Nel nome del padre: Sandro Mazzola, il fenomeno inatteso - Zona Cesarini

Nel nome del padre: Sandro Mazzola, il fenomeno inatteso

Questa è la mia maglia; tienila, perché sei degno di tuo padre”. (Ferenc Puskás, dopo la finale di Coppa dei Campioni 1964)

È il 1942, quando in pieno conflitto bellico un ex marinaio appena assunto come operaio dalla FIAT in pieno caos produttivo da armamenti bellici, sposa a Torino l’autoctona Emilia Ranaldi, che di lì a pochi mesi avrebbe dato alla luce uno dei più forti giocatori di calcio della storia italiana. Non che il marito non fosse capace: già, perché quel regazzone della provincia milanese che fino a poco tempo prima giocava per il dopolavoro dell’Alfa Romeo era nientemenoche Valentino Mazzola, in procinto di diventare faro e leader emotivo della più grande squadra che si sia mai vista in Italia: il Grande Torino.

Valentino è appena passato dal Venezia al Torino per una cifra al tempo considerata scandalosa“, e alterna turni di 10 ore al Lingotto con sfiancanti allenamenti alla Società Civile Campo Torino, fondata vent’anni prima dal Conte Cinzano, noto imprenditore nel campo degli alcolici. All’epoca fare il calciatore non era considerato molto più che un hobby, tanto che a guerra finita – quello che era uno dei migliori 5 giocatori al mondo – per arrotondare si vede costretto ad aprire un negozio di articoli sportivi, nel quale vende palloni di sua stessa fabbricazione.

Valentino & Sandro Mazzola nel negozio di famiglia.
Valentino & Sandro Mazzola nel negozio di famiglia

Nel frattempo, oltre alla Seconda Guerra Mondiale si conclude pure la storia tra i coniugi Mazzola, che devono affrontare un problema tanto inusuale per l’epoca quanto gravoso: ovvero con chi andranno a vivere i due figli Sandro (nato nel ’42) e Ferruccio (classe ’45)? Perché in fin dei conti non è sufficiente guidare la squadra più forte al mondo per dare tranquillità economica ed emotiva alla propria famiglia.

Dopo varie discussioni Sandro finisce a vivere col padre, mentre il neonato Ferruccio rimane a vivere nel torinese con la mamma, adeguatamente supportata dalla famiglia di Tulèn (soprannome di Valentino, che in dialetto significa “barattolo di latta”, affibiatogli per l’abitudine che aveva da ragazzino di calciare ciò che trovava in strada), imbarazzata dalla separazione e desiderosa di salvare le apparenze. Così Sandrino diventa mascotte del Grande Torino, vivendone senza troppa cognizione di causa l’ascesa e i trionfi.

Quello che pare un vero e proprio sogno ad occhi aperti viene bruscamente interrotto il maledetto 4 maggio del 1949, giorno del drammatico disastro di Superga. Sembra che sia proprio Valentino ad insistere a nome della squadra affinché l’aereo riparta dallo scalo di Barcellona alla volta di Torino, vincendo la reticenza dei piloti preoccupati per le brutte condizioni metereologiche che avrebbero trovato all’atterraggio in Piemonte.

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Il Grande Torino nel 1948-49

Il resto è purtroppo cronaca: forse s’è trattato di una rottura dell’altimetro (che pare segnasse 2000 piedi invece dei 600 scarsi effettivi), o forse di un errore del pilota – che pensava d’avere la collina di Superga sulla destra mentre ce l’aveva davanti -, ma fatto sta che l’Italia in un’unica notte di nebbia ha perduto 10/11 della Nazionale, oltre che un gruppo di grande spessore umano. Ferruccio e Sandro, di colpo, si trovano invece orfani di padre.

Lo choc è talmente forte per l’opinione pubblica italiana, scatenatasi in dibattiti sulla sicurezza degli spostamenti aerei, che la Nazionale l’anno seguente si reca ai Mondiali del Brasile a bordo di una nave. Sopravvive alla tragedia Ferruccio Novo, amatissimo presidentissimo del Grande Toro (il secondogenito dei Mazzola era stato chiamato così in suo onore), che non aveva preso parte al viaggio perché influenzato. I ricordi di Sandro riguardo la tragedia sono tutt’oggi tanto dolorosi quanto poco nitidi:

“Non mi dissero nulla, non mi raccontarono cos’era successo. So solo che da un giorno all’altro portarono me e mio fratello via dal paese di papà. Mi dissero tutto solo dopo una settimana: so solo che non capivo perché mio padre non ritornasse a casa come al solito, stanco dopo una giornata tra il negozio e il campo”.

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I rottami dell’aereo del Torino

Così, Sandro va a vivere con la madre e il nuovo compagno. Non che la cosa fosse così scontata: il 20 aprile del ’49, a pochi giorni dalla tragedia di Superga, Valentino Mazzola aveva infatti sposato in Austria una ragazza appena maggiorenne; visto che la legge italiana non contemplava il divorzio ma solo la separazione, per l’annullamento del matrimonio precedente Valentino si era dovuto rivolgere ad un tribunale romeno. Agli occhi della legge, la ragazza aveva dunque più diritti di custodia di quanti ne avesse la madre biologica.

Un tribunale di Milano fa però valere le ragioni di mamma Emilia, e Sandro è così libero di (ri)accasarsi nella casa in cui era nato e cresciuto. Il patrigno si rivela persona rispettabile e di buon cuore, tanto che sarà un saldo punto di riferimento per tutta la vita dei fratelli Mazzola, che non esiteranno a coinvolgerlo in decisioni critiche o banali, extra-calcistiche e non.

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Valentino (in Nazionale) e Sandro Mazzola a bordo campo

Ciononostante, la presenza del padre continua ad influenzare la vita dei due ragazzi, in virtù dell’aurea di leggenda che già circonda la sua figura e che la tragedia non ha fatto altro che ingigantire. Valentino è ormai impresso nella memoria collettiva non più come un calciatore di grido, bensì come un eroe, un mito popolare. Bello, magnetico ed empatico, Valentino aveva continuato ad essere ammirato e rimpianto da ogni tifoso italiano quasi si trattasse d’un fratello perduto nella recente Guerra, rendendo più difficile la vita della famiglia di mamma Emilia, bloccata in un perenne limbo luttuoso:

“Eppure mi ricordavo poco di papà. Ricordo la sua mano sulla testa: quando si entrava al Filadelfia e io ero la mascotte del Toro, mi sembrava che noi due insieme potessimo spaccare il mondo. Ero già convinto, con la presunzione dei bambini, di essere un buon calciatore perché segnavo su rigore a Bacigalupo, ma segnavo perché lui faceva passare apposta i miei tiri. Fu dopo che il cognome divenne più pesante”.

È proprio per quel cognome ingombrante se almeno inizialmente Sandro decide di dedicarsi alla pallacanestro, dove pare destreggiarsi senza troppi patemi: essere continuamente paragonato ed accostato ad una leggenda, semplicemente, ad un certo punto dev’esser stato veramente troppo. Il ritorno al calcio giocato dei fratelli Mazzola lo si deve al convincimento da parte di una figura tanto particolare quanto inattesa: quella di Benito Veleno Lorenzi, ex compagno di Valentino in Nazionale nonché ottimo attaccante dell’Inter del periodo post-bellico.

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Benito Lorenzi mentre litiga con Gianpiero Boniperti

Tanto tosto in campo – il soprannome lo si deve alla madre, che s’era subito resa conto dell’esuberante carattere del figlioletto – quanto di buon cuore fuori, è lui a prendersi indirettamente cura dei figli di Valentino, saldando un debito d’onore risalente a parecchi anni prima: Lorenzi infatti venivamente costantemente chiamato in Nazionale, senza di fatto giocare mai. Questo almeno finché non era intervenuto Mazzola Sr., che aveva convinto l’allenatore a dare una chance a quel toscanaccio poco avezzo a seguire le regole. Dirà di lui Sandro:

“È l’unica persona che si ricordò che mio padre aveva lasciato due figli. Era un burlone: amava scherzare fuori dal campo, e dentro era completamente fuori controllo. Ma era una persona eccezionale e di ottimo cuore. Certo, come si diceva era solito lasciare l’anima negli spogliatoi”.

A questo punto, è naturale chiedersi come sia riuscito a venir fuori un giocatore tanto corretto e signorile sia dentro che fuori dal campo come è sempre stato Sandro Mazzola, se questi come guida da seguire in gioventù ha avuto un ex militante della Repubblica Sociale Italiana, odiatissimo dai colleghi per il trash talking in toscano stretto e l’inquietante abitudine di strizzare i testicoli del diretto avversario in procinto di saltare per un contrasto aereo.

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Benito Lorenzi con Lennart Skoglund

Uno che passa un’intera partita ad apostrofare Boniperti col nomignolo di Marisa, e che decide in un’amichevole contro l’Inghilterra di abbattere in tackle il gigante John Charles al grido di “la tua Regina è una prostituta!, non conoscendo però la provenienza di quest’ultimo: Swansea, Galles meridionale. Anche se le imprese più leggendarie di Veleno rimangono lo spicchio di limone sistemato sotto la palla posizionata sul dischetto da Cucchiaroni in un derby cittadino (con clamoroso errore del milanista), e il calcio in culo rifilato ad un arbitro brasiliano durante un match dei Mondiali del 1954.

“Nonostante tutto quello che si raccontasse di lui, era un fervente cattolico. Non saltava mai una messa, e spesso ci costringeva ad andare con lui. Disse di aver mancato ad una sola messa durante la sua intera carriera, e solo perché non era stato in grado di trovare una chiesa nel paesino siciliano in cui si trovava. L’episodio del limone lo confessò ad un prete, che per fortuna era interista e si fece due grasse risate”. (Sandro Mazzola)

Ad ogni modo, è Benito che convince i due Mazzola a riprendere col calcio, nonostante Sandro non avesse sfigurato in un provino con la Simmenthal Milano di Rubini e Riminucci (pallacanestro). La prima squadra ad accoglierli è la Milanesina, piccola squadra dell’oratorio vicino casa. È sempre grazie a Veleno che i due ottengono pure un lavoretto come raccattapalle nei match casalinghi dell’Inter di Foni; infine, è sempre Lorenzi che accompagna Sandrino al provino con l’Inter, che ufficialmente lo aggrega alle sue giovanili nel 1956: a neanche 14 anni, Sandro entra a far parte di quella che sarebbe stata la sua famiglia per circa due decenni.

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Un giovanissimo Sandro Mazzola sulla sinistra

Come allenatore della Primavera Sandrino trova un certo Giuseppe ‘Pepp’ Meazza, che già conosceva per la curiosa abitudine di quest’ultimo di unirsi di tanto in tanto alle partitelle d’allenamento dei giovanissimi. È proprio il Pepp che fa da mentore al giovane Mazzola, e che lo rincuora con un paternalistico “Ho capì tütt, Sandrino, lassa stà”, dopo una terribile prestazione contro le giovanili del Torino, influenzata dalla visita prima della gara all’armadietto che fu del padre.

“Meazza però sapeva esser duro, all’occorrenza. Ricordo una partita al campo Bramante, giocavo ala destra, piccolo e mingherlino com’ero a 16 anni. Un compagno, Galli, non mi chiudeva mai il triangolo. Gli ho gridato dietro qualcosa di poco carino. A fine partita Meazza mi fa. “Ohei ti, Pastina, mi ho vinciü dü campionà del mond e ho mai vôsà adré a un mé compagn. Se te ciapi un’altra volta a criticà un compagn, ti te giughet pü al balùn”.

Ciononostante, il legame coi colori nerazzurri sembra saldarsi sempre più. Anche se la storia ha rischiato di prendere un’altra piega nel 1961, quando un 19enne Mazzola ottiene un provino col Torino, deluso dalla poca considerazione con cui lo tratta il neo tecnico dell’Inter Helenio Herrera. Ma, ancora una volta, le stelle si schierano con l’Inter e manifestano la loro volontà attraverso due curiosi eventi: innanzitutto, il Torino non ritiene Sandro abbastanza forte e decide di scartarlo (l’Inter non si sarebbe opposta alla rescissione).

Inoltre, arriva finalmente l’insperato esordio coi colori nerazzurri: il 10 giugno 1961, Angelo Moratti protesta contro la FIGC schierando la Primavera nel discusso re-match contro la Juventus. Ed è proprio in quell’occasione che Mazzola riesce finalmente a mettersi in evidenza davanti al suo allenatore, segnando pure il gol della bandiera nella debâcle nerazzurra (9-1 il risultato finale).Sandro-MazzolaÈ lo stesso Mago che lo convince a cambiare ruolo: Mazzola passa dunque dal ruolo di regista a quello di punta interna. Schierato più avanti, riesce a sfruttare meglio quella che è la sua arma migliore: il dribbling secco con annessa rasoiata a fil di palo. Non che Mazzola diventi subito un clamoroso crac: se quella stagione gioca appena una partita, le occasioni di mettersi in buona luce non arrivano a grappoli neanche in quella successiva.

Ma Mazzola ha appena compiuto 21 anni, decide di rischiare per aspettare il suo momento. Da subito, Herrera si prefissa di rendere Mazzola un miglior atleta: i duri allenamenti vanno di pari passo con una dieta iper-calorica a base proteica, che però non sembra sortire alcun effetto effetto sul figlio di Valentino: dopo 6 mesi, infatti, Mazzola è aumentato di soli 3 etti, tanto che alla fine l’argentino decide di tenersi così com’è quel ragazzetto gracilino che sembra danzare col pallone tra i piedi, ma che ancora non lo convince pienamente.

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Mazzola con Helenio Herrera

Considerando tutta questa diffidenza, non sorprende che presto si sparga la voce nell’ambiente che ad imporre la presenza in campo di Mazzola fosse proprio il presidentissimo Angelo Moratti:

“Il presidente Moratti era venuto a Bologna a vedere una partita del campionato riserve. Io avevo fatto un grande gol e lui mi aveva imposto a Herrera. Guadagnavo 40.000 lire al mese e in casa di soldi ce n’erano pochi, nonostante i sacrifici del mio patrigno, una persona eccezionale e di mia mamma. Dopo le prime partite da titolare mi chiamò la segretaria del presidente per il contratto. Moratti sapeva tutto di me e alla fine mi disse: 13 milioni di ingaggio vanno bene? Stavo per svenire. A casa, mia mamma mi disse: te capì mal, te se sunà come una campana”.

Ma per alcuni anni continua ad essere visto con scetticismo: nessuno pare pienamente convinto delle sue potenzialità: “quel magrettino lì se si chiamasse Brambilla sarebbe ancora all’oratorio”, è una delle frasi tipiche che si potevano ascoltare sugli spalti di San Siro. “Quello lì ha solo il nome, di suo padre, il resto è fuffa”. “Quel fil di ferro non è da Inter”. È questa, l’aria che si respira attorno alle sue prime partite interiste: un humus di malumore ed invidia che lo accompagna nelle giocate durante i primi tempi, rendendolo contrariamente alle aspettative di tutti, ancor più forte e determinato.

Inizio stentato o meno, scetticismo della curva o meno, Mazzola lentamente s’impone come un punto fermo della nascente grande Inter di Herrera, osando e riuscendo in giocate sempre più complesse ed ardite, e sviluppando al contempo una capacità tattica ed un’umiltà degni di nota per un ragazzo di quell’età. Quando si ritira nel 1977, diciassette anni dopo l’esordio, il suo tassametro conta quattro scudetti (1962-63, 1964-65, 1965-66 e 1970-71) e 116 gol ufficiali in 415 apparizioni.

E anche in Europa i successi non tardano ad arrivare: vince la Coppa dei Campioni nel 1964 e bissa la conquista nel 1965, anno in cui è anche capocannoniere del campionato: a 23 anni appena compiuti, Mazzola è uno dei più forti giocatori europei in circolazione, e non più l’erede raccomandato di Valentino.f3904120-7b16-47ea-8335-37f819c8ed01.634401251436425490Nel frattempo, nel 1963 arriva pure l’esordio con la Nazionale. Con la quale gioca per 11 anni, vincendo pure l’Europeo casalingo del 1968 . Anche se il ricordo di Mazzola in Nazionale è inevitabilmente legato all’inspiegabile e divisiva staffetta al Mondiale del 1970 che lo coinvolge con Gianni Rivera:

“Ci ricordano solo per la staffetta. Eppure abbiamo giocato insieme 50 partite, e si ricordano solo di quelle tre in cui ci siamo dati il cambio: il solito vizio italiano. Fra l’altro, quella staffetta è nata da un mal di pancia: alla vigilia della partita con il Messico, passai la notte in bagno. Il giorno dopo, Valcareggi capì che potevo giocare solo un tempo e programmò la staffetta. Curioso: si è parlato tanto di una cosa nata per una questione di stomaco…”.

Mazzola è in campo pure nel Partido del siglo, la semifinale contro la Germania, e nella sconfitta in finale con il Brasile; anche se nel primo caso viene sostituito, mentre nel secondo – dopo un alterco negli spogliatoi con Valcareggi a seguito del gesto di Mazzola di scagliare in aria gli scarpini, convinto che sarebbe stato sostituito all’intervallo (cosa che sarebbe successa, non fosse stato per l’orgoglio del tecnico) – riesce curiosamente ad evitare l’avvicendamento a scapito del povero Boninsegna. Dirà Sandro di quella finale:

“Fino al 2-1 di Gerson abbiamo retto, forse con qualche occasione in più. Poi ci è arrivata addosso la stanchezza della Germania. Dopo il 4-3, in albergo, qualcuno dei nostri ha pisciato sangue. La gente non immagina cosa significhi giocare in altura. In 4 anni eravamo usciti dall’inferno, avevamo vinto gli Europei, eravamo secondi nel mondo dietro a un grandissimo Brasile, sportivamente avevamo fatto qualcosa di importante e tutto in Italia veniva ridotto a quei sei minuti. Se i pomodori dopo la Corea li capivo, quelli del ’70 non li ho mai accettati”.

Nel 1971, Mazzola si prende il lusso di sfiorare la conquista del Pallone d’oro, finendo secondo nelle votazioni dietro al genio olandese Johan Cruijff. È sempre in quell’anno che eredita dall’amico-nemico Rivera pure il soprannome di Abatino.uff157_1977Coniato dall’indiscusso e indiscutibile genio del giornalismo Gianni Brera, che lo aveva mutuato dal vocabolario italiano settecentesco, il termine sta ad indicare quei giocatori “tanto belli a vedersi, quanto poveri di co­raggio fisico e vigore atletico”. Il termine è piuttosto ingiusto se accostato a Mazzola che, se è vero che ha sempre brillato più per le qualità tecniche che per quelle atletiche o di leadership, ha invece sempre messo l’anima in ogni giocata, guidando più a gesti che a parole i compagni. Interpellato a proposito, Sandro si è sempre limitato a dire che:

“A quei tempi c’era un gran rispetto dei ruoli: non mi sarei mai permesso di andare a chiedere spiegazioni a Brera, col quale parlavo spesso e volentieri anche a riguardo di mio padre. Secondo lui, era il miglior centrocampista che avesse mai visto in azione. E ci credo: mio padre era uno che sapeva difendere, ma capace di vincere la classifica cannonieri. In quel senso era molto più completo di me. Anche se poi me la sono cavata, penso”.

Nel 1968 Mazzola fonda con Gianni Rivera e De Sisti pure il Sindacato dei Giocatori, per opporsi allo strapotere dei presidenti, in grado secondo loro di “far tranquillamente smettere qualcuno di giocare, se questi si fosse opposto alla loro volontà”. Ancora si ricorda degli incontri segreti a Vicenza, che, se scoperti, avrebbero significato vita durissima per i colleghi meno famosi.045 MazzolaSe c’è una cosa cui dare atto a Sandrino, è quella d’essere sempre stato uno con le idee chiare e le risposte pronte: se gli chiedete se ha mai avuto voglia di lasciare l’Inter, invece che rispondervi direttamente si limiterà a commentare che è stato capace di dire “no” a Boniperti e Rocco. D’altronde, era troppo forte il legame formatosi coi compagni della grande Inter, che spesso ricorda con affetto:

“Dicevano che eravamo poco amici, ma non è vero. Il problema erano i ritiri; siccome eravamo sempre insieme quando Herrera, che era un cerbero, ci lasciava liberi, ognuno tornava a casa. Ma in campo eravamo uniti, un gruppo di ferro. Una volta contro il Borussia Dortmund, per difendere Jair, cercai di picchiare due tedeschi che erano il doppio di me.”
Colori che ha difeso pure da dirigente una volta ritiratosi, durante il mandato presidenziale di Massimo Moratti, figlio di colui cui deve quasi tutto. Anche in questo ruolo si è sempre distinto per i toni moderati e la classe, che sono sempre andati di pari passo con la faccia tosta e la decisione. Si deve a lui il miracoloso acquisto dal Barcellona di Ronaldo, che pure pareva destinato ad altri lidi. Sostituito da Gabriele Oriali a fine millennio, si è poi (casi del destino) accasato al Torino fino al 2003, prima di dedicarsi all’attività di commentatore sportivo.Italia-Brasile_-_Pelé_+_Sandro_Mazzola

Baffi al vento, continua ad apparire con tutta la sua saggezza in vari programmi in giro per la penisola, ed è balzato alle cronache pochi anni fa per una vicenda a dir poco spiacevole: è il 2004 quando Ferruccio Mazzola pubblica il controverso libro “Il terzo Incomodo”, nel quale racconta come Herrera fosse solito somministrare sostanze dopanti non meglio precisate ai suoi calciatori prima delle partite.

Ferruccio racconta che Helenio Herrera dava a tutti, dopo averle testate sui calciatori più giovani, una pasticca da sciogliere sotto la lingua. Ferruccio racconta di essere andato dal fratello maggiore per chiedere consiglio sul da farsi, e di come Sandro gli abbia detto di sputare la pastiglia di nascosto, così come facevano lui ed altri compagni veterani. Peccato che Herrera dopo un po’ si sia fatto furbo, cominciando a scioglierle direttamente nel caffè.

Sempre nel libro vengono elencati una serie di giocatori dell’Inter stroncati da giovani per le malattie più strane ed inspiegabili, a cominciare da Armando Picchi, il capitano della Grande Inter, morto a neanche 36 anni. È un fulmine a ciel sereno per la società che nel frattempo si sta ergendo a difensore del calcio pulito dopo le vicende di Calciopoli; Ferruccio viene quindi disconosciuto dal mondo interista, querelato da Facchetti ed emerginato dal sistema-calcio. E poco importa, che nel libro abbia sottolineato come pure nella Fiorentina e nella Lazio avesse ricevuto gli stessi identici trattamenti.SPO0605-59--473x264Il tradimento peggiore per Ferruccio arriva proprio dal fratello Sandro, che chiude i rapporti nel nome de “I panni sporchi si lavano in casa: perché render pubblica un’usanza comune a tutti i top team europei dell’epoca?!”. Il loro rapporto si ricomporrà solo nel 2012, poco prima della morte di Ferruccio, quando lo stesso Mazzola fa uscire un comunicato in cui sostiene la versione del fratello, rammaricandosi di averlo abbandonato proprio nel momento più complicato.

Ad ogni modo, questo poco o nulla toglie alla bontà caratteriale di un giocatore dalla classe sopraffina, una bandiera del calcio italiano più che dell’Inter, che per anni ha portato in alto, con orgoglio e talento, il pesante cognome che ha ereditato dal padre.

Sandro Mazzola, quello che nessuno aspettava ad alti livelli ma che, in fin dei conti, un posto nell’olimpo dei grandi se l’è meritato. Per la sorpresa di tutti, tranne che di Veleno Lorenzi e probabilmente del padre Valentino, che lo ha sempre osservato da lassù.

“Chi sa nen fè so mestè, ca sara la butega”. (Proverbio Torinese)