Se questa è Nostalgia - Zona Cesarini

Se questa è Nostalgia

Nostalgia è una parola composta dalle parole greche νόστος (ritorno) e άλγος (dolore): in parole povere, è il “dolore del ritorno”. Ma non è certamente questo il significato che sta assumendo al giorno d’oggi. Oggi è sinonimo di qualcosa di dolce, meraviglioso; degno soltanto di celebrazione ed attenzione. La nostalgia nell’accezione contemporanea è tutto questo. E comincia a stufarci. Partendo da questo presupposto, cinque diversi autori dicono la loro su uno dei fenomeni che sta dominando la narrazione calcistica italiana sul web: l’effetto-nostalgia. Con i suoi rischi e i suoi derivati.

Manifesto antinostalgico

Alessandro Bezzi

La nostalgia non è solo inutile e retorica, ma è anche pericolosa: depotenzia la narrazione, la rende innocua e rassicurante. Peggio, ci priva di un confronto serio con la realtà che viviamo: non è un fenomeno che riguarda solo il racconto calcistico, ma tutta la nostra esistenza. In un’epoca di mode sempre più effimere e di orizzonti sempre meno certi, attaccarsi al passato è rassicurante. Si idealizza una (presunta) Età dell’oro: visti attraverso la lente deformante del tempo, perfino i calciatori più scarsi guadagnano un’epicità che li rende amatissimi.

Perché si collegano a un universo sensoriale più sicuro, quello dell’infanzia: con i suoi problemi, che venti anni dopo ci sembrano sciocchezze, e quella fiducia nel futuro che presto sarebbe scomparsa. Beh, ecco la notizia: magari in maniera meno scientifica di adesso, ma il calcio “moderno” era sporco anche venti anni fa. Solo che il nostro era “il campionato più bello del mondo”, le squadre italiane erano i veri top club e (soprattutto) noi eravamo più spensierati e meno cinici.

Certo, da un punto di vista commerciale la narrazione “nostalgica” è perfetta: stimola ricordi sommersi, certezze infantili che confrontate con un presente precario sono ancora più rinfrancanti. Abbastanza vaga da coinvolgere un largo bacino di clienti-fruitori, abbastanza precisa da definire una comunità: fa leva su hashtag perfetti per creare un nemico, elemento essenziale per cementare un’identità condivisa: i bimbiminkia che non ricordano i mitici Anni Novanta. Probabilmente, se Internet fosse esplosa venti anni fa, un’altra generazione avrebbe fatto lo stesso: “Altro che Maldini, Baggio e Van Basten: che ne sanno i bimbi di oggi di Beckenbauer e Gigi Riva?”

In fondo, siamo tutti i bimbiminkia della generazione precedente. La patina del tempo ci ha regalato una distorsione niente male: mitizziamo giocatori ed epoche passate, convinti che fosse tutto bellissimo. I gol della domenica come i piovosi pomeriggi dopo la scuola. Non era così, ma ammetterlo ci costa uno sforzo di maturità che non vogliamo fare. E qualcuno ha capito che rievocare il passato di chi spesso non ha futuro può essere un bel business.

Non dico che dovremmo scordare le imprese, i campioni e i sogni che avevamo in passato; ma forse dovremmo iniziare a confrontarci con il presente. Il passato può essere una trappola mortale, se un piacevole ricordo diventa il metro di giudizio del nostro futuro; Nick Hornby sosteneva che il calcio è bello perché – a differenza della vita – abbiamo sempre davanti un’altra stagione. E se ci fermiamo a guardare sempre la stessa, difficilmente avremo di che divertirci nelle prossime: almeno finché non verrà il tempo di rimpiangere pure quelle.

Di nostalgia, delinquenza, bomberismo

Jacopo Rossi

Lo schema è tanto semplice quanto geniale. Ce lo vedo Vladimir Propp, uno che di schemi, tipologie e tòpoi ci viveva, che si mette a ridere sonoramente. E forse applaudire. O avere una sincope. Alcool, Delinquenza pittoresca, Nostalgia o Ignoranza, Figa in genere o Bomberismo che sia, tutto segue sempre lo stesso sentiero, rassicurante e fruttuoso.

C’è l’equilibrio iniziale, accarezzato da una leggera captatio benevolentiae, un po’ manzoniana e parecchio paracula, celebrata da hashtag a volte divertenti, a volte parecchio meno, conditi da un tono complice e cameratesco. Tutto è in equilibrio. Propp, nel suo personale paradiso, ha appena acceso le braci sotto il suo samovar: stancamente aspetta che l’acqua inizi a bollire. L’equilibrio si rompe: la pagina chiede il suo tributo. Con una foto, una figurina Panini comunque piacevole, un video particolarmente ilare, un commento salace o una richiesta. A volte, non sempre, si tratta di materiale abilmente trafugato da altre pagine, scopiazzato e marchiato a dovere per rivendicarne una paternità farlocca. Beninteso, a volte. A Propp fischiano le orecchie: lascia cadere la scatolina di legno con gli infusi, ma tutto passa subito: si riprende, raccoglie gli infusi, torna al suo samovar.

Iniziano le peripezie degli eroi, in questo caso i milioni di follower in gara per compiacersi della propria bomberitudinenostalgiaignoranza. Arrivano le reazioni, sotto forma di commenti titolo di studio/più ignorante di/più nostalgico di [segue] – o nomi su richiestasparatemi il primo [segue qualsiasi bomber/scarpone/pluriomicida possibile] -, like e reazioni in genere – quanti like/cuori/condivisioni/sacrifici umani per [segue] – e amenità similari. Propp inizia a perdere il controllo della palpebra sinistra, lascia cadere di nuovo i preziosi infusi sul tappeto, suda vistosamente, ha un lieve capogiro. Barcolla ma resiste.

Torna l’equilibrio iniziale, dopo qualche migliaio di pacche virtuali. Il popolo ha scelto il vincitore il bombernostalgicodelinquenteignoranteechissàcosaltro, il follower eroico, che si merita un post tutto suo, prezioso come un uovo Fabergé, ma meno brillante. Propp sente le gambe cedere di schianto. Crolla, riverso sul tappeto, con gli infusi che gli fanno da aureola. Se mai si riprenderà, chissà che risate quando vedrà i figli dei follower odierni rimpiangere ciò che i loro padri odiano. Come ogni scontro generazionale che si rispetti esige, del resto.

“E l’Italia giocava alle carte, e parlava di calcio nei bar, e l’Italia rideva e cantava…”

Indagine su un’epoca al di sopra di ogni sospetto

Giuseppe Zotti

Non c’è nulla di male nell’apprezzare un’epoca andata e che si sa che non tornerà più, se ne venissero riconosciuti anche i difetti: sarebbe sbagliato, infatti, avere il desiderio di aver vissuto gli anni ’70 con tutti i suoi elementi positivi quali la liberazione sessuale, i passi avanti nell’emancipazione femminile, l’attivismo politico che si staccava dalla logica partitica, la caduta del fascismo in Spagna, Portogallo e Grecia e la vittoria in Vietnam, senza slegare tutti questi eventi dai civili dilaniati dalle bombe a Savona, Milano, in Piazza della Loggia o nell’Italicus, dall’apartheid in Sudafrica, dai golpe di Videla e Pinochet o dalle migliaia di vite stroncate dall’eroina.

Eppure, il problema di chi nel calcio fa della nostalgia il proprio culto, è questo: pensare che gli anni passati fossero una specie di villaggio globale della cuccagna, dove la serie A era il più grande spettacolo dopo il big-bang e nei campionati esteri militavano giocatori assolutamente più forti di quelli attuali, i quali devono sempre e comunque essere paragonati – con un’accezione negativa – al campione del passato.

Sono stati davvero anni così belli? La UEFA ha iniziato proprio in quegli anni a trasformare la futura Champions League in un ricettacolo di soldi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi, contemporaneamente alla FIFA, che ci ha regalato l’aberrazione tecnica di USA ’94 – con tanto di finale giocata con 36 gradi e 70% di umidità a “beneficio” del telespettatore – e alla Serie A che con l’approdo di Tele+, sperimentò i primi passi verso l’osceno spezzatino odierno (a proposito, la tanto amata Tele+ era di proprietà di Rupert Murdoch, baluardo del calcio moderno e proprietario di Sky).

Già questo basterebbe da solo a dover rivalutare almeno un po’ questo decennio dorato, ma sarebbe anche il caso di ricordare l’omicidio di Vincenzo Spagnolo, le devastazioni degli hooligans (no, non sono spariti dopo Hillsborough), tanto che ad Italia ’90 la nazionale inglese fu confinata tra Cagliari e Palermo per tenerla il più distante possibile dalla terraferma, e la serie B che passa a 24 squadre grazie ai ricorsi al T.A.R. di un altro idolo della nostalgia, Luciano Gaucci. Per chiudere in bellezza, tra le grandi squadre di quegli anni ci sono la Lazio e il Parma, i cui patron Cragnotti e Tanzi fecero le fortune in campo nazionale e internazionale sulle spalle dei risparmiatori della Cirio e della Parmalat: eppure, neanche due bancarotte fraudolente servono ad aprire gli occhi a chi idealizza il passato trasformandolo in ideologia.

Non significa ovviamente che il calcio era limpido e pulito negli anni ’80 o prima: il marcio, dove ci sono potere ed interessi economici, c’è e ci sarà sempre; non dimentichiamo che nel 1925 i fascisti bolognesi scipparono letteralmente lo scudetto della stella al Genoa, oppure che la coppa del mondo del 1978 era lorda del sangue dei desaparecidos argentini. Con questo non voglio dire che a me non faccia piacere leggere un articolo ben fatto sulla cavalcata del Vicenza in Coppa delle Coppe, oppure sul Genoa che espugna Anfield, anzi. Ma credere che un paio di decadi fa il calcio fosse nel suo El Dorado è un errore madornale. Ritenere un certo periodo del passato migliore di altri, ci può stare; ma renderlo un mito intoccabile e volerlo applicare al presente senza tener conto dei cambiamenti avvenuti nel frattempo è esercizio infantile, e, se non stessimo parlando soltanto di calcio, pure pericoloso.

Revisionismo social

Federico Castiglioni

Qualche tempo fa lessi nei meandri di Facebook un commento che suonava più o meno così: “Higuaín ai tempi in cui Crespo faceva 20 gol ne avrebbe fatti sì e no 4”. Poi mi è capitato di leggere persone che in massa evidenziavano stupite la somiglianza tra Francescoli e Milito. Infine, ho visto in foto la rievocazione della qualità milanista, data dalla contemporanea presenza delle maglie scudettate di Savicevic, Baresi, Maldini, Baggio, Boban e Weah. I bei tempi che furono e lo sconfortante paragone con il presente, si dirà. Con pure qualche ricordo simpatico in mezzo. Bello. Però ci sono cose che non capisco.

Ad esempio, nel pensare alla vita facile del Pipita rispetto a quella del Valdanito, non posso non ricordare che Higuaín ha disintegrato un record fissato negli anni ’50, e già questo manda in facile cortocircuito l’improbabile parallelo – l’andamento qualitativo delle difese ha seguito una curva parabolica con picco agli inizi del Duemila? Eppure Crespo, quando tornò giocando con continuità all’Inter nel 2006, segnò venti gol in stagione, meno dei 28 del primo anno alla Lazio -, senza andare a scomodare la più articolata questione dell’evoluzione tecnica, tattica e atletica del gioco del calcio. Che rende vano un confronto del tipo “chi è più forte?” tra giocatori di periodi calcistici differenti.

Ancora, la caduta dal pero riguardo la somiglianza tra Milito e Francescoli mi fa pensare che forse con la memoria si è andati per qualcuno già troppo indietro (tanto da non aver idea di chi fosse l’uruguagio), e che manca anche quel minimo di cultura calcistica da sapere che il soprannome “Principe” è stato dato a Milito proprio in virtù della sua somiglianza fisica con Francescoli.

Infine, non posso non ricordare che quel Milan, che vantava così tanti campioni insieme e altri svariati elementi che probabilmente farebbero schizzare a mille il ricordo nostalgico, da Dugarry a Reiziger a Blomqvist (leggi anche: pippe), quel Milan fu il peggiore di sempre dell’era Berlusconi, chiudendo nella stagione 1996/97 undicesimo in campionato, dopo aver perso la Supercoppa contro la Fiorentina (Irina te amo!), dopo essere uscito ai gironi di Champions con la caporetto casalinga contro il Rosenborg (questo fu il biglietto da visita di Sacchi, che si era appositamente dimesso dalla panchina azzurra per tornare da Berlusconi) e dopo essere caduto pure in Coppa Italia ai quarti, contro il Vicenza futuro vincitore.

Note di cronaca storica: il gol che eliminò il Milan dalla Champions fu causato da un sanguinoso errore in disimpegno di Boban, dal quale scaturì un lancio lungo finalizzato da Heggem, bravo ad infilarsi tra Baresi, Maldini e Rossi, rimasti lì a chiedersi chi dovesse andare a prendere quel pallone.

A fine stagione Baresi si ritirò insieme a Tassotti, mentre Baggio cambiò aria, andando al Bologna di Mazzone. Savicevic rimase a svernare a Milano un’altra stagione, quasi senza giocare, per poi chiudere la carriera in Austria (via Stella Rossa). Nella stagione 1997/98 il Milan chiuse al decimo posto. Sì al ricordo, no al revisionismo storico.

1997: Fuga dalla nostalgia

Leonardo Capanni

In Midnight in Paris, Woody Allen dapprima s’interroga, poi analizza e infine scioglie l’enigma “nostalgia”. Il protagonista, interpretato da Owen Wilson, è uno scrittore alla soglia dei 40 anni che non riesce a concretizzare le proprie capacità lavorando in un “negozio-nostalgia”, perso in un mondo di richiami al passato tra bambole di Shirley Temple e grammofoni retrò. Elementi che in qualche modo richiamano la Parigi degli anni ’20: il periodo in cui vorrebbe vivere.

Quando si trova a Parigi in viaggio con la moglie, causa un bizzarro passaggio in macchina, il protagonista è catapultato proprio negli anni parigini della Generazione Perduta di Hemingway, Scott Fitzgerald e Buñuel; ma qui incontra una giovane donna che, vivendo quella stagione da lui sognata, non desidera altro che poter tornare indietro alla Belle Époque di fine ‘800 per incontrare intellettuali ed artisti di quel periodo e vivere con loro.

Morale alleniana: il sentimento di negazione per un presente infelice, insoddisfacente o più semplicemente banale, trionfa spesso. Fornendo un rifugio idealizzato in un’altra epoca a cui, direttamente o meno, ci sentiamo legati. Ma è così anche per i protagonisti di quegli anni, in un flashback infinito che potenzialmente abbraccia tutte le stagioni dell’epoca umana arrivando fino all’osso e al monolite di kubrickiana memoria. Perché questo pippone metacinematografico? Per comprendere al meglio il pattern-nostalgia: elemento dirompente oggi ad ogni livello. Di più, vera industria globale.

I bei tempi in cui si usciva a comandare il mondo osso alla mano, altro che la scoperta del fuoco…

Ma se ricordare è un dovere, raccontare e analizzare il passato un esercizio fondamentale, rimpiangere acriticamente un’epoca elevandola a modello assoluto diventa una trappola. E nel mare magnum della narrazione calcistica ai tempi del web 2.0, il rischio – ormai assodato – è questo: rinunciare ad ogni capacità di analisi su passato, presente e futuro per scadere in uno stantìo quanto passivo attaccamento ad una o più epoche d’oro. Riguardo al calcio, gli anni ’80 e ’90 della Serie A hanno rappresentato un apice tecnico irripetibile, ma allo stesso tempo sono decenni ricchi di sfaccettature e svolte cupe: fondamenta del “calcio moderno” così odiato, dalla sentenza Bosman in giù.

Esiste poi la dimensione-social del fenomeno. Quella per cui Rachid Neqrouz (un esempio, che mi ha colpito più di altri) fosse un campione: una sorta di Fabio Cannavaro di provincia, soltanto un po’ più sfortunato, si arriva persino a sostenere che “De Rosa e Neqrouz erano meglio della BBC”; al netto della goliardia che in questi casi tracima, Neqrouz era un difensore decente, ruvido, tecnicamente limitato, ricordato più per le dita posizionate nel deretano di Filippo Inzaghi che per altro. Se tutto questo fa folklore, goliardia e strappa sorrisi, al contempo non rende giustizia al calcio stesso svilendo ogni forma di narrazione o analisi nel calderone combinato di “nostalgia+romanticismo ad ogni costo”. Innescando così quel vizio di forma analizzato da Allen.

C’è, infine, un ultimo risvolto che mi colpisce sempre più in quest’esercizio di riproposizione di un certo “mondo che non c’è più”: la confusione totale su una o più epoche. Quell’indistinto magma social che mette insieme, nello stesso mix di hashtag, emoticon e articoli, un cinepanettone edonista dei Vanzina con un film antiedonista di Joe Dante, un pezzo trash di Sandy Marton al Festivalbar con il synthpop ricercatissimo dei New Order, la marcatura a uomo di Fascetti con il sistema sacchiano, perfino la celebrazione del Leicester dell’odiata Premier delle proprietà miliardarie e degli stadi-salotto accanto al duropurismo delle imprese di provincia old school. E la lista potrebbe continuare all’infinito. Visioni opposte e antitetiche si mischiano in un unico flusso, canalizzate sotto le rassicuranti – e fuorvianti – etichette “nostalgia” e, a volte, “romanticismo”. Insomma, se ricordare è doveroso, flirtare con un certo tipo di passato è inevitabile, e perfino ammalarsi di nostalgia può succedere, morire sotto i colpi di una dogmatica deriva “nostalgica” sta diventando un piccolo dramma. Almeno fino al prossimo hashtag.