Qualcosa è cambiato: Phillip Cocu e la rinascita del PSV - Zona Cesarini

Qualcosa è cambiato: Phillip Cocu e la rinascita del PSV

Gelido. Maniacale. Razionale. L’identikit da allenatore di Phillip Cocu pare rispettare alla perfezione quella che poteva essere la sua personale scheda da calciatore. Eppure, oggi come a cavallo dei due millenni, quell’olandese dallo sguardo vitreo e dalla compostezza asettica non sembra godere dell’effettivo credito che probabilmente meriterebbe.

Un uomo nell’ombra, in campo come in panchina. Ma lontano da riflettori e da pressanti attenzioni mediatiche, Cocu si sta progressivamente imponendo come uno dei migliori prospetti d’Europa in termini tattici e gestionali. E se il suo PSV ha tenuto testa all’Atlético Madrid di Simeone in Champions League lungo 180 minuti sfiancanti al limite della guerra tattica di posizione, senza uscire sconfitto se non alla lotteria degli 11 metri, gran parte del merito lo si deve proprio al mister di Eindhoven. Riflessivo, ossessivo e refrettario ad ogni forma di protagonismo: è il next big-thing delle panchine europee.

Eindhoven, con la sua fiorente industria tecnologica e una ricchezza pro-capite fra le più alte d’Europa, è un avamposto silenzioso e laborioso nel cuore del Benelux. Il ghiaccio del Brabante settentrionale fa da perfetto scenario per una città che vive di avanguardie tecniche e tecnologiche. Investendo. Un terzo dei fondi nazionali destinati alla ricerca finiscono da queste parti, implementando una delle migliori Università d’Europa a carattere scientifico-tecnologico: la Technische Universiteit Eindhoven. Un polo universitario strettamente collegato al tessuto industriale cittadino, che tradotto significa Philips.

Il dominus di questa città, il gigante tecnologico che da oltre cento anni indirizza vita ed economia della regione attraendo studenti e giovani laureati da ogni parte del paese. Un catalizzatore di investimenti, occupazione, ricerca e sviluppo. E calcio. Perché non sarebbe esistito nessun PSV, se non ci fosse stata la Philips. Letteralmente. Lo stesso club di Eindhoven, il secondo per importanza e blasone in Olanda, è emanazione diretta della ex fabbrica di lampadine, in quanto fondato dai lavoratori dell’azienda nel 1913.

In un contesto così legato all’efficienza, alla ricerca di nuove soluzioni e alla razionalità di scienza e conoscenza come base di ogni sviluppo, appare quasi naturale che la rinascita ad alti livelli di un club passi da una mente laboriosa e calcolatrice come quella di un ex giocatore totale, nato e cresciuto nel vivaio del PSV e migrato poi a Barcellona seguendo le orme di ben più celebri connazionali dalla casacca oranje. Insomma, Phillip Cocu è emanazione stessa del sentimento dell’essere “Boeren”. I contadini, come furono etichettati con fare sprezzante dopo pochi anni dalla fondazione del club.

Cocu con la fascia di capitano ai tempi del Barca

Nel suo calcio, in campo come in panchina, si ritrova quella mentalità dominante nel Brabante settentrionale: un mix di avanguardia e ricerca, applicazione scientifica e logica ferrea. Da giocatore, Cocu ha impersonificato con compostezza e lucidità il ruolo di erede del calciatore totale di scuola olandese: indifferentemente schierabile come centrocampista esterno sinistro, interno di centrocampo, terzino e perfino difensore centrale. Lui stesso, a fine carriera, dice di sé:

“Credo di aver giocato in tutti i ruoli di movimento possibili. Mi manca soltanto di fare il terzino destro.”

È una di quelle pedine su cui costruire la squadra, insomma. Un jolly mancino che ha nella completezza tecnico-tattica la sua caratteristica preponderante. Tecnicamente non eccelle in niente, ma ha tutto in buone quantità. A parte una qualità: l’intelligenza tattica, che tracima. Non è un caso che quel centrocampista ordinato e razionale diventi capitano e leader di una squadra come il Barcellona e che, fino alla strabiliante éra di Leo Messi, detenesse il record di presenze del club, con la fascia catalana al braccio, per uno straniero.

Il percorso di avvicinamento dal campo alla panchina appare così inevitabile, naturale. Andando ad infoltire quella scuola di pensiero teorico per la quale dietro ogni centrocampista di logica ed intelligenza si nasconda pure un grande tecnico, come nei casi eclatanti di Guardiola, Rijkaard e Ancelotti. E anche in questa fase, le sue scelte sembrano ponderate fino all’ultimo decimale in vista di una progettualità futura.

Decide di dedicarsi ai giovani, accettando l’offerta di allenatore delle giovanili del club della sua città, ovviamente il PSV. Ma non basta. Perché insieme a questo incarico accetta la chiamata del CT oranje Van Marwijk, che spinge per averlo come vice-allenatore della Nazionale olandese. È il 2008: Cocu ha 38 anni, si è ritirato dal calcio giocato da appena due mesi, ma ricopre già un doppio incarico di spessore e di opposte prospettive.

Un duplice ruolo che in pochi possono vantare. Un percorso formativo moderno. Pensato e progettato a tavolino: un po’ come l’Evoluon, il museo della scienza dal design futurista simbolo di Eindhoven.

L'Evoluon di Eindhoven
L’Evoluon di Eindhoven

Cocu acquista esperienza e consapevolezza sotto questo particolare paradigma: da un lato collabora con il commissario tecnico e impara la gestione di un gruppo di primedonne e star internazionali come quello della Nazionale oranje, dall’altro si professionalizza sul campo maturando una capacità invidiabile nel formare e svezzare quei giovanissimi talenti che andranno ad infornare l’Eredivisie con la maglia del PSV. Quando arriva il momento del grande salto, Cocu è già un allenatore pronto.

L’occasione si presenta nel marzo del 2012, quando subentra in corsa a Fred Rutten. L’ex allenatore dei Boeren ha lasciato in eredità un modesto quarto posto con tanto di goleada umiliante al Philips Stadion, 2-6 dal Twente, uno dei punti più bassi della storia recente del club. Cocu si ritrova in mano una gestione complicata: da un lato c’è aria di dismissione, con numerose cessioni estive già nel mirino, dall’altro c’è un’impellente necessità di rilanciare i bianco-rossi nell’élite del calcio olandese.

Il Nostro inizialmente paga lo scotto di una situazione confusa in un quadro a tinte fosche. Come se non potesse sciogliere l’enigma di una squadra ambiziosa ma ricca di giovanissimi. I risultati sono altalenanti, si fatica ad intravedere un disegno preciso, ma è soltanto un momento di passaggio perché a fine stagione Cocu porterà il PSV al terzo posto, vincendo pure la Coppa d’Olanda. Ma l’esperienza da traghettatore non gli vale la riconferma: viene assunto un moloch delle panchine oranje come Dick Advocaat e il Nostro torna ad agire nella comfort zone della squadra primavera (che milita in seconda divisione).

L’annata cruciale in questa strana carriera di rimbalzi ed eterni ritorni, nuovi ruoli e vecchie figure, è quella del 2013/14. Cocu prende il testimone da Advocaat ed è a tutti gli effetti l’allenatore del PSV, investito di un contratto triennale e forte del certosino lavoro compiuto nel settore giovanile del club. Sotto la sua guida, infatti, si affacciano in serie B prima e in Eredivisie poi giocatori del calibro di Memphis Depay e Georginio Wijnaldum. Il PSV decide così di giocare l’all-in su Cocu, puntando tutte le fiches a disposizione sul tavolo di una rivoluzione verde che ha del sorprendente.

Ad Eindhoven il vento del cambiamento soffia forte come una tramontana invernale e il club decide di cedere i pezzi pregiatissimi che avevano fatto le fortune dei Boeren negli ultimi anni: in una diaspora repentina fanno le valigie Strootman, Mertens, Lens, Pieters e Van Bommel. Tira aria di liquidazione e il cartello “vendesi” è affisso a caratteri cubitali all’entrata del Philips Stadion. La stagione alle porte, infatti, sarà una delle più travagliate dell’ultimo decennio e Cocu, silenzioso scacchista adagiato in panchina, incassa senza scomporsi. Anzi.

“Sono una persona a cui piace apprendere passo dopo passo e non voglio assolutamente andare troppo veloce. Il ragionamento e la programmazione sono alla base di tutti i successi. Credo inoltre che non sei mai troppo vecchio per imparare qualcosa di utile.”

Grazie a quell’humus da anno-zero, venutosi a creare con l’allontanamento di ogni risorsa tecnica d’esperienza, il Nostro inizia a progettare a medio termine mettendo nel mirino l’annata 2014/15 quale turning-point della carriera. Anche stavolta, ha calcolato tutto con perizia. Come se esistesse una forma di progettualità tecnica che s’incasella automaticamente come un file excel. A parte una vicissitudine personale, di quelle che non si possono prevedere. A febbraio del 2014, col suo PSV al quarto posto, Cocu sente un dolore alla schiena mentre è sul campo di allenamento. Il responso è di quelli che non lascia scampo: è un tumore.

Abbandona il suo mondo per lunghi mesi, viene ricoverato, poi operato e si ristabilisce in fretta. Per sua fortuna, era un tumore benigno che gli permette pure di tornare in panchina nella penultima giornata di campionato chiudendo un’annata turbolenta al quarto posto. Poca cosa per un club come il PSV, oro colato per un uomo che vive il campo e l’analisi tattica come ossessivi esercizi di vitalità e catarsi delle proprie debolezze. Adesso il suo disegno è pronto, deve soltanto togliergli il velo per mostrarlo a tutto il paese.

Cosa che puntualmente avviene nel campionato 2014/15. Una marcia trionfale, un dominio barbaro. Il PSV mette la freccia alla seconda giornata e chiuderà l’Eredivisie al primo posto vincendo il titolo con 4 turni d’anticipo e 17 punti di distacco su l’Ajax campione in carica. Miglior attacco, miglior difesa, un mostruoso +61 alla casella differenza reti, Memphis Depay capocannoniere con 22 gol, Guardado miglior giocatore del torneo. Non è un campionato, ma una dimostrazione cannibale di manifesta superiorità. Uno scatto senza fine, degno delle fughe di Eddy Merckx sulle acciottolate strade del Benelux.

Il regista dell’operazione è ovviamente Cocu. Che col tempo, la programmazione e la piena fiducia della società ha incassato dividendi altissimi puntando sulla sua visione di calcio. Un 4-3-3 idealtipico, quasi uno standard nella terra dei tulipani, plasmato su misura per i propri interpreti. E per la sua idea equilibrata e funzionale di gioco propositivo e dominio dello spazio.

“El lìder”, Andrés Guardado

Depay è la punta di diamante, ma altre tre lungimiranti intuizioni del mister rispondono ai nomi di Luuk de Jong, Jetro Willems e Andrés Guardado. Il primo è il bomber di ritorno in patria, elemento perfetto per il 4-3-3 dei Boeren con i suoi 20 gol in dote, il secondo sarebbe un esterno propulsivo a tutta fascia, ma il Nostro lo piazza terzino sinistro, ne sfrutta la selvaggia accelerazione e ne tira fuori il miglior assist-man dell’Eredivisie, mentre il terzo è semplicemente l’uomo chiave della squadra: collettore di gioco ed equilibrio tattico nel ruolo di pivote davanti alla difesa. Una sorta di Cocu versione tequila&limone.

I tifosi festeggiano, il club ancora di più perché incassa oltre 20 milioni di euro dalla qualificazione ai gironi di Champions. Un traguardo utopico soltanto 10 mesi prima. Il PSV non solo esprime un calcio moderno e una compattezza ai limiti del parossismo, ma adesso ha una base futuribile su cui costruire un futuro ad alti livelli.

Perché un dato su tutti emerge dalla cura Cocu: i Boeren sono la squadra con l’età media più bassa. Addirittura più bassa di quella della sua squadra primavera – 20,4 anni – come successo in occasione di due partite di campionato. Il resto è cronaca odierna: quest’anno il suo PSV sgomita in una lotta punto a punto col grande rivale di sempre, l’Ajax, appaiato a pari punti in testa alla classifica a tre giornate dal termine. Ma i Boeren hanno pure infilato una qualificazione agli ottavi di Champions che odora di impresa, togliendosi enormi soddisfazioni battendo team come Manchester United e Wolfsburg.

Vincere così è come scalare il K2. O come sciogliere una complicatissima equazione matematica, un lavoro da Will Hunting, genio ribelle. Lasciando da parte la ribellione, però, perché quella non appartiene certo all’uomo di Eindhoven, quello silenzioso e scrupoloso. Un po’ ingegnere e un po’ demiurgo. Uno che a lavorare nell’ombra ci ha fatto l’abitudine e che alimenta le sue capacità rifuggendo le attenzioni.

Quelle stesse attenzioni che, oggi, un club spagnolo che soltanto pochi anni fa gli aveva offerto la panchina della Masia, pare dedicargli con insistenza in vista del futuro. Che sia proprio il calcolatore dallo sguardo di ghiaccio l’erede di Luis Enrique e della scuola olandese all’ombra della Sagrada Familia?