L'eleganza magiara: Flórián Albert, il fuoriclasse barocco - Zona Cesarini

L’eleganza magiara: Flórián Albert, il fuoriclasse barocco

“Movimento per definizione anti-accademico, il Barocco si realizza nella forma aperta, libera e ricca di preziosismi. L’arte barocca dà forma all’Infinito e alla ricerca di esso attraverso il principio della meraviglia, l’uso abbondante della metafora e del simbolo; l’illusione del sogno. Non chiede, bensì pretende di suscitare emozioni”. (Rudolf Wittkower)

Il grande critico d’arte teutonico non avrebbe meglio potuto descrivere la portata rivoluzionaria del movimento ispirato ed iniziato da Bernini e Borromini nella Roma seicentesca. Può sembrare inappropriato accostare un giocatore ad uno stile pittorico o architettonico, ma in fondo sempre di arte stiamo parlando. In questo caso, va detto che se c’è un giocatore degno di essere accostato alla parola arte, quello è Flórián Albert; per molti, semplicemente il giocatore più elegante di tutti i tempi.screen-shot-2016-09-29-at-10-53-47Flórián nasce a Hercegszántó durante la seconda Guerra Mondiale e pochi mesi dopo l’instaurazione del governo filo-Nazista. Il suo minuscolo paese d’origine è situato nel profondo sud dell’Ungheria a soli 15 kilometri dalla frontiera jugoslava, ben più vicino a Belgrado che alla capitale Budapest. E sin da piccolo, viene irriso per quel suo ungherese dal forte accento slavo.

Il padre – contadino e fabbro a tempo perso, che riesce a sopravvivere al conflitto bellico – dopo l’invasione dell’Armata Rossa decide di spostare la famiglia nella capitale: per un erede dello spirito kulaki come lui, la collettivizzazione auspicata dal nuovo governo filo-sovietico non è minimamente accettabile. Inoltre, la prematura scomparsa della madre (croata) aveva privato la fattoria di mano d’opera necessaria al sostentamento familiare.

Non che la vita in città inizi sotto i migliori auspici: assieme al padre, Florian vive con sgomento il fallimento della Rivoluzione, che si conclude con circa 2800 vittime civili e l’adesione forzata al Patto di Varsavia, che sarebbe durata sino alla caduta del Muro.

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Budapest durante la Rivoluzione ungherese (1956)

In questo clima di repressione e sovietizzazione della società magiara si forma il giocatore-Albert, sin da giovane famoso per le sue intuizioni, la visione di gioco eccelsa e le improvvise accelerazioni che lasciavano pochi dubbi su cosa avrebbe fatto da grande: “Ez egy focista” (“È un calciatore”).

Di una eleganza e classe innate, il giovane pare danzare col pallone piuttosto che corrervi dietro. Insomma: è un fiore barocco all’interno di un contesto costruttivista marchiato URRS. Un re delle geometrie curve e un principe dell’intuizione; nonostante non si tiri indietro in situazioni di corpo a corpo o di contrasto su palle vaganti.

Il calcio ungherese, però, vive un periodo piuttosto particolare: la nazionale dei vari Puskas, Kocsis e Kubala stava cominciando ad essere uno sbiadito ricordo, affidato più alla memoria dei tifosi che ai flashback generati dai pioneristici e sporadici filmati in bianco e nero che si potevano vedere al cinema prima delle grandi proiezioni. Non che il livello fosse basso, sia chiaro, però non era quello monstre della generazione d’oro. Insomma, si era appena aperta un’epoca di transizione.

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La classica apertura di prima per l’ala a firma Florian

È in questo clima di tensioni politiche e ricambio generazionale calcistico che nasce la leggenda di Florian Albert, che entra in quella che sarebbe stata la sua casa per 22 anni – il Ferencváros – all’età di 11 anni e bypassando pure il provino: che fosse forte, lo sapevano già tutti. Bizzarro che su di lui non abbia puntato la leggendaria squadra dell’esercito e di Puskas, l’Honved, che ai tempi rappresentava ancora il non plus ultra calcistico della capitale.

Esordisce in campionato nel 1958 appena 17enne, con una doppietta, mostrando da subito le immense qualità tecnico-tattiche. Schierato come centravanti di costruzione, è pressoché imprendibile per le difese avversarie e totalmente ambidestro fin dall’adolescenza. Per la capacità di far reparto da solo e di far appoggiare la squadra su di sé, ricorda da vicino l’ultimo Ibrahimovic, ma con le movenze e una progressione verticale palla al piede degna di Kakà. Inoltre, ha un approccio verso il gioco e i compagni di totale riverenza: per lui giocare a calcio rimane un dono e un assoluto privilegio, più che un lavoro.

“Era molto umile, sempre a disposizione dei compagni di squadra. Era un giovane rispettoso, ben educato e intelligente, sia in campo che fuori. Un talento straordinario, difficile da spiegare e felice di poter semplicemente scendere in campo. Altrove sarebbe stato il migliore, ma è nato in Ungheria e questo non aiuta mai il talento a sbocciare”. (Gyorgy Szepesi, il “Bruno Pizzul ungherese”)

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Una rara foto di quel Ferencvaros

Col Ferencvaros avrebbe giocato in carriera in altre 536 occasioni, per un totale di 258 reti nelle competizioni ufficiali, per un palmarès che il giorno del ritiro contava quattro vittorie in campionato e due nelle coppe nazionali. Più a livello europeo la vittoria in Coppa delle Fiere nel 1968, di cui parleremo più avanti.

Vittorie coi biancoverdi a parte, fin da subito Albert riceve le attenzioni dei media del paese e soprattutto del CT dei grandi Lajos Baroti, sorpreso di vedere emergere quasi dal nulla un giocatore tanto eclettico e pragmatico quanto elegante nelle movenze. Quando Lajos decide di convocarlo per la prima volta in un’amichevole contro la Svezia nel 1959, Albert non è neanche maggiorenne: sarà la prima di 75 apparizioni coi Magyarok, condite da un totale di 31 reti.

Ma la stagione della consacrazione è quella seguente: il Ferencvaros arriva secondo, ma Albert diventa il capocannoniere del campionato con 27 reti. Insieme ai gol, arrivano pure i titoli a caratteri cubitali sui giornali ed una relativa fama a livello intra-nazionale. Per il giovane talento di cui tanto si parla in vista delle Olimpiadi di Roma del ’60 cominciano così ad aprirsi le porte dei top team europei.screen-shot-2016-09-29-at-10-34-08 Un po’ per completare la propria crescita e un po’ perché non era semplice uscire da un paese in orbita sovietica, Florian rifiuta le offerte rimanendo legato al club che lo aveva accolto fin dall’infanzia.

Dopo l’inaspettata cavalcata che vale la medaglia di bronzo per l’Ungheria – in cui segna 5 reti in altrettante partite – Albert, coi Fradi, bissa il titolo di capocannoniere prima, e dà inizio ad un ciclo che li avrebbe portati a vincere quattro campionati in sei stagioni poi. Florian è il leader di quella squadra: ha una visione di gioco superiore, un dribbling secondo solo a quello di Best in Europa e una notevole freddezza sotto porta. Inoltre, ha l’innata capacità, con una giocata, di spaccare partite altrimenti bloccate.

Qualità che Albert mette in evidenza pure nella stagione 1964/65, che consegna la squadra del nono distretto di Budapest agli annali in quanto primo club ungherese a sollevare una coppa europea; alla fine di un’incredibile cavalcata fatta di tre spareggi su sei partite, i biancoverdi sollevano la Coppa delle Fiere dopo aver battuto in successione Roma, Manchester United e infine Juventus.

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Un tanto classico quanto avanguardistico pallonetto

Quando arrivano i Mondiali del ’66 Albert è ormai una stella affermata, inutilmente ambito da ogni squadra del vecchio continente. Ed è proprio nel torneo inglese che la squadra ungherese passa alla storia grazie al leggendario 3-1 rifilato ai danni del Brasile (orfano di Pelè, infortunatosi nel primo match del girone).

Florian ancora una volta si prende la parte di attore protagonista, procurandosi il rigore che sblocca la partita dopo una lucida cavalcata di 30 metri palla al piede. Peccato che il sogno di riscattare l’Ungheria di Puskas – ironia della sorte – s’infranga ai quarti proprio contro l’Unione Sovietica:

“In campo contro il Brasile c’erano Gerson, Tostão e Garrincha, ma tutto lo stadio inneggiava ad Albert”. (Sandor Matrai, stopper dell’Ungheria)

Ma l’anno seguente Florian si prende la sua rivincita battendo i fuoriclasse Charlton e Beckenbauer nella corsa al riconoscimento singolo più ambito, il Pallone d’oro. Dopo 9 anni di professionismo, tra botte subìte, gioie, dolori e allenamenti sfiancanti nella periferia di Budapest, a 26 anni il talento magiaro è ufficialmente entrato nell’Olimpo dei grandi. screen-shot-2016-09-29-at-10-51-40Per lui si muovono Real e Barcellona – club da sempre attenti ai talenti ungheresi – ma ormai è troppo tardi: Albert è e sarà per sempre una Zöld Sasok, un’aquila verde. Non solo, è diventato qualcosa in più: è la risposta a chi sosteneva che il calcio ungherese fosse finito in Svizzera, dopo la discussa sconfitta dell’Aranycsapat in finale mondiale contro la Germania Ovest.

Florian negli anni non solo è sublimato in emblema sportivo della maggiore delle cinque squadre di Budapest, bensì dell’intero Stato. Non essendo scappato ad Ovest per diventare milionario, era adorato dalla stampa governativa: se pochi anni prima Puskas e altri campioni ungheresi erano partiti per un tour in Sudamerica senza più fare ritorno, contribuendo al successo delle big iberiche piuttosto che delle squadre nazionali, Albert invece era rimasto. Diventando un simbolo magiaro.

Era adorato dai tifosi per quel suo modo di giocare così fantasioso e magnetico, oltre che concreto e altruistico. Era diventato a tutti gli effetti l’icona da sbattere in prima pagina sul Magyar Hirlap – l’hombre del partido del non-Stato ungherese -, incredibilmente assente dai registri del KGB dell’epoca brezneviana. Non che Florian si fosse mai schierato da una o dall’altra parte: ha sempre indirizzato la sua concentrazione intelettuale sul calcio giocato.

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Albert spara in uno spot per il Governo

I riccioli mori e una faccia poco attraente ma dall’espressione intrigante – abbinata a quel fisico dall’aspetto così ordinario – lo rendevano una figura particolarmente curiosa. Un guscio sgraziato e sofferente, a protezione di un’anima battagliera ed intuitivamente barocca. Un bislacco mix di elementi anti-estetici e di aggraziato dinamismo al tempo stesso.

Il tutto inserito in quell’atmosfera egemonizzata dal sospetto e dalla paranoia, tipica dell’Ungheria sovietica degli anni ’60 e ’70 – perfettamente descritta nel romanzo-spy La Talpa di John le Carré – e in un calcio che ereditava i precetti di un’epoca recente, ma non più al passo coi tempi.

Perché Albert e compagni rimangono gli ultimi mohicani” dell’epoca d’oro del calcio danubiano, il cui stile di gioco altro non era che la fusione del Sistema inventato dal britannico Herbert Chapman col Metodo dell’allora CT della Nazionale italiana Vittorio Pozzo. Il Ferencváros, in particolare, utilizzava il modello pre-metodista: quello del calcio dinamico con l’obbligo di manovrare la palla in linea e raggiungere la porta avversaria mediante una fitta ragnatela di corti passaggi e un gran movimento di uomini senza palla.screen-shot-2016-09-29-at-10-51-23Fondamentali come valvola di sfogo del gioco sono il centromediano – posto appena dietro la fila dei centrocampisti, deputato ad appoggiare l’attacco e intercettare il gioco davanti alla difesa – e soprattutto il centravanti, che, oltre a fungere da terminale, spesso doveva giocare leggermente arretrato per lanciare nello spazio le mezzali deputate al gol. E, senza Albert in quella posizione, i successi del Ferencváros non sarebbero arrivati.

La carriera di Albert e la storia del Ferencváros subiscono un triste e brusco epilogo all’alba degli anni ’70: Albert, infatti, si frattura una gamba con la Nazionale nel 1969 ed è costretto a rimanere fermo per due anni. Quando rientra, ha una gamba più corta di due centimetri e perde qualcosa in equilibrio e coordinazione; è sempre un piacere guardarlo, ma non ha la stessa continuità né l’efficacia precedente.

La squadra assiste invece impotente all’ascesa dei rivali dell’Ujpest, anche se c’è tempo per il canto del cigno: nel 1972 raggiunge la semifinale di Coppa Uefa, mentre nel 1975 la finale di Coppa delle Coppe (persa contro la Dinamo Kiev).

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Il “Florian Albert Stadion”

Ma nel 1975 Albert si era già ritirato, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dei tifosi e consegnandosi definitivamente alla storia come il miglior giocatore post-Aranycsapat uscito dalla scuola ungherese. Così amato che nel 2007 il Ferencváros gli ha intitolato il proprio stadio.

Talento cristallino e giocatore totale ante-litteram, spietato terminale d’attacco e al contempo ottimo assist-man, Albert è stato senza dubbio l’ultimo vero fuoriclasse di cui l’Ungheria abbia potuto fregiarsi. Cittadino onorario di Budapest e degno erede di Puskas, si è spento nel 2001, pochi giorni prima del suo 70° compleanno. In tempo per vedere il suo paese rinascere dopo aver abbracciato la democrazia nel 1989 e l’Europa nel 2004, e pure per risparmiarsi l’ascesa al potere di Viktor Orbán.

“Ritka, mint a fehér holló. – Raro, come un corvo bianco”. (Detto ungherese su Florian Albert)