La meglio gioventù: lo Zambia da Seul '88 alla Coppa d'Africa - Zona Cesarini

La meglio gioventù: lo Zambia da Seul ’88 alla Coppa d’Africa

Diciamolo forte e chiaro: al calciofilo medio le Olimpiadi fregano poco o nulla, visto che svolgendosi appena un mese dopo la fine degli Europei tolgono molto spazio alle notizie di calciomercato – che come ogni anno pari risente delle enormi plusvalenze createsi durante i tornei continentali o iridati – e, per di più, toglie energia agli under 23 della propria squadra del cuore convocati per i Giochi.

In un paio di casi (Seul ’88 e Sydney 2000), con il fatto che il CIO avesse programmato l’inizio delle Olimpiadi ben oltre l’inizio di agosto, chi non aspettava altro che la prima giornata di campionato fu costretto ad affrontare l’eresia massima: il rinvio della serie A fino all’inizio di ottobre.

Tuttavia il calcio ai Giochi ha sicuramente dei lati interessanti: per prima cosa, la partecipazione di selezioni under 23 permette di ottenere delle conferme su quel giocatore che si è già iniziato ad addocchiare e che è magari pronto per fare il salto di qualità, o – perché no? – su una squadra intera che è magari sul punto di sfornare una grande generazione di calciatori; senza contare il fatto che le squadre “piccole”, alle Olimpiadi, riescono sempre a regalare imprese assai improbabili.

Potremmo parlare del Giappone che vinse il bronzo nel 1968 a Città del Messico, dell’Iraq che seppur dilaniato dalla guerra raggiunse le semifinali ad Atene nel 2004; invece che occuparsi dell’Asia, tuttavia, è ancor più interessante concentrarsi sulle vicende di una nazione africana che nel 1988 molti italiani probabilmente non sapevano neppure dove si trovasse, ma che dopo quel 19 settembre finì sulla bocca di tutti: lo Zambia.

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La cerimonia di apertura dei giochi di Seul

I Chipolopolo (“proiettili di rame”) si erano guadagnati il diritto a competere a Seul dopo aver eliminato, in tre turni ad eliminazione diretta strutturati su incontri di andata e ritorno, Botswana, Uganda (eventi certamente non imprevedibili) e soprattutto il Ghana, che aveva come punto di forza il miglior calciatore ghanese dell’epoca: Tony Yeboah, che diventerà per due volte capocannoniere della Bundesliga per poi trasferirsi a giocare in Premiership con il Leeds United.

Il sorteggio, viste le nazionali presenti, fu più malevolo che benevolo: se infatti pescarono dall’urna una nazionale mediocre – quella del Guatemala – e una testa di serie assai pericolosa, ovvero l’Italia, fu la terza selezione, quella irachena, che avrebbe verosimilmente  dovuto determinare un eventuale passaggio ai quarti di finale; tuttavia l’Iraq appena due anni prima aveva disputato i primi, e unici, Mondiali della sua storia, e della sua rosa erano ben sette i reduci dal torneo iridato in Messico.

L’esordio avvenne proprio con la squadra araba: Ahmed Rahdi, molto probabilmente il più talentuoso dei calciatori arabi, trasformò un rigore che aprì le marcature; l’incontro terminò sul risultato di 2-2, che dimostrò come i proiettili di rame sembrassero attenersi rigidamente agli stereotipi che avrebbero caratterizzato per anni le nazionali di calcio africane: forti fisicamente, ma tatticamente disordinate e tecnicamente acerbe.

Il pareggio era tutto sommato un risultato positivo, anche se ora veniva la parte difficile. Ovvero la sfida con l’Italia, la quale aveva esordito contro il Guatemala con una vittoria che non ammetteva repliche: 5-2.

Da non dimenticare, inoltre, che quell’Italia aveva in rosa calciatori che avrebbero poi avuto un avvenire a dir poco roseo, come Ferrara, Evani, Rizzitelli e Pagliuca, più dei fuori quota di altissimo livello: Tassotti e Virdis (che avevano festeggiato pochi mesi prima l’unico scudetto del Milan sacchiano) e il portiere titolare Stefano Tacconi, numero 1 della Juventus.

Insomma, sembrava la classica partita senza speranze per lo Zambia, i cui giocatori militavano quasi tutti in squadre locali sconosciute ai più come i Nchanga Rangers, i Kabwe Warriors o i Power Dynamos; soltanto cinque militavano all’estero: uno in Svizzera al Sion, e i rimanenti in Belgio, due al Roeslare, uno al Cercle Bruges e uno – il più forte della spedizione, Charles Musonda – all’Anderlecht; nulla di paragonabile alla selezione azzurra, oggettivamente superiore dal punto di vista tecnico e dell’esperienza.

Tuttavia, quando l’Italia calcistica deve affrontare una nazionale coreana, o semplicemente disputare un torneo in quella penisola, tutto si complica. Come in una sorta di maledizione di Tutankhamon applicata all’Estremo Oriente: la partita avrà infatti un risultato a dir poco sorprendente.

All’Italia mancava Evani, rimpiazzato da Galia, ma questo di certo non rendeva la nazionale zambiana competitiva con i rivali azzurri: tuttavia, nonostante il primo tentativo sia proprio da parte italiana, con un colpo di testa di Carnevale di poco a lato, sono gli africani a salire subito in cattedra, prevalendo nel palleggio e approfittando del loro fisico, ben più abituato a giocare con 30 gradi al 40% di umidità.

Il gol del vantaggio, già da un po’ nell’aria, arriva nei minuti finali del primo tempo: Angelo Colombo perde palla nella metà campo dello Zambia, che con due passaggi arriva al limite dell’area di rigore, dove Kalusha Bwalya infila in corsa Tacconi: Zambia – Italia 1-0.

All’inizio della ripresa è lo stesso Colombo ad avere la possibilità di redimersi, ma il suo tiro a rimorchio su passaggio di Virdis finisce di poco oltre la traversa; è il preludio al raddoppio della selezione zambiana, che apre l’azione con una verticalizzazione in profondità di Derby Makinka fatta con l’esterno destro – considerando che gioca con i Profund Warriors è un gesto che suscita grandi applausi fra gli spettatori – che procura poi una punizione su fallo di Ferrara; di seconda per Tacconi, ma di prima secondo l’arbitro e secondo Bwalya, che batte il portiere bianconero con un pallonetto tagliato direttamente sul primo palo.

Dopo un gol simile, è probabile che i Chipolopolo si siano resi conto di poter vincere davvero la partita, perché sembra essere la classica giornata dove nulla va storto: tuttavia, l’orientamento prevalente è quello di controllare l’incontro, anche perché subire una rete rischierebbe di ricaricare le pile ad una nazionale azzurra veramente opaca; è un pericolo che comunque non sussiste, perché Virdis – capocannoniere del Milan scudettato – e Carnevale, lui sì incappato in un’annata con ben più ombre che luci, sono del tutto inconsistenti.

L’impalpabilità delle due bocche da fuoco dell’Italia segnarono il tracollo definitivo della formazione di Rocca: e se prima lo stadio si emozionava per un lancio di esterno destro, al gol del 3-0 segnato da Jonson Bwalya, scatta in un’ovazione emozionante e soprattutto meritata: la rete del numero 7 è infatti una perla di rara bellezza, con un tiro da 30 metri che, deviato dal capitano della Sampdoria Luca Pellegrini, si infila in porta e chiude in modo ancora più definitivo l’incontro.

Per l’undici di “Kawasaki” Rocca piove sul bagnato quando, dieci minuti dopo, lo stesso Pellegrini si infortuna, lasciando la squadra in 10 (il limite di sostituzioni doveva ancora arrivare a 3); pensare di dover limitarsi a perdere “solo” 3-0 con lo Zambia, un’ora e mezza prima, sembrava a dir poco un’utopia.

Ma ora non si riesce neppure in quello, perché allo scadere del tempo regolamentare uno dei numerosi contropiedi orchestrati dalla selezione africana trovano Kalusha Bwalya, tutto solo in area di rigore, trafiggere per la terza volta Sergio Tacconi per il 4-0 definitivo: un vero e proprio sogno ad occhi aperti per il numero 12 della selezione zambiana, che prima di passare al Cercle Bruges per l’irrisoria cifra di 25.000 dollari lavorava nelle miniere di rame di Mufulire.

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Derby Mandinka insieme a Kalusha Bwalya, assoluto protagonista dell’incontro

Le reazioni – almeno quelle della stampa italiana – che seguirono la versione in salsa calcistica della disfatta di Adua furono irritanti quasi quanto la sconfitta in sé: per prima cosa, il tipico paternalismo europeo, che dimostra sorpresa ogni volta che il nero travolge il bianco in uno sport che non sia l’atletica.

Poi il tipico populismo temporaneo e di pura circostanza in cui si invitava a “ripensare” alle cifre spese dal calcio nostrano rispetto a quelle dell’avversario vincente (come se il calcio zambiano producesse calciatori e campionati di un livello anche solamente avvicinabile a quello italiano), con un ovvio riferimento alla differenza di stipendi tra i calciatori delle due selezioni (“i nostri giocatori, che in campo corrono la metà di un zambiese e in un anno guadagnano 50 volte di più” strillava isterica “La Stampa” il giorno dopo, forse dimenticandosi che quattro dei tanto vituperati salari erano pagati dalla famiglia Agnelli, proprietaria anche del quotidiano torinese).

E un agghiacciante esercizio linguistico di Gian Paolo Ormezzano, più facile da digerire ai tempi della campagna d’Abissinia piuttosto che nella ruggente Italia dei tardi anni ’80 (“Ed è già deciso come s’hanno da chiamare questi neri del calcio che ci hanno rifilato la loro merce, riuscendo ad imporcela con volontà, insistenza, magari anche sofferenza: i “vu’ giucà?”); davanti a tutto questo, i meritati complimenti ricevuti da allenatori ed ex calciatori sembrano quasi sbiadire.

Dimenticando questa triste pagina di giornalismo sportivo, è il caso di concentrarsi sulle conseguenze nel torneo di quel 4-0 sia per lo Zambia che per l’Italia; se per i proiettili di rame una vittoria del genere non può che dare una grande iniezione di fiducia, che si traduce con un altro poker questa volta rifilato ad un avversario di levatura ben inferiore – il Guatemala – per l’Italia avrebbe potuto essere uno choc non indifferente: tuttavia, sapranno rimettersi in carreggiata con un 2-0 all’Iraq raggiunto senza troppe sofferenze, raggiungendo così la qualificazione ai quarti di finale come secondi.

E paradossalmente, l’aver sconfitto 4-0 l’Italia sarà per lo Zambia un grave errore: finendo primi, infatti, si trovarono davanti al primo incontro ad eliminazione diretta la Germania Ovest di Klinsmann, che perforò l’appagata nazionale africana per tre volte dopo un rigore trasformato da Funkel. Questo non impedirà ai calciatori zambiani di essere accolti come eroi a Lusaka, mentre l’Italia, una volta eliminata la Svezia, perderà sia la semifinale contro l’URSS che l’incontro per il bronzo contro la stessa Germania, che sistemò gli azzurri con un perentorio 3-0.

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Jürgen Klinsmann, tra i protagonisti del torneo olimpico di Seul

Il sorprendente poker sugli azzurri avrebbe potuto essere una bella storia da raccontare ai nipotini, anche perché da quelle Olimpiadi sembrava che il calcio zambiano fosse ormai in ascesa: nel 1990 era arrivato il bronzo in coppa d’Africa, e nel 1993 i Chipolopolo avevano serie possibilità di qualificarsi al torneo iridato da tenersi negli USA l’anno seguente.

Purtroppo, la possibilità di raccontare l’epopea d’oro del calcio dello Zambia si infranse nella maniera più drammatica il 27 aprile del 1993, al largo delle coste del Gabon: il volo Lusaka-Dakar precipitò infatti poco dopo il decollo dall’aeroporto di Libreville, trascinando con sé, oltre ai 5 membri dell’equipaggio, al presidente della federcalcio zambiana Michael Mwape, al giornalista Joseph Bwalya Salim, al commissario tecnico della nazionale e mito del calcio locale Godfrey Chitalu, ed al suo vice Alex Chola, anche 18 calciatori della nazionale, di cui ben 6 erano reduci dai giochi di 5 anni prima.

Il portiere titolare David Chabala e la sua riserva Richard Mwanza, e poi Wisdom Mumba Chansa, Samuel Chomba e Derby Makinka – quello che strappò un’ovazione allo stadio di Kwangju per il suo lancio di esterno – ed Eston Mulenga, centrocampista quasi sempre in panchina ma che aveva vissuto dalla tribuna quella giornata storica del 1988.

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Un DHC-5 Buffalo, il tipo di aereo che si inabissò al largo delle coste gabonesi

Per una pura casualità, i calciatori più forti scamparono a quel disastro grazie al fatto di militare in Europa: i due Bwalya, Kalusha – allora al PSV Eindhoven in cui militava insieme a Romario sotto la guida di Sir Bobby Robson – e Jonson – in Svizzera al Bulle – avrebbero raggiunto Dakar direttamente dall’Europa, una cosa più che sensata se si mette mano ad una qualsiasi cartina dell’Africa, mentre Musonda (che stava proseguendo la sua carriera all’Anderlecht) era infortunato e si sarebbe comunque risparmiato la trasferta.

Furono loro tre, ovviamente, a dover riprendere mano alla nazionale e a tentare una disperata corsa alla qualificazione ai Mondiali dovendo ripartire da zero nel girone triangolare che vedeva, oltre ai purtroppo rinnovati proiettili di rame e al Senegal, la presenza di una nazionale sicuramente competitiva come quella marocchina.

L’inizio fu certamente positivo, con una vittoria in rimonta per 2-1 proprio sulla selezione maghrebina, con Kalusha Bwalya a fare da mattatore grazie ad una doppietta; arrivarono poi due incontri con il Senegal, il primo pareggiato 0-0 a Dakar ed il secondo stravinto per 4-0 a Lusaka: per staccare il pass per USA ’94 sarebbe bastato un pareggio a Casablanca.

Non perdere e qualificarsi per il mondiale sarebbe stato il tributo migliore ai compagni di squadra morti nell’Atlantico: purtroppo però il Marocco aggiunse ulteriori sofferenze, perché dopo circa un’ora di gioco Abdesalam Laghrissi, idolo di casa – militava nel Raja – riuscì  a bucare la porta zambiana per l’unica marcatura dell’incontro; una qualificazione che rattristirà ancor di più la nazionale dello Zambia (che a coronamento della beffa colpirà ben due pali) anche perché l’anno seguente fu proprio il Marocco l’unica squadra del suo girone a non qualificarsi per gli ottavi, finendo addirittura dietro all’Arabia Saudita.

Quello che sembrò il definitivo canto del cigno avvenne il 10 aprile del 1994, quando a Tunisi lo Zambia perse in rimonta per 2-1 la finale di Coppa d’Africa contro l’emergente Nigeria, che poi sconfiggerà l’Argentina e darà tanto filo da torcere a Baggio e compagni al torneo iridato: il calcio zambiano, così tanto faticosamente restaurato dopo la sua personale Superga, ritornò dunque ad essere una delle tante manifestazioni folkloristiche del football africano.

Tuttavia, a quasi due decenni di distanza dalla tragedia aerea avvenuta nei pressi di Libreville, si consumerà una dolcissima rivincita: alla Coppa d’Africa del 2012 infatti i Chipolopolo vinsero senza troppi problemi il girone della prima fase includente anche la Guinea Equatoriale (una delle due nazioni ospitanti), la Libia ed il Senegal, per poi strapazzare nei quarti il Sudan (3-0), mentre in semifinale venne sconfitta di misura una delle grandi potenze del calcio africano, il Ghana, al termine di una partita che verrà ricordata a lungo a Lusaka e dintorni.

Dopo appena 7 minuti, infatti, l’ex-Udinese Asamoah Gyan si fa parare un rigore da Kennedy Mweene, che risulterà poi il migliore in campo, rendendo poi inutili gli sterili attacchi delle black stars, la cui imprecisione viene punita al minuto 78 quando Emmanuel Mayuka dello Young Boys infila la porta ghanese con un gran tiro a giro sul secondo palo; pochi minuti dopo Derek Boateng si fa cacciare per doppia ammonizione, e gli attacchi del Ghana rimangono inconcludenti.

Lo Zambia ha raggiunto l’ultimo atto della competizione sorprendendo tutti, vista anche la rosa che vede giocatori militare al massimo al Mazembe – uno dei top team del calcio africano – oppure in Sudafrica e Cina.

La finale, anch’essa contro una grande del continente, la Costa d’Avorio, presenta una venue da paura: visto che il torneo è organizzato congiuntamente da Guinea Equatoriale e Gabon, è lo Stade d’Angondjè di Libreville ad ospitare la finalissima; dalla capitale gabonese, dove tutto era finito, lo Zambia può riprendersi molto di quello che calcisticamente aveva perso 19 anni addietro.

Ad allenare gli ivoriani c’è François Zahoui, storico bidone anni ’80 dell’Ascoli di Costantino Rozzi, che da allenatore va decisamente meglio; gli Elefanti non hanno ancora preso un gol in tutto il torneo, e tutti si aspetterebbero che sia la Costa d’Avorio a dominare la partita, ma così non è. Per il primo tempo è lo Zambia a tenere il pallino del gioco, ed è così anche per l’inizio della ripresa, fino a quando Zahoui azzecca la sostituzione di Kalou con Gradel, che rende la sua squadra più pericolosa in avanti, tanto che arriva pure un rigore in favore.

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Un colpo di testa di Didier Drogba durante la finalissima

Sembrerebbe di nuovo la fine della favola, visto che sul dischetto ci va Drogba: dagli undici metri però il tiro finisce ben oltre la traversa, lasciando le cose come stanno e dando nuova fiducia ai Chipolopolo, tanto che nei supplementari il capitano Cristopher Katongo centra pure un palo.

Si arriva quindi ai calci di rigore, che sono completamente diversi da quelli dell’ultimo Italia-Germania: sia lo Zambia che gli ivoriani ne segnano 7 di fila (da notare che il quinto per gli zambiani lo segna il portiere Mweene), poi Kolo Touré si fa parare il tiro dall’estremo difensore dello Zambia, ora ad un gol dal trionfo continentale; tuttavia la conclusione di Kalaba finisce alta, annullando un preziosissimo match-point che però si ripresenta immediatamente grazie al tiro alto di Gervinho.

Ora il fardello della rivincita posa tutto sulle spalle del centrale difensivo Stophira Sunzu, che spiazza Bary e regala allo Zambia il primo grande trionfo internazionale della sua storia, ottenuto da dove tutto, 19 anni prima, sembrava essersi fermato.

E poco importa se poi le qualificazioni ai Mondiali del 2014 non sono andate così bene, e le due successive coppe d’Africa sono state fallimentari: la cosa davvero fondamentale era regalare una soddisfazione a tutti gli eroi del 1988 che non poterono raccontare la loro impresa ai figli ed ai figli dei loro figli, e togliere finalmente quel marchio di maledizione che aleggiava sopra Libreville.

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Lo Zambia festeggia la vittoria in Coppa d’Africa

P.S. Visto che siamo in tema di Olimpiadi, mi permetto di fare una dedica molto personale a mio padre, ex giornalista e soprattutto ex sportivo, che rinunciò a prendere parte ai giochi di Città del Messico con la nazionale di scherma nel 1968 perché c’era da “fare il Sessantotto”. E lo ringrazio ancora di più perché oltre al ’68 ha fatto l’autunno caldo del 1969, il 1970, il 1971 e così via fino al 2013, dandomi l’esempio vivente di cosa significhi credere davvero in qualcosa.