Amore o odio: discussione su Pavel Nedved - Zona Cesarini

Amore o odio: discussione su Pavel Nedved

“Nel mondo ci sono solo due tipi di persone: quelle che adorano Bruce Springsteen, e quelle che non l’hanno mai visto in concerto.” (Larry Katz, Boston Herald)

La frase attribuita al giornalista del Boston Herald sull’impronta che il Boss lascia durante i suoi live può tornare buona anche a proposito di Pavel Nedved, il giocatore che divide per antonomasia: semi-divinità pagana in patria e per i tifosi juventini, è il giocatore di Serie A più inviso agli occhi degli avversari negli ultimi venti anni.

Competitor di razza ed esemplare professionista, quando si è ritirato il suo palmarès contava 5 scudetti (compresi i due di Calciopoli), un campionato cecoslovacco, l’ultima Coppa delle Coppe, numerose coppe Nazionali e un argento agli Europei (1996); e, naturalmente, l’insperato Pallone d’Oro del 2003.

Eccezionale centrocampista offensivo dotato di ottima tecnica, grande assist-man e corridore, Nedved si è costruito la fama di stakanovista e perfetto compagno di squadra e professionista, tanto amato dai compagni quanto odiato dagli avversari – “Dicevano e dicono che lei fosse un provocatore, un furbo, uno fastidioso” – “Sì, è vero, davo molto fastidio. Perché ero forte, avevano paura di me e parlavano”.

Proviamo ad analizzare l’eredità che il biondo ceco ha lasciato dopo il ritiro nel 2009 attraverso i punti di vista di due autori – Gianluca Lorenzoni e Giovanni Piccolino Boniforti – divisi da tifo e visioni divergenti. Perché si sa, nel mondo esistono solo due tipi di persone: chi ama Nedved e chi non è juventino.

Juventinità

di Gianluca Lorenzoni

“Se mi guardo alle spalle, momenti tristi non ne vedo. Forse la cosa peggiore che mi è successa è di non aver giocato la finale di Champions; però la Juventus era in campo. Anche quando penso alla retrocessione non riesco ad essere triste, perché la Juventus c’era e c’è sempre. Quel che resta, alla fine, è la felicità di giocare per la Juventus, Perché noi giocatori passiamo e la Juventus rimane. Per sempre”.

Nedved diventò ufficialmente un giocatore della Juventus il 5 luglio 2001, durante quella che può essere definita la seconda rivoluzione bianconera nell’era dei tre punti, dopo il post-Champions ’96 che vide gli addii di Vialli, Ravanelli e Paulo Sousa e gli innesti, tra gli altri, di Zidane e Montero. La sessione estiva ’01 è stata però sicuramente di portata superiore e ancora oggi si cita l’affaire-Zidane come una delle operazioni di mercato tra le più sanguinose e al contempo magistrali che si ricordino. Ecco, Nedved incontrò i colori bianconeri quasi per caso, ma sicuramente non per sbaglio.

Fosse dipeso da lui sarebbe rimasto a vita alla Lazio, tanto da accettare la riduzione d’ingaggio proposta da Cragnotti, che nell’ottica del patron biancoceleste significava mettere il ceko alle strette e monetizzare dalla sua cessione, già concordata per 75 miliardi. Niente da fare: Nedved non voleva saperne di lasciare Roma. Fu la scaltrezza di Raiola e Moggi a portarlo, quasi con l’inganno, a Torino, ufficiosamente solo per visitare le strutture bianconere: la cosa, però, finì sui giornali, i laziali non la presero benissimo e Pavel si ritrovò di fatto separato in casa e costretto ad accettare la nuova destinazione.

I fatti dimostreranno come non potesse concretizzarsi un connubio migliore. Perché Nedved era portatore sano di tutti quegli elementi che da sempre costituiscono l’immaginario bianconero: la volontà di primeggiare, la continuità, il pragmatismo, la cultura, a tratti maniacale ed esasperata, del lavoro. In sostanza, Nedved era già juventino, prima ancora di diventarlo.

Se Del Piero ha rappresentato il continuum con il proverbiale stile-juve, Nedved ha incarnato alla perfezione quell’orgoglio e l’irrefrenabile desiderio di conquista, talvolta furastico e impetuoso, che da sempre caratterizza, magari celato dalle apparenze, l’essere bianconero. Se quello per il numero 10 può essere definito un amore spirituale, nel caso di Pavel si tratta più di passione carnale.

Mentre i fantasisti alla Zidane riempivano gli occhi e il cuore, il ceko mirava direttamente alla pancia, trasportandoti in una dimensione di pulsioni vorticose e viscerali, al limite del barbaro e brutale.
Per anni è stato il capobranco, la guida carismatica pronta a sporcarsi le mani se necessario per trascinare i compagni.

Dopo un avvio stentato, complice una collocazione tattica non ottimale, la vera scintilla scoccò a Piacenza al minuto 88 di una partita che sembrava contornare la resa nella lotta scudetto con l’Inter di Cúper, e che invece si tramuterà nel tassello necessario per l’epilogo assurdo del 5 maggio.

Per altre sette stagioni Nedved ha messo il proprio talento e il proprio agonismo al servizio della causa bianconera, incondizionatamente. Oltre ai tiri dalla distanza, le sgroppate selvagge, i gol alle spagnole, le punizioni dal lato corto, i capelli in perenne agitazione e le gambe storte in maniera quasi innaturale, ci sono due episodi che mi fanno riservare un posto di riguardo nel mio personale pantheon per il numero 11.

Il primo non può che essere la decisione di scendere in B, a 34 anni, rinunciando di fatto ad inseguire quel sogno personale chiamato Champions League. Nel documentario dei fratelli La Villa, Bianconeri – Juventus Story, nelle sale qualche giorno fa, è lo stesso Pavel a svelare il retroscena di quella scelta.

Durante una conversazione in quei momenti concitati, la moglie Ivana gli chiese “Ma se andate tutti via, tu, Buffon, Del Piero… cosa succederà alla Juve?” Nedved non seppe dare una risposta. E questo sentore di drammatica incertezza, unito ad un innato senso del dovere, fu la spinta a rimanere; lo avevano già fatto passare per traditore una volta, suo malgrado, i tifosi laziali. Questa volta doveva essere diverso. E infatti Pavel Nedved è ancora lì, sulle tribune come in campo, eretto ormai a simbolo massimo della juventinità.

L’altro è di pochi mesi prima, aprile 2006. Gara di ritorno dei quarti di finale di Champions, a Torino arriva l’Arsenal forte del 2-0 di Highbury. La squadra di Capello, nonostante individualità di livello assoluto, si dimostra incapace di riaprire la qualificazione. Nedved è l’unico a dannarsi, almeno fino al minuto 75, quando decide che per lui può bastare così. Se siamo rassegnati alla sconfitta, io tolgo il disturbo: così non fa per me.

Fallaccio su Eboué e rosso. È una delle rarissime volte in cui vedo Pavel smettere di correre. La seconda sarà il giorno del suo addio, quando si concede il giro d’onore sotto la curva. Il suo moto perpetuo lascia spazio ad una camminata lenta verso gli spogliatoi, con la stessa soddisfazione di un guerriero che prima della resa ha preteso per sé un ultimo, inutile quanto simbolico scalpo.

Non si dovrebbe dire, perché non è sportivo, non è corretto, non è morale, ma in quell’istante Nedved si è fatto portavoce ancora una volta della frustrazione e dell’impotenza che stavamo provando davanti allo scempio apatico targato Capello. Quel fallo sapeva di liberazione. Di espiazione. Fine pena: ora.

Ecco, sì, Nedved è uno di quei pochissimi giocatori che finisci per amare irrazionalmente qualunque cosa faccia, come fosse una religione monoteista alla quale hai deciso di aderire. E (almeno) in questo sono sempre stato un devoto fervente.

Juventinità 2.0

di Gio Piccolino Boniforti

“La Juventus mi ha dato tutto. Qui ho acquistato la mia mentalità vincente, quella che ti fa dire che ogni partita è una battaglia. Ho imparato ad essere esigente con me stesso e come affrontare e superare le difficoltà”.

Il mio problema con Nedved è proprio questo: è il giocatore che maggiormente associo alla Juventus, dopo le bandiere Alex Del Piero e Dino Zoff. Eppure, il mio odio sportivo per Nedved deve assolutamente avere ragioni più profonde.

Il perché è presto detto: Del Piero l’ho sempre apprezzato (anche ammirato, ma dicendolo sottovoce) per la sua classe sul rettangolo di gioco e per quel suo modo di essere personaggio e non-personaggio fuori dal campo, mentre Zoff nella mia retina è impresso come colui che portò la Nazionale al trionfo nel Mondiale del 1982. È inoltre colui che maggiormente ho apprezzato alla guida tecnica degli azzurri, nonostante alcune scelte discutibili, che sono convinto ci siano costate un Europeo.c_3_media_1574972_immagine_ts673_400Va inoltre detto che caratterialmente non ho uno spiccato spirito campanilistico, forse aiutato dal fatto di aver ereditato la fede calcistica dal pater familias più che dal contesto cittadino (diverso) in cui sono cresciuto. A differenza di tanti concittadini, il mio odio verso la Juve è meno acuto, mentre un’inutile e forse “paraculistica” visione delle cose mi impone un approccio al calcio distaccato e sereno: le liti da forum Gazzetta.it non mi sono mai piaciute.

Eppure, con Nedved ho sempre perso la testa; il mio approccio radical chic al calcio è sempre venuto meno davanti alla Furia ceka. Perché, riflettendoci su, alla fine Zoff e Del Piero per me sono la Juve, mentre Nedved è tutto ciò che non va nella Juve. Per spiegarlo in parole profane: vedo Del Piero e penso all’Uliveto e ai gol al giro, vedo Zoff e penso a quando chiude la saracinesca di fronte al Brasile. Se vedo Nedved, penso alla triade, al rigore di Iuliano su Ronaldo, e provo frustrazione, rabbia o comunque irritazione.

Io, Robot

(G.P.B.)

“Il più grande professionista mai conosciuto. Un giorno sento una sua intervista in cui racconta che la mattina, a casa, va sempre a correre prima di venire all’allenamento. Non ci credo e il giorno dopo lo prendo in disparte: “Pavel, mica sarà vero quello che hai detto”. Resto senza parole: è proprio così. Si svegliava, correva da solo e poi nel pomeriggio si allenava. E arrivava sempre davanti a tutti noi”. (Paolo Montero)

L’età è una brutta bestia: si perdono cose e si guadagna in esperienza. La società e gli eventi pregressi ci impongono un adattamento, o quantomeno un cambiamento. Che poi questo porti ad un miglioramento o un peggioramento della nostra condizione psico-fisica, non ci è dato saperlo.

Eppure ci sono i casi di Pavel Nedved e Javiér Zanetti. Hanno gli stessi capelli e lo stesso fisico da 20 anni. La quantità di coraggio che ogni giorno iniettano nel proprio flusso sanguigno è la stessa da quando sono nati. Già ce li vedo, nascere coi capelli (lunghi e biondi o corti con divisa laterale, poco importa) già studiatamente in ordine, mentre chiedono ai loro genitori se c’è un campo libero vicino casa in cui allenarsi h24.Nedved – ai miei occhi – negli anni ha guadagnato in tutto: sembra più bello ora a 40 anni suonati che all’esordio nella Lazio. Mi sembra scalare i gradoni della tribuna più velocemente di quando contendeva una palla a Gattuso in mezzo al campo. È sempre più incisivo e scaltro nelle dichiarazioni, quasi fosse rimasto vittima inconsapevole del morbo di Eric Cantona: la malattia secondo la quale con l’età si diventa ancor più creativi, cool e sagaci.

In un’epoca in cui perdiamo in agilità, fisico e freschezza mentale, la sindrome alla Benjamin Button di Pavel mi fa incazzare ancora di più. Anche se il motivo è futile, odio anche per questo l’eterno ragazzo ceko. Che poi il tutto sia dovuto ad una vita ventennale da simil-monaco tibetano – sono tuttora note le sue 250 flessioni appena suona la sveglia – poco importa: lo odio e basta.

L’effetto-Cagnotto & l’esultanza sproporzionata

(G.P.B.)

“Dicevano e dicono che fossi un provocatore, un furbo, uno fastidioso. È vero: davo molto fastidio. Siccome ero forte, avevano paura di me e parlavano.” (Intervista a Il Giornale, 2010)

Ok, sono scivolato nei soliti cliché: Nedved che simula e si butta, Nedved che è così calato nel match sul  piano agonistico da passare sopra ad ogni tipo di logica o rispetto dell’avversario. Probabilmente nella sua testa non è così che stanno le cose, date le piccate risposte – un po’ sulla difensiva – che ha rilasciato quando interpellato sull’argomento.

Avendo praticato lo sport – seppur a livello infimo – capisco benissimo il concetto di trance agonistica. Esisti solo tu: non ci sono tifosi o avversari che tengano, né compagni che siano in grado di scalfire anche lontanamente la tua determinazione e la tua voglia di competere. Ci sei solo tu, e l’obiettivo. Il problema di fondo è che questo meraviglioso status mentale, che ti permette l’impossibile, lo si prova in rare situazioni in carriera.

Pavel invece pare essere nato e cresciuto in quel limbo di furore, determinazione ed agonismo. Teso come una corda di violino ma al contempo lucido, non è un caso che Nedved spesso fosse per terra. Che lo fosse per motivi reali – spesso era troppo forte e superiore fisicamente rispetto all’avversario diretto -, è innegabile; che pero’ fosse furbescamente in grado di lucrare su questo fattore, pure. Perché la fama è spesso immeritata, ma ha pur sempre un padre.

Così come è noto quanto spesso andasse sopra le righe anche in fase di non possesso. Un episodio emblematico che spiega la voglia di non perdere – più che di vincere – di Nedved potrebbe raccontarlo il rapper Moreno, che dopo un tunnel ai danni del biondo ceco durante un match di beneficenza ne pagò duramente le conseguenze:

Insomma: esiste una sottile linea di confine tra agonismo e furore competitivo e rispetto dell’avversario, tra tanta ed eccessiva energia. Che spesso Nedved ha superato. Anche nelle proverbiali esultanze, il più delle volte irritanti perché solo in parte giustificate dal contesto. Perché come ha detto un mio amico di recente, solo Nedved era in grado di esultare per un gol sul 4-0 all’Ancona come se avesse segnato un gol decisivo ai Mondiali“.

Cêská Avantgarda

(G.L.)

“La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.” (Manifesto del futurismo, punto 3)

Quello che Pavel Nedved ha portato a cavallo dei Novanta e metà Duemila al mondo del calcio, profuma di vera e propria rivoluzione. Il ceko è stato il precursore, insieme a Shevchenko, del mutamento, con i giocatori chiamati non solo a fare molte più cose, ma a farle bene e alla massima intensità, coadiuvati da una preponderanza fisica sempre più accentuata, frutto per entrambi di una dedizione quasi robotica verso il lavoro, lascito della loro formazione di stampo sovietico.

Nedved ha di fatto modificato la poetica attorno ai giocatori di classe, spingendola verso una modernità necessaria. Ha segnato il passaggio da un’estetica aristocratica, ampollosa, a tratti barocca dei fantasisti o delle ali offensive à-la Zidane o à-la Figo, ad un elogio del furore, della dinamicità perpetua, ad una nuova prospettiva fatta di linee rette e verticali, intese come la distanza più breve da percorrere per arrivare alla vittoria. Un passaggio di consegne che simbolicamente si compie in quel famosissimo Juve-Real Madrid.

“Non mi posso paragonare tecnicamente e a livello di fantasia a un campione come Zidane. Non sono alla sua altezza. Però io provo a dare quello che è mio: grinta, velocità e concretezza.”

Nedved è stato senza dubbio un barbaro, nell’accezione baricchiana, capace di distruggere la bellezza lenta e ragionata con un nuovo paradigma fatto di intensità, corsa, potenza e concretezza. Ha sostituito l’eccellenza con la completezza: sapeva fare tutto, di destro e di sinistro, in qualunque zona del campo e in qualunque contesto.

Nedved giocava con una tale forza, di gambe e di volontà, da apparire spesso e volentieri come uno di quegli uragani caraibici capace di investire chiunque gli si parasse davanti lasciando solo macerie dietro al suo passaggio.

Solitamente amiamo due tipi di giocatori: da una parte i gregari che danno sempre il massimo, onorando la maglia col sudore più che con i piedi; dall’altra il campione in grado di farti vincere con una giocata, al netto magari di qualche indolenza di troppo. Nedved è l’anello di congiunzione tra le due categorie. E quindi merita di essere amato, logicamente, il doppio degli altri.

Pavel il Cyborg: un calciatore (troppo) moderno

(G.P.B.)

Nedved per caratteristiche globali è stato anni avanti a molti pari-ruolo europei. Dinamico, tecnico e fortissimo mentalmente, era in grado di eseguire perfettamente e ad altissimo livello entrambe le fasi di gioco. Feroce killer durante le sortite verso l’area avversaria, non si tirava indietro quando c’era da sporcarsi le mani in fasi difensiva.

Eppure, Nedved ha mandato indirettamente in pensione una categoria di giocatori tanto romanticamente quanto obiettivamente non più proponibile per il calcio moderno: quella dei numeri 10 tutto-fase-offensiva, pigri in fase di non possesso e non assimilabili da sistemi non più capaci di proteggerli e valorizzarli. Ecco, forse Nedved è stato troppo forte: ha invertito un trend e incoraggiato (sempre indirettamente) truppe di DS alla ricerca del prototipo del centrocampista totale. Di qualcuno che fosse in grado di essere contemporaneamente un 7, un 8 e pure un 11.

Nedved ha segnato lo spartiacque tra un calcio di specialisti, autoreferenziale, e un calcio di giocatori-cyborg, perfetti nella gestione della totalità delle situazioni a tutto campo. Interpreti come Bale sono figli dell’esempio di Pavel, che ha reso obsolete le versioni non aggiornate dei Riquelme e simili ed aperto la strada a quel futuro basato su intensità ed applicazione continue: un’evoluzione apprezzabile nel complesso ma che, allo stesso tempo, ha incenerito qualcosa di bello.

Born to Run

(G.L.)

“La sensazione che ho sempre avuto su B‪ruce Springsteen‬ è che, consapevole della fortuna del proprio talento, abbia sempre lavorato tantissimo per dimostrare (o dimostrarsi) di meritarselo. Questo è uno dei motivi per cui lo ammiro. Si è preso un impegno con chi lo segue: dare ogni volta niente di meno del suo meglio. È un impegno che ha sempre mantenuto”. (Luciano Ligabue)

Se non siete mai andati ad un concerto del Boss, fatelo. Se ci siete stati, sapete cosa intende il rocker emiliano. E lo stesso si può dire di Pavel Nedved, uno che si è guadagnato rispetto e devozione, grazie soprattutto al suo non essersi mai risparmiato, al dare ogni volta “niente meno del suo meglio”. Che unito ad un talento sopra le righe ha finito per creare una macchina da guerra.

Ma come per i concerti di Springsteen le corde toccate sono estremamente terrene, proletarie in un certo senso: dare tutto come forma massima di rispetto per chi crede in te. L’arte che diventa un lavoro, appagante certo, ma che richiede il dovere e la necessità di mantenere le aspettative. Nati per correre, entrambi. Fino all’ultima goccia di sudore.

Pavel Nedved potrebbe tranquillamente essere uno di quella miriade di personaggi che hanno costellato la poetica del cantautore del New Jersey. Il padre minatore, la madre commessa in un emporio, il riscatto sociale… armonica, Clemons che scalda il sax: sì, ci potrebbe stare. E poi la caduta sul più bello, l’immagine di perdente di successo che è un po’ il marchio di fabbrica del Boss: la volontà che si trova a fare i conti con la sconfitta.

Perché se elevare Pavel Nedved a figura dominata dalla volontà di vincere può essere sicuramente utile per tracciarne un ritratto semplice e peculiare, quello che da sempre mi ha fatto parteggiare per il ceko è il modo in cui ha mancato gli appuntamenti più importanti della propria carriera: la Champions e l’Europeo. Entrambi attesi invano come lo spettro di Tom Joad.

Ad una prima rapida occhiata ho sempre pensato che quelle due macchie finissero per sminuirne la grandezza. Un’ammonizione al 90° e un infortunio in semifinale contro la Grecia, due imprevisti ai quali, stranamente, non c’era scorribanda palla al piede o tiro dalla distanza in grado di porre rimedio.

A guardare bene, però, la sensazione che se ne ricava è che Nedved ne esca comunque da vincitore. Il suo ruolo salvifico non solo non è stato intaccato ma risulta addirittura rafforzato e ingigantito dalle sconfitte alle quali, suo malgrado, non ha preso parte. Quel “se c’era Nedved” è entrato di diritto nella nostra tradizione orale, come giusto omaggio alle gesta del ceko, cristallizzate in ricordi unicamente positivi, non contaminati da quelle sconfitte.

Purtroppo Nedved non c’era, ma questo è un altro discorso…