Il genio senza patria: László Kubala - Zona Cesarini

Il genio senza patria: László Kubala

“Colui che è coraggioso, è libero.” (Seneca)

È il 2013 quando i soci con almeno 10 anni di militanza del Barcelona FC votano per il miglior attaccante blaugrana di sempre. A pochi voti dal folletto mancino Lionel Messi e davanti ai Maradona e ai Cruijff di questo mondo, spicca un nome meno noto ai giovani: quello di László Kubala Stecz. A detta di chi c’era, di chi lo ha visto giocare, il dibattito sul più grande blaugrana di sempre neanche avrebbe inizio.

Il secondo miglior attaccante magiaro della storia nasce durante l’estate del 1927 a Budapest. Il padre è un muratore ungherese d’origine slovacca, mentre mamma Anna è un’operaia con origini polacche e cecoslovacche. A 10 anni comincia a lavoricchiare part-time in una fabbrica di vettovaglie, e ben presto comincia a giocare proprio con la squadra del dopolavoro, il Ganz, militante nella terza serie ungherese e formata sostanzialmente da ragazzi non ancora ventenni.

Contestualmente, si fa le ossa calcistiche pure per strada e non contro avversari mediocri: ancora sono celebri – nel subbuglio delle piazze di Budapest degli anni ’30 – gli interminabili match con Ferenc Puskas da una parte, e la coppia formata da Kubala e Jozsef Bozsik dall’altra. Capaci di catturare l’attenzione dei passanti, quelle partite erano tanto appassionanti quanto infinite.

“Ferenc era già allora di un’altra categoria: non c’entrava nulla col genere umano. Mi sentivo inferiore, ma non mi sono mai tirato indietro”.

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Budapest durante la Seconda Guerra Mondiale

Dopo una manciata di partite col Ganz, Kubala viene notato da un osservatore del Ferencváros, che lo porta nella squadra più titolata d’Ungheria ad appena 17 anni d’età. Da subito titolarissimo, in piena seconda Guerra Mondiale Laszlo ricambia i nuovi sostenitori con 27 gol in meno di 50 partite. E il suo nome comincia a girare nei salotti europei che contano.

Il 1945 è un anno cruciale per Laszlo non solo per motivi calcistici: nonostante l’Ungheria sia alleata con la Germania e l’Italia dal 1940, all’inizio del 1944 con le forze sovietiche in rapido avanzamento da est, l’Ungheria prende contatti con gli alleati in vista di un’imminente resa. Nel marzo del 1944 i tedeschi rispondono con la forza alle avvisaglie di tradimento invadendo l’Ungheria con quella che viene denominata Operazione Margarethe.

Döme Sztójay, fervente sostenitore dei nazisti, diviene il nuovo Primo Ministro guidando il paese col sostegno di un “governatore militare” scelto da Hitler in persona: il tedesco Edmund Veesenmayer. È proprio Veesenmayer che lancia l’idea di una nuova leva per i giovani ungheresi di almeno 17 anni, da mandare al macello al fianco dei giovani tedeschi: è il 1944 e Kubala elude la leva soltanto grazie all’influenza del Ferencváros.

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Kubala (primo da destra) nello Slovan Bratislava

Ma la fuga è soltanto rinviata: nel 1946 Kubala scappa nella vicina Cecoslovacchia per sfuggire alla stagnante miseria che stava soffocando Budapest, firmando un contratto più ricco con lo Slovan Bratislava; il tutto senza chiedere il permesso al Ferencváros, che si sente tradito ed oltraggiato dalla scelta della giovane stella. Oltre al danno, per gli ungheresi arriva pure la beffa: grazie al passaporto dei genitori, Kubala chiede ed ottiene di giocare per la Nazionale Ceca del ct Daucik, che presto diviene pure suo suocero (nel 1947 sposerà sua figlia Viola).

Dopo due anni Kubala fa rientro in patria, firmando un lautissimo contratto con il Vasas – squadra del dopolavoro degli operai dell’industria del ferro e dell’acciaio – e giocando tre esibizioni con la fortissima nazionale ungherese. Ma ad attenderlo a Budapest non ci sono solo rose e fiori: dopo neanche 20 partite, Kubala viene misteriosamente richiamato dall’esercito. Il che comporta naturalmente il divieto d’espatrio, che lo rende di fatto un “prigioniero” in patria.

Kubala si trova in un cul-de-sac: è costretto a vivere in caserma, in una città in cui si sente prigioniero, soffrendo la distanza dalla famiglia rimasta a Bratislava e allargatasi (era appena nato il figlio Branko). Messo alle strette, Kubala prende coraggio e decide consapevolmente di fuggire dall’Ungheria. Per riuscire nel suo intento, per prima cosa chiede un trasferimento nei reparti di confine, più precisamente vicino alla frontiera austriaca.

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Profughi dell’est al confine svizzero

L’occasione per disertare si presenta già nel 1949: Kubala lascia il campo a notte fonda, unendosi ad una carovana di profughi diretti a Vienna. Qui si ricongiunge ai familiari – nel frattempo fuggiti dalla Cecoslovacchia grazie agli “agganci” di nonno Ferdinand -, proseguendo con loro un tortuoso viaggio verso la neutrale Svizzera. Nascosto tra Ginevra e Zurigo presso alcuni conoscenti, Kubala passa dei giorni d’inferno tra l’incertezza per il futuro e lo spettro della cattura e dell’espatrio.

A toglierlo dall’empasse arriva in suo aiuto Peppino Cerana, presidente della Pro Patria di Busto Arsizio, che intravede nella difficile condizione di Kubala la possibilità di mettere a segno un doppio colpo: accaparrarsi uno dei più interessanti talenti europei e contestualmente risollevare le sorti di una famiglia senza prospettive.

In realtà, la Pro Patria non è l’unica squadra italiana a cercare il magiaro: a causa di una malattia del figlio, Kubala è infatti costretto a rinunciare all’ultimo alla possibilità di giocare col Grande Torino l’amichevole contro il Benfica di Eusebio, passata poi alla storia come la Tragedia di Superga. Ancora una volta, Kubala sembra avere più di un santo in Paradiso. Ancora una volta, la morte guarda Laszlo in faccia e decide di volgere altrove lo sguardo all’ultimo momento.

Tornando alle vicende italiane, va detto che i biancoblu annoverano in rosa gli ungheresi Turbéky e Vinyei, entrambi poi costruitisi buone carriere in giro per l’Europa e ben disposti ad accogliere il connazionale. Naturalmente, la roboante fuga di Kubala non passa inosservata alla nomenklatura del partito, che lo condanna per tradimento verso la Patria e convince la Federazione a squalificarlo a vita dalle competizioni nazionali ungheresi. Il che non sarebbe stato un gran problema, se la FIFA non avesse inspiegabilmente avallato la decisione della Federazione estendendola poi a tutte le competizioni ufficiali.

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Un rarissima foto di Kubala (9) in maglia Pro Patria

A 21 anni, Kubala non ha patria, lavoro e pure il suo matrimonio sta concludendosi miseramente. Chiunque sarebbe crollato, ma non Laszlo. Che è una di quelle persone per le quali la resilienza molto spesso ha la meglio sulla ragione, e per le quali non vi è posto nell’animo che per il coraggio. Contro il parere degli organi internazionali Kubala decide così d’allenarsi con la Pro Patria, scendendo pure in campo in una manciata di amichevoli.

Non potendo esordire in Serie A, decide di fondare una propria squadra amatoriale: l’Hungaria. L’Hungaria sembra quasi una versione d’antan e non romanzata del film Fuga per la Vittoria: si tratta di una squadra composta da esuli o rifugiati da ogni stato dell’Est, che si trovano ad essere riuniti dal calcio e dal comune odio verso una politica repressiva che ha tolto loro patria o identità.

Per dare l’idea di quella bizzarra creatura: è come se Shevchenko ad inizio millennio avesse fondato una squadra di amatori in provincia di Milano, e avesse convinto a giocare per lui gente del calibro di Nedved, Rosicky e Mutu. Benché le amichevoli contassero ben più allora che adesso, rimane un miracolo che quell’Hungaria dei fenomeni maledetti sia riuscita a scendere in campo in ben 6 occasioni.

Già, perché nonostante non potesse iscriversi in nessun campionato, quella squadra è talmente forte che viene invitata da tutti i migliori club europei a giocare in giro per il continente.

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L’Hungaria al completo

È proprio durante una tournée spagnola che Laszlo finisce nelle mire di Real Madrid e Barcellona. Leggenda vuole che Kubala preferisse i blancos ma che, in virtù delle sue elevatissime pretese contrattuali e del voler scegliere lui stesso l’allenatore, sia stato proprio il seccatissimo e leggendario presidente Santiago Bernabéu a porre il veto finale sull’acquisto. Perciò alla fine a spuntarla sono proprio i blaugrana, che fanno leva sul carisma dello storico direttore generale Pepe Samitier.

Il quale offre un clamoroso ingaggio al giocatore, accelera le pratiche per fargli ottenere un passaporto spagnolo in tempi record (motivo per cui Kubala ha giocato pure per la Spagna), e risolve il contenzioso con la Pro Patria offrendole un rimborso in denaro e la promessa di un’amichevole in terra meneghina.

Per la FIFA la perdita della condizione di rifugiato politico in virtù del nuovo passaporto iberico basta e avanza: la squalifica viene infatti ridotta ad un anno e Kubala può già tornare a calcare i campi da gioco. È evidente come il maggior peso politico del Barcellona abbia influito sulla decisione degli organi internazionali, fino ad allora rigidissimi con la Pro Patria.

Kubala è perfettamente consapevole di quanto gli spagnoli siano calcisticamente arretrati negli anni ’50, almeno in confronto agli ungheresi, e da subito fa pressioni sulla dirigenza affinché la squadra venga affidata al suocero Ferdinand Daucik, come sostanzialmente era stato deciso al momento della firma del contratto. È proprio attorno a Laszlo che l’allenatore cecoslovacco riesce a costruire l’invencible armada che domina il calcio iberico: nei quattro anni in cui Daucik guida il Barcellona arrivano infatti 2 Liga, 4 Coppe del Generalissimo ed 1 Coppa Latina (antesignana della Coppa UEFA).

Per quanto siano discorsi che lasciano il tempo che trovano, in Catalogna è tuttora molto diffuso il concetto secondo il quale quella formazione sia stata più forte anche di quella di Xavi, Messi ed Iniesta; oltre che del Dream Team che aveva in rosa Koeman, Stoichkov e Rómario. Sempre all’attacco ma compatto in difesa, con Kubala epicentro del gioco offensivo, il Barcellona ha indubbiamente segnato un passaggio epocale: Daucik riesce infatti nell’impresa di esaltare la fantasia dei propri campioni all’interno di un preciso e razionale disegno tattico.

La creatività personale non è dunque un limite al gioco corale, bensì un valore aggiunto. Un colore che migliora il disegno sulla tela. Ancora una volta, però, va segnalato come la morte cerchi di portarsi via anzitempo Laszlo: a 26 anni Kubala contrae la tubercolosi. E anche se ne esce segnato – grazie a quel fisico ultra-compatto da scaricatore di porto, 175cm. per 83 kili, sul quale sono montati due piedi rapidissimi e più coordinati di quelli di un étoile – si riprende velocemente.

Kubala diviene il leader carismatico e il riferimento apicale di una squadra cui presto si aggiungono gli esuli Kocsis e Czibor, oltre che i giovanissimi Luisito Suarez ed Evaristo. In parole povere: un’armata compatta, ma piena di talento. Kubala a sua volta pare una roccia inscalfibile: sa sempre cosa fare in ogni momento e situazione di gioco, non sbaglia un gol e tiene tutti in un palmo della mano, guidandoli anche nella prima e storica vittoria in Coppa dei Campioni contro il Real Madrid, fin lì mai sconfitto da una spagnola.

La carriera decennale di Kubala in Catalogna si conclude dopo 186 partite (e 131 gol) nel 1961 con l’arrivo in panchina del Mago, Helenio Herrera: Kubala gioca sempre di meno, e a 33 anni appende le scarpette al chiodo per allenare le giovanili.05-Kubala

Dopo un solo anno da allenatore della Cantera, Kubala è promosso capo allenatore della prima squadra nel 1963: l’esperienza sfortunata (viene esonerato dopo l’uscita dalla Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa) lo convince a tornare in campo: riprende l’attività come giocatore/allenatore dell’altro club di Barcellona, l’Espanyol, togliendosi pure la soddisfazione di giocare assieme al figlio sedicenne Branko. Il capolinea definitivo arriva nel 1967 dopo un’ultima sofferta stagione a Zurigo, nella città che lo aveva “accolto” due decenni prima, quando vi era transitato come esule.

Quasi immediatamente, viene omaggiato dal Barcellona con una statua davanti al Camp Nou. Lui, che blaugrana lo era diventato per davvero, nonostante avesse accettato di recitare in un film biografico, ma di propaganda franchista, agli inizi dell’avventura catalana. Dopo il ritiro, comincia una carriera da allenatore che lo porta ad allenare la Nazionale iberica per quasi un decennio, prima di far ritorno sulla panchina del Barcellona prima e di numerosi club della Liga poi (nel suo peregrinare ha allenato pure in Arabia Saudita e Paraguay).

Per sempre ricordato anche grazie ai versi del cantautore Joan Manuel Serrat, Kubala resterà un monolite indissolubile nella memoria dei tifosi del Barça: un tutt’uno con chiunque sia legato ai colori del Barcellona. Tantoché nel 2002 appena diventa pubblica la sua scomparsa – da anni era affetto da Alzheimer -, il presidente catalano Joan Gaspart decide d’interrompere la conferenza stampa per il ritorno di Louis Van Gaal in Catalogna, commentando commosso:

“Kubala era parte della storia del Barça. Sono sicuro che Van Gaal mi scuserà se chiedo un minuto d’interruzione della conferenza”.

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La statua di Kubala al Camp Nou

Quello zingaro venuto dall’Est (come si è auto-definito) si è pure meritato il prestigioso titolo di “Don”, e a pochi mesi dalla scomparsa è stato insignito dal Consiglio dei ministri di Spagna della Medalla de Oro al Mérito en el Trabajo, insieme a Di Stéfano. Tutt’oggi sono gli unici calciatori ad averla ricevuta.

Di lui si giura che non abbia mai sbagliato un rigore, e che abbia inventato il tiro al giro sopra la barriera. Di sicuro c’è che è l’unico giocatore ad aver segnato 7 reti in un match di Liga, e che non ha mai mollato un centimetro né sul campo, né nella vita.

Laszlo Kubala ha sempre dovuto lottare per i suoi privilegi: gli hanno tolto la patria, e lui se n’è prese tre. Ha ricevuto in dono dalla vita cicatrici che non si cancellano, ma ha sempre affrontato le difficoltà a testa alta e senza mai fare un passo indietro. Ha sempre avuto il coraggio delle proprie scelte, anteponendole a tutto e tutti. Laszlo Kubala: il fuggitivo ribelle che sanguinava blaugrana.

“Senki sem próféta a saját, maga hazájában. / Nessuno è profeta nella propria patria.” (Proverbio Ungherese)