni Parente

Quando nel maggio del 1979 la conservatrice Margaret Thatcher vinse le elezioni come primo ministro del Regno Unito, nessuno poteva immaginare quali sarebbero state le conseguenze per la Terra d’Albione e le dure politiche operate dalla Lady di Ferro nel suo decennio al potere. Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, ci sono novantamila persone che attendono estasiate l’arrivo del loro Messia: Johan Cruijff ha appena firmato per i Los Angeles Aztecs e ritrova il suo maestro Rinus Michels come allenatore.

Gli americani capirono subito che il calcio doveva essere un business prima ancora che un divertimento e così Cruijff fu solo una delle tante figurine portate al di là dell’oceano per deliziare il pubblico e sopratutto aumentare i conti del club per cui giocava: Pelé, Beckenbauer, Chinaglia avevano giocato per i New York Cosmos e George Best con gli Aztecs fino all’anno prima dell’arrivo dell’olandese. E infatti Cruijff faceva tutto esaurito in qualsiasi stadio andasse a giocare perché era l’attrazione principale, il fuoriclasse europeo venuto a far conoscere il calcio negli Stati Uniti.

Lui, il figlio del fruttivendolo di Betondorp diventato l’icona del calcio anni ’70, era finito a mangiare noccioline e bere Heineken insieme al presidente Jimmy Carter, immortalato con il Campidoglio alle spalle. Le partite in America di Cruijff sono quasi tutte uguali: c’è sempre una luce folgorante che lo illumina per tutta la partita e porta lo spettatore a riconoscere sempre quel numero 14 scritto in bianco su fondo arancione. Diventa un nuovo Caravaggio, pronto a pennellare da un momento all’altro un’arte che ancora nessuno può capire, mentre i suoi compagni di squadra e gli avversari cercano di essere i “Caraveggeschi“, ovvero quei pittori che emulano il grande maestro, ma senza riuscirsi.

Mentre porta palla con la solita nonchalance, Johan continua a dare indicazioni ai propri compagni, che lo guardano estasiati. Ormai non ci sono più Rensenbrink e Rep pronti a scattare per essere serviti, non c’è più l’amico fraterno Neeskens pronto alla triangolazione, è rimasto davvero da solo in una terra che di calcio non può ancora capire nulla.

1979: Johan Cruyff al Giants Stadium di New York (Sporting Pictures)
1979: Johan Cruijff al Giants Stadium di New York (Sporting Pictures)

È un predicatore nel deserto della California, un deserto fatto di surf, soldi facili e difese inesistenti. Johan è troppo superiore dal punto di vista tecnico, fisico e soprattutto cerebrale rispetto ai giocatori con cui condivide il rettangolo di gioco: pensa e si muove ad una velocità mai vista a queste latitudini, gioca quasi controvoglia e dipinge calcio. Sente il pallone in un modo tutto suo, lo accarezza, organizza le azioni come faceva all’Ajax, finta gli avversari nel suo stile, calcia il pallone con quell’esterno destro che è il suo cavallo di battaglia praticamente da sempre. Vede spazi che non esistono per molti, si incunea in zone che sembrano insuperabili e regala giocate in corridoi angusti.

Ma sembra scocciato, completamente avulso dai rigidi schemi che seguiva nei suoi anni d’oro, si capisce che è stanco ed è ormai il fantasma del giocatore che fu anche se continua ad essere maledettamente affascinante, così sbiadito e romantico. È il Profeta del gol nella terra dove il calcio si chiama Soccer e non Football perché quello è il vero sport nazionale. È un futurista nell’America del pionierismo calcistico. Johan ha ancora indosso la maglia arancione, il braccio teso come fa un vero condottiero, quell’aria altera e consapevole da fuoriclasse. Ma non è più l’arancione dell’Olanda, non sta giocando i Mondiali del ’74, non sta vivendo gli anni d’oro del Calcio totaleQuella maglia arancione che veste è dei Los Angeles Aztecs. È cambiato tutto o forse non è cambiato assolutamente niente perché Johan continua a vedere quello che nessuno riesce a vedere, anche dall’altra parte dell’oceano.

 

Una (dis)agiografia

di Jacopo Rossi

Facile a dirsi Johan Cruijff, meno facile a pronunciarlo (ma vi voglio aiutare). Ma è facile parlarne, si diceva, soprattutto adesso, chilometri dopo i coccodrilli che, nonostante le zampe corte, sono usciti a una velocità fulminante. Racchiudendo ovviamente un ampio e deprecabile spettro di banalità. Così come diranno che Sean Connery è più bello adesso che da giovane, così come diranno che Pippo Baudo era un gran professionista, così come diranno, così come ci dicono ogni giorno frotte di nostalgici che il calcio era meglio quando si calciava peggio.

Crujiff, o l’idea stessa che il mondo ha tuttora di Cruijff, racchiude in sé stesso tutte queste banalità da cabaret, nobilitandole non poco. È più bello adesso, da morto, che da giovane e vivo, spartendo questa peculiarità con tutto il pantheon di idoli, idoletti e simulacri dell’epoca moderna: del resto «Per essere leggende, prima, bisogna essere morti. Puliti e pettinati, ma morti. Sempre, sempre, sempre sulla lista ma morti». Era un gran professionista e alle sue squadre ha cercato di dare tutto quel che hanno dato a lui. Ed era, soprattutto, rappresentante di un calcio diverso, razionale, leggasi “totale”.

E, di nuovo soprattutto, era irrimediabilmente una testa di cazzo, di quelle che dividono, che alla lunga conquistano a prescindere, sopperendo alla scarsa affidabilità con ben altre qualità (cosa ve lo dico a fare) e, soprattutto con arguzie non da poco. Del calcio italiano, nel quale giocò per tre quarti d’ora, ben prima delle solite banalità che ci diciamo a vicenda come gli scampati a un cataclisma (il campionato più bello et similia), lo colpiva il vuoto degli stadi italiani e il fatto che il pubblico raramente si divertisse. Della religione ebbe a perculare finemente i suoi colleghi: “Non sono credente. In Spagna tutti i 22 giocatori si fanno il segno della croce prima di andare in campo. Se avesse effetto, finirebbe sempre con un pareggio”. Sottile e antipatico come tagliarsi con un foglio di carta. Bizzoso e furbo come un quattordicenne – non a caso – ribelle: al suo caro Barça non gli fecero indossare il suo 14, numero che prima di lui era solo, appunto, un numero.

Accettò e abbassò la testa, ma non per togliersi la maglia, per mettersi sopra un banale numero nove. Giocò con due maglie, come per prender parte a un’infinita Scapoli-Ammogliati, dove gli sprovveduti pedatori cercano scampoli di gioventù cercando di evitare acciacchi e polmoniti. Era un Grand Cru(ijff), un vitigno di qualità inenarrabile e poteva permettersi di deridere il sistema. E lo faceva Cruijff, con uno stile diverso dai vari Best, ma se ne prendeva ugualmente gioco. Da allenatore fu irriverente come da giocatore imponendo le sue regole ovunque andasse (e dimostrando con i fatti d’aver avuto ragione).

Da cantante… da cantante lo vogliamo ricordare così.

 

Il secolo breve del 14

di Leonardo Capanni

Esiste un fotogramma in cui ogni figura chiave dello sport – come della cultura pop – si cristallizza, lasciando intravedere per un attimo quella che diverrà una sorta di eredità di culto neo-pagano. Un’immagine destinata non solo a durare in eterno ma, come nel caso del pugno di Tommie Smith a Città del Messico, della Mano de Dios o del rigore di Baggio a Pasadena, a fermare il tempo decretandone l’inappellabile appartenenza ad un’epoca. Interrogandomi su Johan Cruijff e sulle numerose immagini che vengono veicolate in queste ore su social, siti e tv ricavo la sempre più netta impressione che il lascito di Cruijff sia da cercare non soltanto in un’immagine, per quanto rappresentativa del calciatore o dell’allenatore-Cruijff, ma nel paradigma di un’intera era. Un’epoca che ha improvvisamente iniziato ad accelerare i propri ritmi e le proprie esigenze, gettando le fondamenta del bulimico mondo contemporaneo.

Johan Cruijff è volontà di rivoluzione, di ribaltamento di ogni schema. Dall’interno. È il rivoluzionario che “rompe il vetro da dentro”, agendo all’interno di un nugolo di regole pre-esistenti, piegandole al limite delle proprie facoltà e disegnando un percorso nuovo e sconosciuto. Il calcio prima del Quattordici era un gioco più primitivo, divertente come può esserlo uno scanzonato ritrovo fra amici al parco la domenica pomeriggio; dopo il passaggio epocale di Johan e dell’Arancia Meccanica il calcio ha acquisito una dignità a sé: si è migliorato, ha infranto schemi e antiche concezioni progredendo verso un territorio ignoto.

Cruijff, a cavallo tra la fine dei ’60 e la metà dei ’70 – come i grandi artisti pop del ‘900 – ha sfidato le convenzioni elevando il concetto stesso di gioco e trasformandolo in qualcosa di più eccitante, stratificato e collettivo al tempo stesso. Riproducibile. Come Andy Warhol con le serigrafie, i Beatles e i Kinks col pop, i Rolling Stones col blues, i Talking Heads col rock d’avanguardia, i Kraftwerk con l’elettronica; Kubrick con la fantascienza, Altman col noir, Polanski con l’horror, Leone col western e così via, entrando a far parte di una élite di menti creative. Più vicino a David Bowie che a George Best, insomma.

Rivoluzione seriale

L’eredità di Johan Cruijff rimane questa: una figura pivotale della cultura pop del Novecento. La sua maglia arancione sovraesposta così simile ai colori della pop-art, l’allure ribelle ma non troppo, i dolcevita attillati, le macchine sportive, la bella e biondissima moglie, le frasi sferzanti e impopolari, l’attitudine rock di non dovere piacere ad ogni costo (anzi), la quintessenza di una gioventù sfrontata, le scelte controcorrente e i giudizi tranchant verso l’establishment e ogni forma di conservatorismo rivolto al passato, compresa la nostalgia per tempi e forme di gioco ormai sorpassati dalla storia. Cruijff è avanguardia applicata in territorio pop.

Spesso si rimpiange acriticamente un “calcio che non c’è più”, ma dovremmo ringraziare proprio quel ragazzo filiforme dai piedi piatti che col suo passaggio prepotente ha trasformato quel calcio da bruco a farfalla, inoculando un virus tuttora vivo e vitale. Per questo credo che relegare Johan Cruijff al ruolo di straordinario calciatore totale, di inventore della Cruijff-draai o di incomparabile guida tecnica e allenatore visionario, non basti. O quantomeno non gli renda completa giustizia. Forse, da oggi, dovrebbe esistere un corso di laurea in Rivoluzione Culturale, dove il #14 assurge a numero chiave di una delle più affascinanti rivoluzioni gentili del secolo breve.

 

Come sconvolgere il calcio europeo in 45 minuti

di Giuseppe Zotti

Tutte le squadre che hanno segnato la storia del calcio hanno una partita che rappresenta perfettamente la loro filosofia di gioco: per l’Ungheria degli anni ’50, l’incontro che l’ha fatta entrare nella leggenda è stato il 6-3 a Wembley del 1953; per il Milan di Sacchi c’è lo storico 4-0 alla Steaua Bucarest che gli regalò la Coppa dei Campioni nel 1989 (dopo aver rifilato 5 reti al Real Madrid in semifinale) ed in epoca più recente non possiamo dimenticare il 3-1 del Barcellona sul Manchester United nella finale di Champions League del 2011, che segnò il trionfo assoluto del tiki-taka e dello “stile Barça” (la coppa dalle grandi orecchie invece che da Carles Puyol fu alzata da Abidal, guarito di tumore solo poco tempo prima).

Anche l’Ajax di Cruijff ha giocato la sua partita perfetta quando disputò l’andata dei quarti di Coppa dei Campioni del 1973 contro il Bayern Monaco. L’anno prima i Lancieri avevano portato a casa un poker eccezionale, vincendo Eredivisie, Coppa d’Olanda, e la seconda Coppa dei Campioni consecutiva, per poi trionfare nell’Intercontinentale. La squadra giocava ormai come un meccanismo perfetto, nonostante l’assenza di Michels. La sfida con il Bayern è però di tutt’altra importanza: i bavaresi formano l’ossatura della nazionale tedesca che in giugno ha schiantato l’U.R.S.S. 3-0, vincendo l’Europeo; e soprattutto, rappresentano il calcio che gli ajacidi vogliono far dimenticare, ovvero quello in cui si gioca con ruoli fissi e marcature a uomo.

Il Bayern punta tutto sulla difesa, visto che segnare al “De Meer” è praticamente impossibile, soprattutto quando l’Ajax vuole dimostrare al mondo intero che il suo gioco è il modello del futuro; nel primo tempo la difesa degli ospiti regge: 0-0, nonostante il palo di Krol. Con quello che succede nella ripresa, tuttavia, sembra quasi che nel primo tempo i Lancieri non si siano neanche impegnati: l’1-0 arriva da un gran tiro da fuori di Schlicher, respinto malamente da Maier e che vede la facile ribattuta di Haan; nell’azione ci sono ben otto giocatori dell’Ajax nella tre quarti avversaria.

Il pressing degli olandesi è tale che gli ospiti tentano con degli sterili tiri dalla distanza. Nel giro di due minuti arrivano altre due reti dell’Ajax: Mühren raccoglie una corta respinta della difesa, e di esterno destro di controbalzo mette la palla sotto il sette, e un minuto dopo segna di nuovo Haan, che infila Maier su calcio d’angolo battuto da Cruijff. All’89° arriva anche il suo gol, un altro colpo di testa, stavolta su un lungo traversone di Mühren; i campioni di Germania sono totalmente annichiliti, sia sul piano del risultato che su quello del gioco: dopo il 2-0, i giocatori dell’Ajax che ritornano dalla metà campo avversaria sono ben dieci. Cruijff non giocò la partita di ritorno: “Ormai siamo in semifinale”, ed aveva pienamente ragione. Arriveranno poi l’eliminazione del Real Madrid e in finale quella della Juventus, colpita a freddo da Rep dopo pochi minuti.

Cruijff e compagni erano rivoluzionari anche in questo: per molti di loro, infatti, era assai più importante aver cambiato il calcio, senza necessariamente dover vincere: e come dimostrazione del disinteresse per la vittoria in sé, come ricordò più tardi Cuccureddu, la Coppa dei Campioni del 1973 ritornò da Belgrado ad Amsterdam nel cesto dei panni sporchi.