Il giorno della marmotta di Arsene Wenger - Zona Cesarini

Il giorno della marmotta di Arsene Wenger

Ogni giorno, sul percorso della zona 2 della Metropolitana di Londra, un tifoso dell’Arsenal si sveglia e sa che dovrà affrontare la stessa giornata. Come da undici anni a questa parte. E il tifoso dei Gunners ormai s’interroga angosciato: si può vivere in un eterno presente? O meglio, si può rimanere intrappolati in un loop temporale che danza col paradosso? Probabilmente sì, se il deus ex machina dietro il singolare fenomeno è un 66enne francese che da venti anni è alla guida della squadra londinese: Arsène Wenger.

2005/06. È la prima stagione in cui, silenziosamente quanto inesorabilmente, l’incantesimo ha preso il via. C’era ancora il vecchio Highbury, con la sua eleganza aristocratica, c’era Thierry Henry, vero mito del club, c’era perfino un’icona anni ’90 come Dennis Bergkamp. E soprattutto c’erano i tifosi dei Gunners, reduci da un secondo posto in Premier League ad un solo punto dallo United e vincitori della FA Cup. Insomma, nella tranquillità borghese della zona nord della City il supporter dell’Arsenal viveva la sua stagione di speranze, intrisa di una sensazione a metà fra sicurezza e sindrome da braccino del tennista.

Quello stesso tifoso, però, era del tutto ignaro che le successive dieci stagioni lo avrebbero relegato in un vero e proprio groundhog day calcistico: dopo la finale di Champions League, persa a 9 minuti dalla fine grazie ad un gol di Belletti (c’è qualcosa di più Arsenal di questo?), il campionato viene chiuso al quarto posto. Posizione da cui il team di Wenger si muoverà soltanto per scalare una posizione. Inevitabilmente. Senza via d’uscita. Emulando così lo stralunato Bill Murray nella commedia cult di Harold Ramis.

Quarto-quarto-terzo-quarto-terzo-quarto-terzo-quarto-quarto-terzo e un inutile secondo posto strappato all’ultima giornata nella stagione del miracolo-Leicester: ha la stessa cadenza regolare di un riff alla Angus Young senza, però, la carica elettrica della chitarra degli Ac/Dc. E lo stesso schema si ripropone come una costante matematica nel cammino in Champions League: ottavi-quarti-semifinale-quarti-ottavi-ottavi-ottavi-ottavi-ottavi-ottavi. Un destino ineluttabile.

La nemesi dell’adagio pop di Nick Hornby che, nel magistrale Febbre a 90°, parlando del suo Arsenal prefigura l’arrivo di una nuova stagione come panacea di tutti mali; o come rilancio di un vago sentimento di speranza per quanto irrazionale.

Invece, superata la delusione della Champions persa in rimonta, neanche una nuova annata può servire. Perché da quell’esatto momento si apre un limbo infinito: una scala di Penrose su cui sale il tifoso biancorosso. Ignaro del fatto che mai potrà scendervi, o sciogliere il paradosso in cui si trova ingabbiato.

Wenger rimane stabilmente alla guida del club, e non solo, dopo quella finale e una scia di stagioni da protagonista, consolida sempre più la centralità della sua figura nell’universo Gunners. È l’uomo vitruviano con una laurea in ingegneria venuto dall’Alsazia per dettare precise visioni tattiche, lanciare giovani fino al livello di star continentali e portare a casa trofei. Il tutto, ammantato di quell’allure alto-borghese da professore universitario che ha una cattedra in Economia, organizzazione e diritto dell’impresa.

Perché il suo Arsenal è davvero un’estensione plastica del Wenger-pensiero: ha segnato un’epoca lungo un decennio che abbraccia il primo scudetto (1997/98) fino alla serata di Parigi che aprirà il periodo d’oro del Barcellona di Rijkaard e successivamente del gioco di posizione di Guardiola. In questa lunga stagione, il mister alsaziano mette in bacheca tre campionati, quattro FA Cup e quattro Charity Shield, oltre alla finale di Champions. E il suo Arsenal si consolida come realtà ammirata e perfino imitata a più latitudini, dove nel vocabolario sportivo è ormai prepotentemente entrata l’espressione modello-Arsenal.

Eppure, proprio dal punto più alto della gestione di Arsène inizia il paradosso temporale-sportivo che relega i Gunners ad un altrove ovattato, seguendo un binario stagionale che ferma inevitabilmente alle solite stazioni: quarto o terzo posto in Premier, ottavi o quarti di finale in Champions. Una carriera ventennale che soffre di schizofrenia: i trionfi e le innovazioni del primo decennio e la lenta, sfiancante normalizzazione del secondo.

L’Arsenal di Wenger da avanguardia muta in retrospettiva, nonostante l’ingente budget a disposizione sul mercato, nonostante gli anni di transizione come quello dell’ultima Premier, nonostante il potere decisionale dell’alsaziano, nonostante il nuovo stadio e i nuovi sponsor. È la maledizione di Highbury, abbandonato nell’estate del 2006.

Il calcio dei Gunners è lì a dimostrarlo, con il suo 4-2-3-1/4-4-1-1, dogma dell’allenatore e canovaccio standardizzato perfino nel settore giovanile, in modo da creare una piccola officina di Wenger-players già formati sui dettami tattici richiesti dal tecnico al momento del salto in prima squadra.

Le transizioni rapide, il gioco offensivo basato su pochi e rapidi fraseggi corti, sull’attacco alla profondità degli esterni d’attacco e sulle sovrapposizioni di quelli difensivi, il portiere che deve saper impostare l’azione trovando l’ampiezza dei terzini, il centravanti fisico e generoso che sappia aprire gli spazi alle spalle dei difensori, una mezzapunta associativa che cerchi la rifinitura e una cerniera di centrocampo che sappia abbassarsi e scalare quando è in fase di non possesso. È tutto chiaro, lineare, asettico. Così come le stagioni che si susseguono secondo una sceneggiatura in fotocopia: buona partenza, periodo di rallentamento, crolli improvvisi e rinascita, costantemente tardiva ed illusoria.

Immaginarsi il purgatorio dantesco per poi applicarlo al massimo livello calcistico, dev’essere più o meno così. E pensare che quest’impostazione tattica e tecnica gli era valsa un posto nella storia del calcio d’oltremanica: nel 2003/04, infatti, l’Arsenal mutò in “The Invincibles”, unica squadra a vincere la Premier da imbattuta con un impressionante score di 26 vittorie e 12 pareggi. Un undici diventato cult, con la coppia d’attacco Bergkamp-Henry, gli esterni Ljungberg e Pirès e la linea a 4 da snocciolare a memoria: Lauren-Campbell-Touré-Cole.

The Invincibles

La parabola degli Invincibili e dell’Arsenal quale nuovo modello ispiratore in Europa, però, s’inceppa nelle successive stagioni. Inizia una sarabanda di acquisti miopi e di scelte errate a livello gestionale che – insieme ad un contesto nazionale in vertiginosa crescita, leggi alle voci Chelsea, United, City e Premier League in generale – fungono da detonatore per una stagnazione che, alla ventunesima stagione di Wenger alla guida dei Gunners, assume ormai contorni metafisici.

Soprattutto i nuovi calciatori che sbarcano nell’avveniristico Emirates sembrano destinati ad un beffardo gioco dell’oca: tre passi avanti e due indietro. Nessuna reale consacrazione in quella che un tempo era una fucina miracolosa di esterni offensivi di spessore internazionale. In quell’ultimo terzo di campo, dal 2006/07, si susseguono agli ordini di Wenger: Rosicky, Hleb, Júlio Baptista, Nasri, Bendtner, Adebayor, Walcott, Arshavin, Gervinho, Oxlade-Chamberlain, Cazorla, Podolski, Welbeck. Senza dimenticare il simbolo contemporaneo dei Gunners, Van Persie, e i due grandi investimenti Özil e Alexis Sánchez.

Al netto degli ultimi tre giocatori e del piccolo Mozart ceco, giocatore feticcio del tecnico, la batteria offensiva assemblata su indicazioni di Wenger si dimostra un malinconico luna park di vorrei ma non posso. Un rollercoaster che non genera più meraviglia né divertimento: come se fosse arrugginito nei suoi ingranaggi basilari. La giostra alsaziana brucia esterni offensivi, mezzepunte, ali, seconde punte: giocatori di talento, selezionati secondo il rigido dettame wengeriano dell’adattabilità ad un gioco di ripartenze, attacchi alla profondità e tagli veloci nello spazio.

Segnali di epifania per un tifoso dei Gunners

È il déjà vu che tormenta il tifoso dei gunners, destinato ad un Truman Show dal retrogusto sadico che, però, dopo più di un decennio non conosce svolte narrative o finali inaspettati. È tutto controllato, quietamente razionale: l’Arsenal fallisce sistematicamente gli snodi cruciali di ogni stagione, ma si qualifica sempre per la Champions – preliminari o meno – dove viene inevitabilmente eliminato agli ottavi, ogni quattro anni riesce ad alzare una FA Cup e Wenger guida la squadra con la consueta attitudine in bilico tra hybris e snobismo transalpino.

Gli stessi tifosi, esasperati dalla gabbia kafkiana in cui si trovano da un decennio, reagiscono. Ma è una reazione composta, borghese, sommessa come il tifo dell’Emirates (e di quell’Highbury un tempo sarcasticamente ribattezzato “the library”). Qualche striscione, qualche cartello che invita il vecchio demiurgo ad abbandonare la guida tecnica, qualche petizione online che chiede un nuovo manager, qualche raffinato gioco di parole tra Arsène, Arsenal e ancien régime.

Mai si oltrepassa la dimensione richiesta, mai si trasforma in protesta estrema o sollevazione popolare. Come un moderato ceto impiegatizio che spedisce timide mail di chiarimenti al proprio capo, che, imperturbabile, siede in panchina stretto nel suo look minimale ed immutabile al cambio di stagione. Come il protagonista di un noir a firma Jean-Pierre Melville.

In questa dimensione parallela, intanto, ha preso il via quella che dovrebbe essere l’ultima stagione di Arsène Wenger sulla panchina biancorossa. E se il primo colpo di mercato, il regista svizzero Granit Xhaka, sembrava prefigurare un cambiamento di rotta nelle priorità del manager francese, o almeno un’affascinante deviazione dal loop wengeriano, le insistenti voci sull’assalto milionario dei Gunners ad Alexandre Lacazette del Lione riportano l’Arsenal tra i vicoli del favoloso mondo di Arsène.

Sarebbe l’ennesimo giocatore offensivo dallo scatto bruciante e dai colpi improvvisi, che sa svariare sull’intero fronte d’attacco, adatto a muoversi in uno scacchiere che richiede un gioco di ripartenze, tagli in profondità e rapidi ribaltamenti di campo. Un talento affermato, ma non definitivamente esploso. Insomma, la summa del prototipo-Wenger: orpello non necessario, e per questo imprescindibile.

E anche se siamo ad agosto, a due settimane dal via, un pronostico sull’andamento e sul piazzamento finale nella Premier 2016/17 e in Champions si può già azzardare. Chissà cosa ne penseranno i tifosi dell’Arsenal. Ma a questo punto – forse – un’idea ce la siamo fatta.