Hey, man! Il fenomeno Leicester campione d'Inghilterra - Zona Cesarini

Hey, man! Il fenomeno Leicester campione d’Inghilterra

È successo davvero: il Leicester di Claudio Ranieri ha vinto la Premier League 2015/16. L’impresa del millennio. Quella che tutti aspettavano da mesi, una cavalcata senza uguali che si consegna alla storia del calcio. Fenomeno globale e insieme trionfo del concetto di outsider. Abbiamo provato ad analizzare, secondo molteplici punti di vista personali, quella che è già passata alla cronaca come “la favola del Leicester”.

L’illustrazione ad hoc della nostra Li.Sa

Premier for dummies

di Leonardo Capanni

Nel corso degli anni ho spesso etichettato l’artefice di questa pazzesca cavalcata, Claudio Ranieri, come un grande “normalizzatore”. Per ragioni tattiche e insieme gestionali. Perché Ranieri, in un campionato quasi mai avvincente ma tatticamente asfissiante e perfezionista come quello italiano, si è configurato come allenatore di buone capacità, senza apportare però una reale eredità tecnica: nessuno dice (o ha mai detto) di rifarsi a lui, non è un modello per giovani allenatori, tantomeno un caposcuola o un innovatore. È piuttosto un normalizzatore, un educato elemento di quieto ordine.

Ragionato e pragmatico come il suo 4-4-2: emblema del modulo-base, quintessenza dell’efficacia del gioco a discapito dell’evoluzione dello stesso. The Tinkerman ha clamorosamente ribaltato ogni fattore tecnico-economico giocando sul territorio che più gli è congeniale: quello di una restaurazione morbida. Ma come è possibile che il campionato più ricco e seguito al mondo sia collassato dietro la fuga delle Volpi?

Qui entra in gioco il contesto. Quella Premier League che tanto fa appassionare all’estero come in patria ma che, oggi, rimane territorio di conquista in modalità vintage. Un torneo sui generis, perfettamente rivelatorio della bizzarrìa e dell’unicità del calcio d’oltremanica.

L’Inghilterra si è sempre professata patria del football e ha costantemente guardato all’estero con altezzosa diffidenza, sviluppando una ritrosia endemica verso modelli e sperimentazioni continentali, pagandone oggi dazio, in Europa come in patria. Perché nel trionfo del Leicester c’è un salto di qualità concettuale che riporta le lancette del calcio indietro di qualche anno, cristallizzando “la più grande favola del calcio moderno” sulle fondamenta tattiche di un lavoro forse sorpassato dalla storia, ma non certo dai risultati.

Nello zeitgeist del guardiolismo, dello spazio quale miglior centravanti, del gegenpressing teutonico e del nuovo cholismo, Ranieri ha incenerito anni di sperimentazione tattica trionfando sulle basi di una concezione razionale: una comfort zone fatta di copertura degli spazi in fase di non possesso e pochi ma efficaci compiti di ripartenza in velocità. Ha sfruttato al massimo (e ben oltre) le caratteristiche dei suoi, non ha intaccato l’11 titolare, quasi fosse un monolite, ha imposto ordine e metodo in un torneo dove dominavano ritmo, pressing furibondo e vigorìa muscolare, a discapito di attenzione e lavoro tattico. Mettendo in scacco un intero sistema con poche mosse.

Regalando una sensazione purificatrice di anno-zero della Premier League: il gigante multimilionario dai piedi di argilla. Solo in una Premier di passaggio infatti – che il prossimo anno vedrà ai nastri di partenza una totale rivoluzione tecnica nelle big: da Conte a Guardiola, passando per Klopp e Mourinho – colui che un tempo in Italia era etichettato con ferocia come er Minestraro o Cappottino per la tendenza ad accontentarsi di scialbi pareggi, ha potuto salvare la Regina regalando un gioco semplice, quadrato e funzionale come una lampada da scrivania Ikea. Insieme ad una massiccia dose di umanità, sana incoscienza e fortuna, che fanno di questa stagione un vero unicum. Da consegnare ai posteri.

L’essenza di quest’annata probabilmente risiede qui. A discapito della ormai stucchevole mole di enfasi – con dichiarazioni inventate, ingigantite o modificate ad hoc – che si respira a pieni polmoni sui social italiani. Dove spesso il Leicester pare essere sublimato in una gang di teppistelli di provincia che pensa soltanto a ballare fino all’alba, a sbronzarsi a colpi di shot e progettare scherzi da caserma. Ad uso e consumo di un’analisi e di una narrazione quasi parodistica, che finisce per svilire i concetti stessi di impresa e outsider in un mare magnum di forzature, effetto bandwagon da carro del vincitore o sentimentalismo spiccio.

Forse è proprio questo il fascino di un’impresa irripetibile: un mix di inadeguatezza tattica diffusa – leggi alle voci United, Chelsea ed Everton – uno zoccolo duro di allenatori retrogradi – i vari Allardyce, Pulis e Pardew, e un insieme di squadre confusionarie destinate ad una rivoluzione già annunciata, leggi Arsenal e City. Un humus da conquista del West. Ne hanno beneficiato la spensierata banda di Ranieri e pure Mauricio Pochettino, allenatore con una visione contemporanea e personale, da buon allievo della scuola bielsista.

Insomma, l’innegabile fascino e quell’atmosfera da super-campionato che la Premier riesce tuttora a trasmettere, ne escono forse ridimensionate dall’impronosticabile trionfo del prototipo del Normal One. Sostanzialmente, l’enorme merito delle Foxes è quello di aver sfruttato come nessuno una sorta di “finestra temporale” fiondandosi dentro con l’applicazione di un metodo già visto e forse sorpassato. Ma perfetto nella contingenza spazio/temporale.

Un Gattopardo, un sorprendente remake di altri trionfi che hanno fatto epoca: dal Nottingham Forest neo-promosso del 1978 fino alla Grecia del 2004. In questi tempi ultra-accelerati, impossibile resistergli. È un po’ come trovare il tempo di sedersi al bancone di un pub, in pieno giorno, per assaporare qualche pinta in compagnia degli amici di sempre, chiacchierando di calcio e ricordi.

In definitiva, il Leicester consegna ai posteri la lezione di Cruijff ribaltandone però gli stilemi: “Giocare a calcio è semplice, ma la cosa più difficile è giocare un calcio semplice”.

Train in vain

di Gianluca Lorenzoni

Ci sono storie partorite dalla casualità capaci poi di diventare, contro ogni pronostico, indelebili. Come una ghost track inserita all’ultimo minuto, con la copertina già in stampa, a conclusione dell’ album simbolo del movimento punk inglese, trasformatasi nel primo grande successo dei Clash di Joe Strummer in terra americana.

O come un lato-B di Out of our Heads degli Stones, quell’I can’t get no (Satisfaction), che da semplice riempitivo assurge addirittura a manifesto della più grande e longeva rock band della storia. O come il Leicester, ovviamente. Un B-side che è riuscito a scalare le classifiche diventando una hit planetaria.

Train in vain. I can’t get no satisfaction. Non sono due titoli a caso, però. Perché per ogni vincitore, per chiunque scriva una pagina di Storia più o meno straordinaria, per ogni Leicester insomma, esiste anche chi inevitabilmente si ritrova ad aver faticato per niente. E tanto più l’impresa risulterà inusitata, tanto meno spazio potrà essere destinato agli sconfitti.

La Premier 2016 verrà ricordata esclusivamente per il miracolo delle Foxes; al massimo, come l’occasione sprecata dall’Arsenal per scrollarsi di dosso l’etichetta di eterni incompiuti o come l’annus horribilis delle big. Potrebbe trovare posto addirittura la retrocessione dell’Aston Villa. Ma quasi nessuno penserà al Tottenham, lo sparring partner designato per la sconfitta più beffarda.

Gli Spurs di Pochettino si sono trovati dinnanzi ad un moloch plasmato dal caos, un avversario che è sembrato spinto da una forza irrazionale, e nel loro anno di grazia dovranno accontentarsi del miglior piazzamento in Premier League della loro storia che non può che avere però il sapore amaro della sconfitta. Un’occasione forse unica e irripetibile per riportare a casa quel trofeo che manca dal ’61 (quando ancora si chiamava First Division) sfumata per un colpo di coda di una manica di outsider che hanno saputo massimizzare la mano vincente portandosi a casa l’intera posta. Quando tutti pensavano al bluff.

Dal 1979 – l’anno di uscita di London Calling – gli Spurs hanno rappresentato una costante nel massimo campionato d’Oltremanica, diventando al contempo il simbolo di una middle class, nobile sì, ma non fino al punto di riuscire a scalfire quell’oligopolio aristocratico formato da Liverpool, United, Arsenal e Chelsea.

Questa poteva essere l’occasione giusta, che ha finito invece per confermare quello che il Tottenham rappresenta nell’immaginario collettivo britannico: una perenne via di mezzo tra l’eccellenza e l’anonimato. Una definizione perfetta la dà Colin Farrell in In Bruges: “Che cos’è il purgatorio? È come il Tottenham!”

Dalle parti di Londra Nord non sembrano ancora pronti per il paradiso. Eppure l’esplosione di Dele Alli, la conferma di Kane, l’impronta innovativa di Pochettino, uniti al talento di gente come Lamela ed Eriksen potevano far sperare in un epilogo diverso: il più classico dei “se non ora, quando?”.

Ma la parte di Golia – del tutto fuori luogo se si parla di Spurs – contro il Davide in maglia blu ha finito per far pendere la bilancia verso il finale meno scontato ma al contempo più atteso. Fa sorridere che a scippargli la gloria sia stato un signore romano la cui carriera corrisponde quasi fedelmente alla descrizione appena fatta dei suoi avversari. Non credo sia sbagliato dire che Ranieri sia un po’ il Tottenham degli allenatori: più che dignitoso sempre, nella propria normalità, eccezionale mai. Almeno fino a qualche mese fa. Almeno fino a ieri sera.

Eppure lui ce l’ha fatta.

Il Leicester sarà probabilmente solo una parentesi, per quanto meravigliosa, nel corso ordinario delle cose. Come quelle che facevano da compendio al pezzo di Jagger e Richards, racchiudendo una parola dal sapore profetico: satisfaction. Quella che Ranieri ha dovuto e saputo aspettare parecchio, prima del più incongruo dei finali. A White Hart Lane invece è una vita che aspettano. Ma faticare per nulla resta un po’ la specialità della casa.

Finché il tempo non farà il suo corso, però, ricordiamoci anche di loro. Dell’altra faccia della medaglia. Perché non tutti i lati-B hanno la forza e la fortuna di diventare dei successi. Si chiama normalità. Si legge Tottenham.

Wes Morgan: il Capitano

di Giovanni Parente

“Wes Morgan è come Baloo del “Libro della Giungla”: è un grande orso delicato che si occupa di tutti i ragazzi. Non parla tanto ma, quando lo fa, tutti ascoltano. È il capitano perfetto.” (C. Ranieri)

In una normale serata d’inverno ci sono una quindicina di ragazzi che vengono fotografati appena usciti da uno dei tanti pub sparsi per l’Inghilterra. Sono i giocatori del Leicester City, la squadra che ha scritto la favola più incredibile di sempre. Ma sono anche e sopratutto amici in libera uscita anziché fuoriclasse atteggiati e strapagati. Quella foto sintetizza la caratteristica fondamentale delle Foxes: lo spirito di gruppo, l’unione di intenti, la voglia di riscatto.

Il leader di questa squadra è un giocatore dalla storia personale molto particolare: Wes Morgan, figlio di una delle tante famiglie caraibiche giunte in Inghilterra alla ricerca di una vita migliore. Nasce nel gennaio del 1984 a Prati, un quartiere di Nottingham a pochi passi dal City Ground dove le strade strette, costruite per i lavoratori delle ferrovie e delle fabbriche nel XIX Secolo, sono state demolite nel 1970 per far posto a una riqualificazione mal concepita. Morgan cresce, quindi, nel quartiere degli extracomunitari di una vecchia città industriale tra povertà, stenti e problemi sociali.

Tutto questo non gli impedisce di continuare a rincorrere il suo sogno di diventare calciatore, nemmeno quando gli scout del Nottingham Forrest fanno notare ai suoi genitori che non aveva il fisico per giocare. Troppo grasso, troppo grandi quei polpacci, troppo lento. Nel giro di poco tempo venne definito un “ciccione depresso” dalla stampa locale e dai suoi allenatori. Per uno che si era dovuto procurare tutto nella vita per sopravvivere, le parole di questi figuri non posso toccare più di tanto.

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Wes Morgan richiama i suoi compagni ai tempi del Nottingham Forest

Dopo due anni di sacrifici e ottime prestazioni nella squadra giovanile, Morgan esordisce in prima divisione nel 2003, poco più che maggiorenne, e non avrebbe più perso il posto nella difesa del Nottingham fino al 2012, l’anno in cui approda a Leicester per mezzo milione di sterline. 350 partite con la maglia del Forest in dieci anni di onorato servizio, spesso in collaborazione con il grande amico Michael Dawson, con un passato al Tottenham e ora all’Hull City.

Nella multietnica Leicester l’ormai maturo Morgan si sente a casa: i tifosi amano il suo stile di gioco privo di fronzoli e lo hanno eletto a idolo, il suo fisico possente lo aiuta nelle situazioni difficili di un calcio fisico come quello inglese e gli attaccanti avversari hanno paura di quell’armadio di colore. Dopo i sei mesi di apprendistato iniziale, nella stagione 2012/13 diventa perno insostituibile nella retroguardia delle Foxes che per poco non centrano l’attesa promozione in Premier: negli ultimi minuti della semifinale di ritorno succede l’incredibile con Knockaert che sbaglia il rigore decisivo e sul capovolgimento di fronte il centravanti del Watford, Troy Deeney, realizza la rete che regala il pass per Wembley agli Hornets.

L’anno dopo è protagonista del primo posto che riporta il Leicester in Premier dopo un decennio di assenza, ma l’annata del ritorno in massima divisione è la più complicata di tutte: dopo un inizio di campionato terribile con una sola vittoria nel girone di andata, la squadra inverte la rotta e trova una salvezza insperata e clamorosa. Nigel Pearson, l’allenatore artefice di questo miracolo, viene a sorpresa licenziato e al suo posto viene chiamato Claudio Ranieri: la reazione della gente non è per nulla positiva e iniziano a circolare le prime scommesse sul mese del suo esonero.

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Wes Morgan esulta all’Old Trafford per la rete che regala il titolo al Leicester

Da vero capitano, Morgan si carica la squadra sulle spalle diventando un motivatore in campo, un faro per i compagni, il muro a difesa della porta del biondissimo Schmeichel jr. La storia recente la sappiamo tutti: il Leicester compie “il più grande miracolo calcistico di sempre” e si porta a casa una Premier League che sarà ricordata per anni. Di quest’impresa resteranno i gol di Jamie Vardy, le giocate di fino di Mahrez, la corsa infinita di Kanté, le geometrie di Drinkwater, le reti di rapina di Ulloa, le scivolate e le urla di Wes Morgan nel richiamare la squadra per tirare su il solito fortino davanti al portiere.

Morgan è un rude dal cuore d’oro, cattivo esteriormente ma buono dentro, ha un viso torvo, lo sguardo truce, un naso tirato su per tutte le botte prese in campo e fuori, la bocca distorta e quei tatuaggi che incutono timore. Wes Morgan è il Caronte del Leicester, ovvero quel traghettatore che decide chi far passare da una parte all’altra dell’area di rigore e in questa stagione di gente ne è passata davvero pochissima.

Morgan c’era quando il Leicester era una squadra da metà classifica in Serie B, quando il Leicester navigava nei bassifondi della Premier, quando nemmeno gli inglesi sapevano dove fosse Leicester, quando le Foxes erano una squadra qualunque. Eppure è rimasto lì, a comandare quel manipolo di uomini pronti a dare l’anima in campo. E si è preso la sua rivincita contro la stupidità e la cattiveria umana dimostrando che il cuore e i sacrifici possono avere la meglio sui limiti fisici.

Adesso quel ciccione depresso è il capitano della squadra campione d’Inghilterra e pure l’autore della rete decisiva per la realizzazione della favola più incredibile dei tempi moderni.

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Dalle orge nascono i fiori

di Jacopo Rossi

Le maldicenze vanno di pari passo con le birre, mentre tre lingue battono sul tamburo: “le tailandesi sono carogne di sicuro, perché hanno gli occhi troppo vicino al buco del culo. Nostro, per la precisione”. Questo pensano Tom, Adam e James. Lo pensano e lo dicono, o meglio lo biascicano, davanti all’occhio del telefonino. Ubriachi, in un albergo di Bangkok, con i rispettivi membri esposti al ludibrio di un pugno di entreneuse, che di beoni simili ne hanno visti migliaia e tollerano gli insulti, i frizzi e i lazzi, accettando financo le vergate dei suddetti membri sugli zigomi.

C’è tutta l’allegria arrogante che tre minus habens belli e ricchi possono esprimere, nel pieno della loro fortunata gioventù. Ma, qui lo dico e poi lo nego, van capiti. Non compresi, capiti. Hanno i soldi, hanno vent’anni, hanno il fisico, hanno una tournée in Thailandia con la loro allora squadretta. Peccato che la squadretta sia stata comprata giusto giusto cinque anni prima proprio da una cordata asiatica, di Bangkok, guidata da Vichai Srivaddhanaprabah, già Vichai Raksriaksorn, per brevità chiamato Vichai.

Vichai ha cambiato cognome nel 2013 ma non per bizza (e nemmeno per comodità, I suppose): perché il Re Rama IX semplicemente gli ha conferito un cognome nuovo, per merito. Figurarsi se uno così può accettare che tre suoi tesserati giochino alle centoventi giornate di Sodoma con delle sue connazionali. Oltretutto durante una tournée organizzata per promuovere il Leicester, ossia la squadretta di cui sopra, e farne un vanto di fronte ai thailandesi tutti.

Dopo un mese Tom Hopper, Adam Smith e James Pearson vengono licenziati, con un comunicato retorico, severo, spietato. Quindi giusto. Non fanno settant’anni in tre, si rifaranno. Qualche settimana dopo se ne va anche Nigel Pearson, padre di James: le colpe dei figli ricadono sui padri, in Inghilterra, anche se i primi sono calciatori e i secondi sono allenatori. I loro.

Al suo posto Vichai chiama Claudio: il resto lo sapete, lo state leggendo sulle pagine della Gazzetta (che finalmente ha qualcosa di significativo di cui parlare). Oppure lo avete visto ieri su Facebook, quando la vostra amica, capace solo di hashtag come #foodporn, #picoftheday, #follow4follow e amenità simili, ha postato una foto di Vardy. Sì, suona come un rispettoso imperativo dialettale ma è un attaccante, ex operaio. Tipo Riganò, ma più basso, più magro e più prolifico. Questo Vardy ieri sera, insieme ai compagni, ha vinto l’attuale campionato più bello del mondo, guidato da uno che oltremanica era sempre stato preso per le terga.

Ecco: qui non si parla di lui. Qui si parla e si (com)piange Tom, Adam e James: tre Pete Best moderni, che hanno fatto quello che avrebbero fatto molti loro coetanei. Ma non erano nella posizione per farlo. Voglio immaginarli ieri, di fronte agli schermi, increduli. Loro ad annaspare in basso, i loro ex compagni a festeggiare a casa di Vardy.

Quasi li vedo scriversi, telefonarsi, sfancularsi a vicenda in un inglese mozzo e nervoso come quello di Milky e Combo, a recriminare per un’orgia di un anno prima. So long, boys: adesso, con la serenità dei vincitori, Leicester vi perdonerà.

E, a proposito, se non volete farvi perculare da Repubblica, sappiate almeno come si pronuncia Leicester: così.

Hopper, Pearson e Smith: li voglio ricordare così, nudi e sorridenti

Caro Claudio, io ti voglio bene

di Simone Bartalesi

Tutti hanno scritto di tutto, stanno scrivendo di tutto e scriveranno di tutto fino agli Europei. E allora inutile perdersi in ciance e riflessioni ponderate. Ho scritto le prime cose che mi venivano in mente, tanta è l’emozione e la voglia di addormentarsi sognando di essere lì, a Leicester, insieme all’ultimo ubriacone di turno, pronto per l’ennesimo giro della staffa inneggiando alle Foxes.

Questa volta inizio io, faccio io e concludo io. Era il 18/09/2010 e Ranieri con la tuta della Roma si presenta in conferenza stampa nervoso, agitato, prende la parola e non lascia spazio a repliche. Era la seconda stagione sulla panchina giallorossa e le cose non andavano granché bene. A Febbraio Ranieri lascerà la capitale e arriverà Vincenzo Montella.

Fa effetto rivedere quelle immagini se pensiamo a cosa è appena successo. Sembra perfino ringiovanito, un uomo che ha trovato la pace dei sensi. Se ne frega dei giornalisti, delle polemiche, fa lo spiritoso e prende tutti in giro.

Dilly Ding Dilly Dong, come on! Sveglia ragazzi, il mister ce l’ha fatta. Una grande, brillante e inattaccabile conferenza stampa che fa il paio (alla rovescia) con quella del 2010. Non è solo il coronamento di una carriera, è la realizzazione di un uomo, un uomo che non aveva più nulla da perdere. Un uomo con una grande forza ma che ha realizzato il miracolo con una squadra fatta di ex-avvinazzati e rissosi da pub (vedi Vardy) e maghrebini emigranti che giocavano sull’asfalto delle periferie francesi (vedi Mahrez).

Ormai non si parla d’altro. Any given sunday, più che la stagione andava avanti, il Leicester ha fatto decisamente più audience di Messi e Ronaldo méssi insieme. Scusate il gioco di parole. E il video di cui sopra è già diventato un supercult delle reliquie pallonare da youtube e simili. Molti giovani si saranno appassionati a Ranieri, giustamente, solo durante questa stagione. Ma il Mister di gavetta ne ha fatta tanta.

Un simpatico “testaccino” in età da prepensionamento alla guida di una delle più belle cavalcate della storia del calcio. Una favola a lieto fine. Ma la carriera del “Ragno” è stata lunga, tortuosa e spesso non vincente. Spulciatevi Wikipedia.

Tutti infatti si ricorderanno di José Mourinho sbeffeggiare il povero Ranieri sia per non sapere l’inglese sia per non aver vinto niente di importante, alla fine. Beh, tutti i torti non ce li aveva, e la mia passione per lo Special One in alcuni momenti ha fatto traballare anche la simpatia per il tecnico romanista. A volte però possono capitare eventi inaspettati di grande portata, proprio come quello che è successo nel bel mezzo dell’Inghilterra operaia nel grigiume delle Midlands. Un vero e proprio ciclone imprevisto anche ai meteorologi più arguti.

Il sottoscritto, però, un debole per Ranieri ce l’ha sempre avuto. Fin da quando arrivò a Firenze nel 1993 a guidare la Fiorentina di Cecchi Gori, di cui, ahimè, croce e delizia, sono tifosissimo. Chiusa l’esperienza al Napoli arriva a guidare una Viola retrocessa e nel giro di tre anni si piazza al 4° posto in campionato, porta a casa una Coppa Italia e anche una Supercoppa Italiana. Quella del famoso “Irina te amo” urlato a squarciagola da Batigol.

Qualche malelingua diceva si portasse a casa pure la moglie del Presidente, ma non vogliamo entrare in dettagli scandalistici anche perché, questa, è la storia di un bravo romanziere che fa emozionare ed elevare lo spirito e l’anima.

E non vogliamo neanche ripercorrere tutta la carriera di Ranieri analizzando cosa ha raggiunto, dove e con chi, e magari giustificando o meno il che sia o non sia un vincente. A noi questo non interessa. A noi interessa la favola delle foxes, ma soprattutto urlare ai quattri venti che se il Leicester sta lassù, stavolta è proprio grazie a Ranieri e alla sua oculata saggezza, voglia di lavorare e soffiare serenità a 22 ragazzi che certo non pensavano a Scudetto e Champions League.

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Fino a due anni fa questa squadra navigava mestamente in serie B e quest’anno il nuovo presidente thailandese aveva chiesto a Ranieri i 40 punti per salvarsi. 39 li ha fatti solo nel girone d’andata. Era lecito continuare a sognare. E abbiamo fatto bene a farlo. Quest’estate andremo a Leicester a farci una foto in Ranieri Square, sì perché pare proprio che i cittadini vogliano intitolargli una piazza.

Roba da non credere fino a poco tempo fa, e noi saremo fieri, per una volta, di fare gli italiani medi, con il bastone da selfie in mano e con una grande gioia nel cuore. E soprattutto con la consapevolezza che questa storia trascende il calcio, lo sport e qualsiasi altra forma di agonismo fine a sé stesso. Sono cose che fanno bene agli esseri umani.

Caro Claudio, io ti voglio bene.

Fær Øer Kingdom

di Giuseppe Zotti

Come può una nazionale semiprofessionistica di un arcipelago posto fra la Scozia e l’Islanda decidere le sorti della Premier League?

Effettivamente, quando il 14 novembre 2014 le Fær Øer sconfissero per 1-0 a domicilio la Grecia, l’unica cosa a cui i calciatori faroesi avranno pensato sarà stato di festeggiare degnamente la loro impresa, ma mai si sarebbero immaginati di aver dato una svolta alla carriera di un allenatore e alla storia di un’intera città. Il mister in questione è – ovviamente – Claudio Ranieri, il quale aveva iniziato ad allenare la Grecia nel luglio 2014, con la nazionale ellenica reduce da un buon Mondiale, dove aveva perso solo ai calci di rigore agli ottavi contro il Costa Rica.

La sua avventura non avrebbe potuto iniziare peggio: sconfitte interne con Romania e Irlanda del Nord, inframezzate dal pari in Finlandia; la sfida con le Fær Øer aveva pertanto già il sapore di ultima spiaggia, anche se tra le due formazioni sembrava non esserci comunque storia, visto che basandosi sul ranking FIFA sarebbe stato come se la Germania affrontasse Timor Est.

D’altronde, basta guardare l’undici titolare ospite, che aveva giocatori militanti in squadre danesi e scozzesi (qudo va bene) oppure in selezioni locali come il Vikingur Gøta, l’EB/Stremyur o l’HB di Tòrshavn, che pur essendo il club della capitale, ha uno stadio senza impianto di illuminazione: un problema non da poco, in un arcipelago che in inverno vede la luce per massimo 6 ore. Inoltre, a parte il portiere Gunnar Nielsen, il quale poteva vantare una presenza in Premier League (primo faroese a riuscirci) con il Manchester City, nessuno aveva militato in campionati di medio-alto livello.

La prima frazione di tempo è piuttosto scialba; l’unico greco che prova a mettere in difficoltà gli avversari è Christodoulopoulos, ma per i tifosi ellenici non è certamente sufficiente: al termine dei primi 45 minuti i fischi piovono abbondanti, anche perché le Fær Øer trovano pure il tempo di rendersi pericolose due volte, prima con Hendriksson e poi con Edmundsson, che si vede negato il gol da un ottimo Karnezis.

Nella ripresa la Grecia traballa per poi crollare: un velenoso rasoterra dal limite di Benjaminssen, capitano della squadra e falegname nella vita quotidiana, colpisce il palo; dopo dieci minuti Edmundsson devia una palla vagante in area, trasformandola nel vantaggio ospite.

Ora chiaramente i greci hanno il dovere di attaccare, e fra le numerose occasioni vanno vicini al pari con l’attivissimo Kone, che spedisce alto un tiro di controbalzo dal limite dell’area piccola, e poi, all’89°, colpisce in pieno la traversa su suggerimento di Christodoulopoulos: quel legno sarà la fine delle speranze di evitare una disfatta clamorosa, e dell’avventura di Ranieri.

L’esonero dell’allenatore più celebrato di oggi, tuttavia, non toglierà le castagne dal fuoco alla Grecia: al termine delle qualificazioni le vittorie saranno soltanto una, raggiunta quando la matematica l’aveva già esclusa dall’Europeo, mentre i faroesi vinceranno pure al ritorno per 2-1.

Insomma, è facile ipotizzare che anche se quella partita fosse finita diversamente, Ranieri sarebbe stato comunque sollevato dall’incarico; ma è bello pensare che tutto sia nato da una squadra che, contro tutti i pronostici, abbia giocato, vincendo, a Davide contro Golia, e chissà, magari dando l’ispirazione giusta al Nostro per entrare nella Storia. Finalmente da vincitore.

Orizzonti di gloria

di Simone Viaro

Nell’universo pallonaro – dominato da un realismo tanto implacabile quanto atroce, nel quale i fantastiliardi di insipienti sceicchi la fanno da padrone e i sogni sono aborti da sacrificare sull’altare della concretezza alle prime luci dell’alba – si è aperta una minuscola breccia dominata dall’intangibilità, un’intercapedine in cui l’impensabile e l’impensato trovano diritto di cittadinanza, affrancandosi dalle asfissianti pastoie della logica.

Per farla semplice, succede che il piccolo e vituperato Leicester – guidato dall’italianissimo Claudio Ranieri – ha rivoltato come un calzino quel moloch di incrollabile conservatorismo che è il calcio inglese finendo per portare la cenerentola delle Midlands sul tetto del campionato.

Dell’unicità irripetibile degli accadimenti si è già scritto e detto praticamente tutto. Sviscerate in maniera minuziosa le finalmente riscoperte tattiche del mister romano riportato sugli scudi dopo annate da paria, si è esaltata la garra e la compattezza degli undici uomini in campo cavalcandone giornalisticamente le biografie.

La genesi working class del cannoniere Vardy, l’ubiquità apparente del mastino Kanté e le giocate funamboliche del fantasista algerino Mahrez diventano Topoi immancabili, etichette cult già indivisibili dal lemma “Leicester”; Il tutto, tra una pioggia di hashtag passeggeri, fotomontaggi improbabili e una sequela interminabile di increduli endorsement da parte di sportivi e non.

Poco importa se la finzione va ad inficiare la verità: in questa favola moderna tutto fa brodo, il vero e verosimile vanno ad assottigliarsi in un unico grande canzoniere di aneddoti, con la sola conseguenza di gonfiare la portata immaginifica dell’impresa che ormai travalica i confini dello sport in senso stretto. Dove non v’è l’eroe, lo si crea, modellandone la biografia a proprio piacimento e in favore del pubblico.

Da osservatore appassionato, in tutta sincerità, può essere complesso ricacciare in gola la repulsione provata nei confronti di chi – totalmente avulso alle vicende calcistiche – si scopre tutto ad un tratto irrimediabilmente affascinato dalla vicenda Leicester: vorremmo invece, noi fanatici – ergendoci quindi a guardiani autoproclamati di una fede senza Dio – salvaguardare gelosamente questo nostro feticismo dalle ingerenze di chi pretende a gran voce un posto nel capiente carrozzone dei vincitori.

Tralasciando gli snobismi, però, traspare una assoluta seppur semplice verità che non possiamo esimerci dal rilevare: abbiamo tutti un grande, enorme bisogno di Leicester City.

Del suo esser baluardo, forse l’ultimo, dinnanzi all’arroganza del potere e alle asperità dell’esistenza; questo gruppo di meravigliosi underdog ci insegna che anche se si è apparentemente indifesi e screditati – credendo in se stessi – esiste sempre un modo per superare gli ostacoli. Si potrebbe dire, estremizzando un po’ la cosa, che si trova un po’ di Leicester in tutti noi: ci siamo tutti sentiti capitan Morgan “tragico mammone, ciccione depresso”, o almeno una volta nella vita, i nostri sforzi sono stati sminuiti come nel caso dell’eterno secondo Ranieri.

Questo successo rappresenta inoltre il fiore all’occhiello del multiculturalismo applicato non solo sulla carta: in un’epoca di xenofobia, troppe volte grottescamente sottaciuta, la presenza nel solo undici titolare dove sono rappresentate ben sette nazionalità diverse. No, non si tratta di una barzelletta, ma della trasposizione di quanto è già presente nel tessuto cittadino da due generazioni. Se poi pensiamo che l’artefice di questo miracolo è un ultra-sessantenne ammirato per la sua correttezza ed educazione, caratteristiche quasi mai abbinate a noi italiani, il ribaltamento è completato.

Per questi carneadi vestiti di blu si è sperato e tifato – lasciandosi sopraffare da una commozione d’altri tempi – ci si è stretti e fatto fronte comune come raramente succede persino nello sport; grazie a The Tinkerman e ai suoi ragazzi chiunque nutrisse un bisogno d’appartenenza, sperasse ancora in un calcio migliore o non ha mai smesso di credere nei sogni irrealizzabili, ora si sente meno solo.