Paulo Futre: il dimenticato genio lusitano - Zona Cesarini

Paulo Futre: il dimenticato genio lusitano

Di Massimo Bencivenga

I portoghesi hanno un dono naturale: quello di sminuirsi e di far passare sottotraccia anche quanto di buono hanno o fanno. Avevano un sovrano illuminato, Joao II, O Príncipe Perfeito, il Principe Perfetto, l’uomo che, finanziando pesantemente l’arte marinara diede grande impulso, sulla scia tracciata da Enrico il Navigatore, all’epopea delle scoperte.

E anche sulle scoperte geografiche: tutti parlano di Bartolomeo Dias o di Vasco da Gama, e nessuno che ricordi l’ammiraglio Duarte Pacheco Pereira. Ammiraglio, militare, uomo di grande spessore culturale, si dice sia stato il primo a calcolare esattamente il grado terrestre, Pacheco Pereira è al contempo il più colto e il meno noto tra i grandi navigatori, portoghesi e non, dell’epoca.

Hanno avuto José Saramago, i portoghesi, e non ne hanno mai apprezzato fino in fondo la sottile ironia e la caustica sagacia, quella capacità di vedere oltre, più in là. Come gli esploratori. C’è di buono, invece, che in una delle loro colonie trovarono un diamante grezzo che il grande intagliatore Béla Guttman sbozzò e mostrò al mondo in una delle più belle finali di Coppa dei Campioni della storia, quella del 2 maggio 1962 ad Amsterdam.

Una finale tra i pentacampioni del grande Real, quello cantato anche da Max Pezzali, e i campioni in carica del Benfica. Sul risultato di 3-3, con tripletta di Puskas per i merengues, lo zingaro Guttman disse alcune parole alla sua pietra preziosa che lo ripagò con due gol.

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Il diamante era Eusebio, e chi lo scoprì in Mozambico fu Bauer, uno dei calciatori brasiliani che giocarono e uscirono tramortiti dal Maracanazo. Bauer era il secondo di Guttman e pare che irruppe in un salone da barbiere, dove si trovava Guttman, esclamando: “Ho visto un ragazzo che non è di questo mondo.”

E con Eusebio il Portogallo arrivò anche in semifinale mondiale nel 1966. È storia recentissima invece la prima importante vittoria per i lusitani; una vittoria del collettivo, figlia della tattica e della praticità di un ingegnere prestato al calcio, che aveva pensato a una squadra attendista in funzione del guizzo e della concretezza spietata di CR7, e si è ritrovato a vincere con Cristiano Ronaldo in panchina, riuscendo a issarsi dove mai prima, quando giocavano Figo, Rui Costa o Eusebio.

Ma tra Eusebio e Cristiano Ronaldo non ci sono stati solo Figo e Rui Costa. C’è stato anche un uomo che fece scoppiare un caso diplomatico con protagonisti Maradona, Gullit e Berlusconi. Successe questo: Diego accusò il potere mediatico e finanziario di Berlusconi di aver influenzato, con la complicità dei giurati, la vittoria del Pallone d’Oro in favore di Ruud Gullit, sottraendolo, a detta del Pibe de oro, a Futre.

Jorge Paulo Dos Santos Futre, a dirla tutta. È lui il talento portoghese dimenticato tra Eusebio, Figo, Rui Costa e Cristiano Ronaldo. Ruud Gullit vinse il Pallone d’Oro nel 1987 per aver conquistato lo scudetto con il PSV e aver ben impressionato nei tre mesi italiani. Il 1987, per me, nella memoria di un ragazzino di undici anni, rimarrà per sempre l’anno dei numeri 10: sul viale del tramonto Platini e al canto del cigno Zico, ero sempre alla ricerca di numeri 10 da paragonare a Maradona.

Nel febbraio del 1987, la Steaua Bucarest si assicurò, solo per giocare la Supercoppa Europea contro la Dinamo Kiev, l’estro e il sinistro di Hagi. Allora YouTube non esisteva, non c’erano i canali sportivi a pagamento, e i calciatori li scoprivi così: guardando le partite, spesso una sola partita. Era un po’ una personale epopea delle scoperte.

Ricordo che ammirai Hagi distillare classe e segnare su punizione il gol della vittoria. Poi Hagi rimase alla Steaua perché così volle il dittatore. Hagi è una potenziale risposta a Maradona; questa fu la mia conclusione. Fino a 27 Maggio del 1987: finale di Coppa dei Campioni tra Bayern Monaco e Porto.

Il capitano del Bayern era Lothar Matthaus, che aveva quasi annullato Maradona a Mexico 1986; il capitano del Porto non lo ricordo, ma quella sera i tedeschi non riuscivano a disinnescare il 10 dei Dragões: un mancino, capellone e filiforme, che saltava i tedeschi come birilli. “E questo da dove è uscito?”, pensai. Di quella finale la maggior parte dei tifosi ricordano il “tacco di Allah” di Rabah Madjer e il gol del pittoresco brasiliano Juary. Ma io ricordo altro.

Ricordo le gambe attorcigliate dei tedeschi, ricordo gli arabeschi funamboli che Paulo Futre tracciò in ogni parte del campo. Ricordo che gli avversari non lo tenevano. Ci fu un’azione strepitosa che, se solo fosse stata conclusa con il gol, potrebbe essere tuttora lo spot della Champions. Non andò bene. Le divinità del calcio hanno dato tanto a Futre, ma qualcosa hanno chiesto anche indietro. Un po’ il discorso, ma solo un po’, per un’altra scoperta del maggio 1987.

La settimana prima avevo avuto un’altra folgorazione. Si chiamava Marcel, ma il mondo lo avrebbe conosciuto come Marco. Marco Van Basten. Non era un 10, ma ecco, con Hagi, Van Basten e Futre arrivai a pensare: “C’è vita oltre Maradona”. E per dirla tutta, sempre a maggio, nel giorno dello scudetto partenopeo segnò Baggio. C’era grande attenzione su di lui, ma non lo ritenni al pari di Hagi o Futre.

Nel Giugno del 1987, a Milano si tenne il Mundialito per club. Il Milan, con l’innesto di Borghi, vinse il torneo. C’era anche il Porto in quel torneo (il primo trofeo dell’era Berlusconi) ma non Futre, che in quell’estate rovente passò all’Atlético Madrid del vulcanico presidente Jesús Gil, che se lo portò nella capitale sborsando l’equivalente di 11 miliardi di lire. Oltre a una sobria Porsche gialla, che era un affronto all’estetica.

Futre, considerato la risposta a Maradona, avrebbe dovuto essere il fuoriclasse in grado di contrastare i Sanchez, i Butragueño e il resto de La Quinta del Buitre. Il primo derby madridista si giocò su un campo pesante, non ideale per le giocate rapide e tecniche del lusitano. Questo dicono i manuali, che, però, smettono di valere in presenza di classe distillata.

Dopo aver mancato un paio di gol nel primo tempo, Futre segnò il 2-0 per i suoi fulminando di sinistro Buyo al termine di una serpentina stretta con la quale aveva mandato per terra due difensori del Real. Da lì in poi, il diluvio. Un acquazzone di classe e giocate dispensate senza soluzione di continuità. Il sinistro del portoghese servì due assist perfetti per il 4-0 finale, che scolpì un risultato che è a tutt’oggi ricordato con orgoglio e vergogna, a seconda del tifo. Sul 4-0, Futre s’involò sulla sinistra e tirò sul primo palo: Buyo deviò in angolo.

L’Argentina campione del mondo nel 1978 affrontò l’Inghilterra nel 1980 a Wembley in amichevole. Un diciottenne saltò quattro inglesi in un fazzoletto e calciò fuori sull’uscita del portiere. Sei anni dopo, lo stesso giocatore argentino saltò anche il portiere inglese e divenne il barillete cosmico. Perché questo? Perché forse anche Futre ricordò quest’azione finita male quando, e siamo nel Giugno del 1992, si giocò la Copa del Rey.

Incredibilmente, viste le premesse e lo sbalorditivo inizio, la stella di Futre era appannata, molto sfocata, quasi spenta, a causa di numerosi infortuni, ma forse ancor di più per via di un certo fatalismo lusitano che tendeva, come un lato oscuro, a mettere in ombra il talento e a tramutare sorrisi in smorfie di dolore. La mattina di quella finale del 1992 è passata alla storia come la mattina di Aragonés. Il futuro allenatore della Spagna piombò nella stanza di Futre, che ancora dormiva, dicendogli:

“Ricordi cosa hanno fatto Michel, Gordillo e Hierro a Pizo Gomez? Sai come lo hanno umiliato?”
“Certo che lo so, lo hanno insultato ad un semaforo”, rispose un assonnato Futre.
“Bene, oggi dobbiamo vendicarlo. Devono ingoiare gli insulti e ricordare questo giorno per il resto della vita. Stasera sarai l’incubo di Michel, Gordillo, Hierro, del suo amico Buyo e compagnia. Oggi è il tuo giorno. E adesso torna a dormire”.

Sull’1-0 per l’Atlético, rete di un ex Real, un altro che avrebbe potuto marcare un’epoca, ovvero Bernd Schuster, Futre s’involò come quella volta nel 1987, ma questa volta la mise un po’ meglio: più alta, più angolata, più potente. Più tutto. Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, visto che aveva soltanto 26 anni, quel gol e quella vittoria furono l’inizio del crepuscolo per il lusitano triste, che aveva la faccia, il fisico e la tragica rassegnazione al destino che trova nel fado l’espressione culturale portoghese più appropriata.

Futre cominciò a frequentare più cliniche e ospedali che non campi da calcio, e dopo essere passato anche per l’Olympique Marsiglia (dove giocò con Völler e Stojkovic), arrivò alla Reggiana. Il debutto fu fragoroso. La Reggiana incontrò, nel novembre del 1993, la Cremonese. Futre, uno che aveva attorcigliato le gambe a gente come Sanchis e Gordillo, cominciò a sgusciare via come un mamba.

In una di quelle azioni segnò anche, dopo aver mandato in confusione un paio di difensori. Poi un difensore della Cremonese pensò che fosse abbastanza e lo mise fuori causa con un’entrata killer. Non si riprese più.

Giocò qualche partita anche l’anno successivo nella Reggiana, che però retrocesse. Il Milan di Berlusconi volle tentare di salvare quel talento puro e lo comprò, contando di guarirlo e di vederlo duettare in campo con Baggio e Savicevic, Weah e Van Basten, che erano tutti nella rosa del Milan 1995/96. Giocò una sola partita.

Il suo era un calcio vellutato, frenetico e verticale. Non aveva il piede di Hagi, ma era rapidissimo, aveva un dribbling stretto che gli permetteva di sgusciare via come un’anguilla. Aveva il gusto per la giocata e per l’impossibile, a volte sembrava attendere volontariamente che si formasse un nugolo attorno a sé solo per provare, in barba all’impenetrabilità dei corpi, ad andare via. E spesso ci riusciva, lasciando i difensori a scalciarsi tra loro.

Esclusivamente e sfacciatamente sinistro, come i grandi mancini che si rispettano, sembrava avere gli occhi dietro la schiena, un controllo assoluto non solo della palla ma pure dei corpi: il suo e quelli degli avversari che di solito lo circondavano per contrastarlo, riuscendo spesso solo a scalciarlo. O a scalciarsi tra loro.

“Per me rimane uno dei migliori giocatori che abbia mai visto giocare in 30 anni di carriera.” (José Mourinho)

Non aveva le capacità balistiche da fermo degli altri 10 del periodo, ovvero Detari, Francescoli, Baggio, Stojkovic, ma aveva una capacità quasi unica di calciare forte e preciso in porta mentre scattava, senza rallentare la corsa, che si sarebbe rivista in Ronaldo e nel primo Shevchenko. Non aveva il lancio lungo illuminante di altri 10 ma un’abilità nell’assist corto, facendo passare la palla nella cruna di una miriade di gambe, che era quasi sciamanica e che avrebbe in parte ereditato Rui Costa.

E più degli altri 10 citati aveva la capacità, come Maradona e Baggio, di saltare avversari su avversari, contando solo su un controllo di palla magnetico e su una finta di corpo secca e fulminea, capace di mandare in controtempo anche uno spettatore in tribuna. Oltre ad una naturale propensione a giocare indifferentemente a destra come a sinistra, sfruttando l’accelerazione selvaggia nei primi 20 metri o il ricamo nello stretto accentrandosi. Ala, trequartista, seconda punta: in Futre si potevano ritrovare parte di queste caratteristiche specifiche assemblate insieme.

Né gli mancava, a differenza degli incompiuti, il carattere. Lo tradì un fisico non troppo adatto a continue riabilitazioni e, forse, una serie di scelte sbagliate con club e nazionale. Il suo oblio è dovuto in gran parte anche al capitolo nazionale. Come detto, ai tempi i calciatori li si scopriva soprattutto attraverso la tv e nelle grandi kermesse internazionali. E anche in nazionale è riuscito ad evitare l’incontro con la fama che avrebbe meritato.

A 17 anni infranse il record di precocità debuttando in un incontro per le qualificazioni a Euro ’84. Ritenuto troppo giovane, fu scartato nella spedizione francese che avrebbe visto i lusitani arrivare fino alle semifinali e perdere quasi allo scadere dei supplementari per un gol di Platini. C’era però a Mexico ’86, dove subentrò nella partita con l’Inghilterra portando anche fortuna, dato che subito dopo il Portogallo segnò il gol-vittoria. E trovando il tempo di far impazzire i difensori inglesi, inadatti e impreparati ad assorbire attacchi portati a una simile velocità.

Ma quel Portogallo era al termine di un ciclo, e finirono ultimi del girone. La nuova gestione vide i “messicani” in rotta con la stessa; il Portogallo era inserito nel girone con l’Italia nella corsa a Euro ’88, ma non fu mai convocato nelle partite contro gli Azzurri, che vinsero il girone.

Troppo giovane per dare un contributo a Euro ’84, troppo vecchio e logoro per dire la sua nella nazionale lusitana che, dopo il 1992, cominciò, anche grazie alla generazione di Figo, Rui Costa e João Pinto, a spaventare l’Europa. Quando arrivò qualche connazionale con cui dialogare e dipingere calcio, non potè farlo. 41 caps e 6 gol sono uno score ridicolo per uno con le sue potenzialità. Un giocatore sospeso a metà, figura di passaggio tra due cicli. Si usa dire che gli dei preferiscono gli eroi giovani. Un fato avverso gli diede molto subito, ma tanto, e presto, chiese indietro.

Il meglio del repertorio di Futre in un video. Avvertenza: se ne esce vagamente storditi…

La sua carriera è stata struggente e malinconica come può esserla una serata a Porto, con la persona giusta, a cena sulle note di un fado. Eppure il 1987 di Futre fu spettacolare, mentre Gullit aveva vinto in Olanda e ben impressionato in Italia, come del resto avevano impressionato anche Careca, Polster e Sliskovic.

Dopo il Milan giocò ancora, ma il meglio lo aveva già dato. Andò in Inghilterra nel 1996/97, al West Ham, nel periodo storico in cui la Premier League cominciava a crescere in soldi e valore tecnico. Ecco, immaginate uno come Futre in un paese che reputava di tecnica sopraffina un giocatore come Barnes. Il pubblico hammers rimase sbalordito ai primi dribbling nello stretto e ai primi tunnel (specialità nella quale eccelleva), ma durò poco anche a Londra.

Così come la triste minestra riscaldata del ritorno all’Atlético Madrid, ad osservare un giovane Vieri fare strage di gol e Pantic con la maglia numero 10. Quel numero che era stato suo. E dei grandissimi del calcio.