Éver Banega, ultimo tango a San Siro - Zona Cesarini

Éver Banega, ultimo tango a San Siro

«Il Tango è un pensiero triste che si balla.»

Discontinuo, incompreso, irascibile. Geniale, talentuoso, risolutivo. Chi è il nuovo numero 10 dell’Inter, uno degli ultimi playmaker di classe del calcio mondiale: Éver Banega. O più semplicemente, el Tanguito.

In Sud America dovrebbe esistere un’Università dedicata a neologismi e soprannomi prima inventati e poi applicati al mondo del calcio. Specialmente in Argentina la faccenda si fa ancor più seria, arrivando ad elevarsi a modello di identikit per un singolo giocatore. Éver Banega, per tutti, è el Tanguito. Soprannome dal retrogusto romantico, che racchiude in sé l’anima rioplatense del tango nato nei barrios di Buenos Aires insieme a quel diminutivo che innerva il soprannome di una venatura beffarda e vagamente malinconica.

In questa descrizione parzialmente démodé si può già ritrovare il filo dell’intera carriera di Éver Banega. Un percorso scostante, compromesso più volte, recuperato nei momenti più bui e infine rilanciato su grandi palcoscenici quando il sipario sembrava essere calato, proprio quando il grande pubblico pareva essersi scordato di quel diez atipico di Rosario. Un giocatore indecifrabile: da innamoramento puro ed incondizionato o da oblìo. Uno di quegli argentini dotati di un talento tecnico purissimo, uno che genera attorno a sé schiere di pasdaran o agguerrite truppe di haters.

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Potenziale inespresso e confusione sul suo ruolo. Sembrano queste le due grandi direttrici che, sovrapponendosi, hanno segnato la carriera di un giocatore che da adolescente fece impazzire l’Argentina, arrivando ad ereditare i galloni di “nuevo Redondo” insieme all’ex madridista Gago. Perché Banega ricorda uno di quei calciatori per cui il tempo e le stagioni sono passate lentissime, lasciando solchi di una vecchiaia agonistica, che, però, viene smentita dalla carta d’identità, che alla voce data di nascita recita 29 giugno 1988.

Ha da poco compiuto 28 anni, l’età clou per un calciatore, eppure sembra passato un secolo da quando si vociferava di lui come nuova stella dell’universo albiceleste. La carriera di Banega, infatti, più che la tipica parabola ascendente o discendente, si potrebbe immaginare come un labirinto costituito da cerchi concentrici in cui trovare un’uscita pare impossibile: intrappolata in eterni loop e corridoi ciechi degni dell’Overlook Hotel di Shining. Con una via di fuga che recita: Argentina, Spagna, Argentina, Spagna. Senza soluzione di continuità. Almeno fino ad oggi: Inter; Milano, Italia. Il turning point della carriera.

Alla Pinetina, sotto la guida di Mancini prima e di De Boer poi, è investito fin da subito del ruolo di giocatore di qualità, pedina imprescindibile per lo sviluppo del gioco nerazzurro. Inizialmente impostato su un 4-2-3-1 a lui congeniale, e poi, con l’arrivo del tecnico olandese, sta mutando – più per necessità contingenti che per inflessibile dogma tattico – verso un 4-3-3 che ne arretra la posizione di partenza proponendolo in ruolo da regista puro. Una posizione dove sta incontrando qualche iniziale difficoltà per contesto collettivo, non certo per caratteristiche tecniche.

Perché Banega, nei suoi anni di académia sevillista, è risorto a nuova vita grazie al ruolo di playmaker a tutto campo elaborato sui suoi punti di forza da un tecnico lucido, pragmatico e preparato come Unai Emery. Che ha elevato il Tanguito a piccolo sole del pianeta Siviglia, circondato e al contempo protetto da una squadra aggressiva e verticale, soprattutto sulle catene laterali, in grado di dettare quelle giocate deliziose che caratterizzano il gioco intuitivo e panoramico di Éver.

Perché il suo calcio rimane soprattutto questo: nobilissima tecnica di base, intuizione in rapporto allo spazio, visione e ricerca immediata delle linee di passaggio in profondità come dello scambio stretto e tempo di giocata, immediato o dilatato, in relazione alla specifica situazione di gioco.

Assist, capacità chirurgica nel cambiare campo e mandare in porta esterni offensivi come prime punte, un’innata abilità nel proteggere la palla utilizzando il corpo – grazie a leve robuste e un baricentro schiacciato a terra – rapidità di piedi, dribbling mortifero nello stretto e una conduzione palla naturale, morbida, quasi magnetica: l’idealtipico bagaglio tecnico di un diez argentino. Che, però, non ha mai giocato da fantasista puro.

È probabilmente uno degli ultimi esponenti della “vecchia scuola” dei registi a tutto campo, più vicino a Riquelme che al prototipo contemporaneo albiceleste dei Messi, Di María e così via. È il riscatto della tecnica di base e della pausa anarchica sul dinamismo estremo applicato alla superiorità numerica, pur contando su una buona accelerazione nei primi 10 metri.

Mezzapunta? Regista? Playmaker offensivo? Probabilmente, prendere in prestito un’espressione british può aiutarci nel definire l’identikit di questo todocampista a metà del guado: creative midfielder. Calciatore oltremodo associativo, centripeto, che da sempre adora abbassarsi nella propria trequarti per ricevere la palla tra i piedi direttamente dai centrali difensivi, e a cui è richiesta la missione ultima, quella che divide un buon giocatore da un campione: piegare i tempi della partita alle proprie esigenze per dettare i ritmi che caratterizzano i 90 minuti. Stringere e allargare il campo, fare da collante, elevare il livello medio dei compagni.

Ricezione bassa, conduzione, attesa, visione e verticalità. Anche nel caos estivo dell’Inter di Mancini.

Rallentare, per individuare la giocata giusta ed inattesa; accelerare, per permettere un’uscita rapida e potenzialmente letale. Sfruttare l’ampiezza degli esterni offensivi, duettare nel gioco corto con le mezzali e far correre in verticale i terzini, assistere il centravanti nell’attacco alla profondità, calciare punizioni come angoli tagliati in favore dei saltatori. Banega è tolemaico: influenza col suo campo gravitazionale – palla al piede – i satelliti che gli orbitano intorno. Riveste da sempre un ruolo chiave per specifiche caratteristiche naturali, non tattiche.

In altre parole, modulo e princìpi di gioco si possono (e si devono) adattare al Tanguito, innaturale sarebbe l’opposto. Da questo assioma nascono gli equivoci tattici, la ricerca del tempo perduto, i prolungati affanni europei. A cui aggiungere un carattere sanguigno, istintivo. Un po’ da tanguero. Un niño de la calle che si è concesso più di una pausa, che ha flirtato con il fallimento sportivo come se si trattasse di un demone personale a cui dare ascolto, che ha fatto di tutto per ingigantire voci e bisbigli su una presunta mancanza di professionalità proprio nel momento del salto decisivo in Spagna, a Valencia.

Allo stesso tempo, però, come un novello Oliver Twist col volto indio da peones rivoluzionario che non sfigurerebbe in un film di Sergio Leone, è risorto lasciando dietro di sé una scia di giocate e stagioni sontuose in Andalusia, regione indolente e orgogliosa: proprio come il suo atteggiamento in campo.

Perché nel calcio di Banega si trovano tutti gli ingredienti di un dramma in perenne bilico con l’irriverenza, dove l’indolenza e la garra tipicamente argentine convivono in uno strano e affascinante contenitore tecnico che lo porta – da sempre – ad estraniarsi da dettami tattici rigidi (soprattutto nel posizionamento in fase di non possesso) fino a generosi quanto istintivi tackle in chiusura – i cartellini gialli si ripetono come un refrain nella sua carriera – regalando così il ritratto di un giocatore a metà. Come se incosciamente sapesse di dover espiare il suo talento naturale, spesso considerato accessorio luxury nel calcio contemporaneo.

Un lusso? Ma che lusso…

Un’attitudine che ha mitigato con l’andare del tempo, ma che rimane cifra tecnica intrinseca del Tanguito. Banega è un rischio. Si sente ripetere spesso, e il più delle volte a ragione. È un rischio per una squadra con concetti di gioco basati sull’intensità o su un sistema speculativo; è una risorsa per una squadra che è in cerca di vera qualità in mezzo al campo, per un collettivo che deve imporre una proposta di gioco e non reagire in conseguenza dell’avversario. In questo senso, la visione di calcio proattiva e al contempo flessibile di Frank De Boer, può diventare un habitat ideale per Éver, grazie anche ad un acquisto come João Mario da affiancargli come mezzala dinamica. A patto, però, di saper attendere.

A Siviglia, le sue qualità innate sono uscite fuori progressivamente sia in campo nazionale che europeo. Si è assecondato quel suo lato intuitivo del gioco, quella capacità di ragionare sul medio e sul lungo, mitigata da fulminee aperture che fungevano da detonatore delle fasi: da riconquista della palla a transizione offensiva, da ordinaria amministrazione a colpo di genio nello spazio di un decimo di secondo. Un naturale quanto anomalo ibrido tra regista e trequartista.

Strappando applausi e consensi a un pubblico culturalmente abituato alle pause come alla dilatazione dei tempi, alle siestas pomeridiane così come a un’estetica rigogliosa, con una tecnica per certi aspetti arabesca – proprio come le architetture che caratterizzano Siviglia – incastonata, però, in un sistema di gioco moderno e funzionale a firma Unai Emery. L’humus ideale per le qualità di un tanguero un po’ indolente ma ingegnoso: geometra e pittore a fasi alterne. Ma costantemente al centro della scena.

Gioco corto rapido a far scivolare l’avversario sul lato coperto, poi lancio lungo millimetrico nel mezzo-spazio sul lato debole: un bignami di regia in quattro tocchi.

E perfino nel Banega uomo si rispecchia idealmente quel giocatore senza sovrastrutture sul terreno di gioco. Finito al centro di polemiche e disguidi in Argentina per una presunta vicinanza – mai provata fino in fondo – con ambienti direttamente legati al narcotraffico, perché nell’estate del 2014 fu immortalato su uno di quei campetti di terra e polvere a giocare e farsi fotografare sotto il murales di uno dei boss del narcotraffico rosarino; o per la sua andatura svagata e un po’ distratta nello stare al mondo, come quando a Valencia è riuscito a fratturarsi tibia e perone mentre faceva benzina alla sua Ferrari, scordandosi di inserire il freno a mano. Prendere o lasciare. O meglio, assecondare.

Regista naturale a tutto campo, dotato oltre misura di quelle qualità che rendono il calcio un gioco estetico, quasi un piccolo teatro di posa, ma carente in alcuni aspetti che lo rendono uno sport professionistico al massimo livello: analizzato, evoluto, che richiede completezza in ogni fase di gioco o zolla di campo. Banega, a 28 anni, se ne sta sempre lì: in equilibrio galleggiante fra dare e avere, tra genialità e pigrizia, fra istinto e riflessione, tra filosofia e scherno da guappo di strada.

Resistere a Lassana Diarra sfruttando corpo e controllo, e poi infilare un tunnel di suola a Higuaín. Ok.

Come un tango di Astor Piazzolla che fuoriesce da un bandoneón: avvolgente nella sua melodia, autoindulgente nel suo insistere su toni drammatici e ritmo semi-accelerato, su raffinata eleganza e passionalità dolente. E forse il segreto di Banega risiede qui: nella terra di mezzo dell’improvvisazione ragionata, del ritmo sincopato.

Proprio come nel tango, quando giunge la sequenza dove l’uomo deve condurre il ballo e la donna seguirlo, improvvisando passi più o meno codificati. O più prosaicamente, come quando una squadra consegna la palla sui piedi del Tanguito.