Diego Godín: contro il logorio del calcio moderno - Zona Cesarini

Diego Godín: contro il logorio del calcio moderno

Nel 1864 Rudolf Clausius, nel suo Abhandlungen über die mechanische WärmetheorieTrattato sulla teoria meccanica del calore –, coniò il termine di entropia dal greco ἐν en, “dentro” e da τροπή tropé, “cambiamento”, “punto di svolta”, “rivolgimento” (sul modello di energie, “energia”). L’entropia è quindi il grado di disordine congenito all’interno di un sistema, è il motivo per il quale è estremamente semplice spremere il dentifricio dal tubetto ma molto più difficile rimetterlo dentro.

I difensori, nel mondo del calcio, da sempre combattono proprio contro questa forza che regge l’intero universo. Si può quindi azzardare che difensori come Diego Godín siano alla stregua di cavalieri che vanno contro le leggi del cosmo. Il 17 aprile 2010 si gioca, in una serata umida e piovosa, la partita tra Villarreal e Atlético Madrid: non è quello che si potrebbe definire un big-match, dato che sia il Submarino amarillo sia i Colchoneros navigano a metà classifica, poco sotto la zona Europa League. La sfida però è intensa e combattuta e, al 21° del primo tempo il Villarreal batte un calcio d’angolo dalla sinistra con Ibagaza.

La traiettoria che prende il pallone non sembra delle migliori, troppo morbida e a mezz’altezza, eppure un lungagnone con la maglia numero quattro, piuttosto sgraziato nei movimenti, ci si avventa e, come una specie di folle ballerino di danza, si gira su se stesso, dando quindi le spalle alla porta e con un incredibile tacco volante di destro infila l’incolpevole De Gea: 1-0 per gli amarillos padroni di casa, che alla fine vinceranno per 2-1. Quella piovosa sera di aprile, non solo i dirigenti dell’Atlético Madrid si innamorano di quel numero quattro magro ed alto (tantoché in estate lo acquisteranno) ma anche il mondo inizia a sentire parlare dell’uruguayano Diego Godín, l’ultimo stopper del calcio contemporaneo.

Coefficiente di difficoltà: ribaltare i cliché sul difensore centrale roccioso ma limitato con un solo tocco.

Da circa quindici anni a questa parte, si legge spesso su giornali specializzati o si sentono i commentatori sportivi denunciare la “sparizione dei difensori centrali di una volta”. Se infatti libri seminali come Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi potevano utilizzare la similitudine “sfoderare la solita grinta alla Claudio Gentile”, è evidente come, da un po’ di tempo a questa parte, gli stopper siano dei veri e propri desaparecidos nel mondo del calcio: sia Sergio Ramos che Piqué, passando per Bonucci, Thiago Silva, Hummels o Varane infatti – citando sei tra i difensori più forti del mondo -, non rispondono alle caratteristiche identitarie dello stopper.

Lo stopper, generalmente, è un giocatore dotato di un fisico imponente, di base non troppo rapido ma che riesce, grazie all’acume tattico, al mestiere e all’abnegazione nell’applicare gli schemi difensivi dell’allenatore a neutralizzare gli attaccanti che è costretto ad affrontare: un giocatore quasi “pasoliniano” per il viso sofferente e da borgataro, il fisico possente ma asciutto e l’espressione costantemente distante. Se si volge lo sguardo alla decade precedente l’attuale, i nomi di grandi difensori prettamente marcatori si sprecavano: Ricardo Carvalho, Fabio Cannavaro, Jaap Stam ma anche in maniera leggermente differente Pluto Aldair o Lilian Thuram. Eppure, nel calcio attuale, forse più attento ad imporre, pressare e ricercare o chiudere ossessivamente gli spazi di gioco, i difensori old fashioned paiono scomparsi: una specie che non è riuscita a resistere all’evoluzione tecnico-tattica del gioco.

Luminosa eccezione è quella di Diego Godín. Il calciatore, acquistato per soli 27 euro (sì, avete capito bene, più o meno quanto pizza, birra, amaro & caffè con gli amici) dal Club Atlético Cerro di Montevideo nel 2003, è il prototipo del difensore “come ce n’erano una volta”. Ha un fisico asciutto e nervoso, resistente e flessibile come un pioppo che asseconda il vento, che gli permette di andare poche volte in difficoltà nelle situazioni di contrasto con gli attaccanti avversari.

Inoltre è dotato di un acume tattico impareggiabile che non gli fa sprecare troppe energie e, soprattutto, non essendo dotato di una velocità di base eccezionale – quando faceva coppia fissa con Miranda all’Atlético venivano soprannominati “gli idoli di sale” per la loro lentezza combinata – evita l’uno-contro-uno sullo slancio, preferendo il contenimento dello spazio di gioco e la marcatura stretta, spesso volta ad assorbire il raggio d’azione del diretto avversario in porzioni di campo poco pericolose, talvolta ruvida e spigolosa ma mai scorretta o fallosa a prescindere. Insomma, è l’ideale prosecuzione e insieme l’evoluzione dei caudillos tipici della tradizione uruguagia: da Nasazzi a Varela, passando per Montero e Diego Lugano.

La carriera di Godín è stata contraddistinta da grandi successi, come quello della “mitologica” Liga 2013/14, durante la quale, proprio il numero 2 segna – ovviamente di testa – la rete decisiva al Camp Nou contro il Barcellona. Già, perché se il centrale uruguayano è il primo riferimento della fase difensiva, spesso e volentieri si può tramutare nell’extrema ratio offensiva. Godín infatti è un difensore micidiale di testa quando sale per sfruttare i calci d’angolo. È un riferimento assoluto tra i saltatori e l’uomo chiave degli schemi su palla inattiva, sia per i Colchoneros che per l’Uruguay di Tabarez. La rete segnata contro la sua futura squadra il 17 aprile 2010 è stata soltanto la prima di una lunga serie di gol, molti dei quali pesantissimi: oltre alla già citata marcatura contro il Barcellona, c’è anche quella contro il Real Madrid durante la sfortunata finale persa dall’Atlético ai calci di rigore nel 2013/14.

Di Godín, comunque, anche i tifosi italiani si ricordano bene dato che è stato il grande protagonista di quella tragicommedia conosciuta come Italia–Uruguay, ultima partita del girone D del Mondiale 2014. La partita si gioca nel caldo-umido di Natal e non è quella che si può definire una bella partita: entrambe le squadre, reduci da deludenti risultati (sconfitte, l’Italia 1-0 e l’Uruguay 3-1 dalla sorprendente Costa Rica), debbono forzatamente vincere per poter passare il turno, e la paura e l’ansia di perdere dominano e condizionano il match.

Se alla memoria collettiva resta l’incredibile morso di Suárez a Chiellini, che ha fruttato al futuro attaccante blaugrana una sorta di Oscar come “meme dell’anno” – il web era letteralmente scoppiato di fotomontaggi ritraenti il numero 9 nei panni di lo Squalo di Steven Spielberg, di uno zombie o di un vampiro -, pochi realizzano come, ancora una volta, proprio Godín sia stato l’uomo decisivo. Ovviamente sugli sviluppi di un calcio d’angolo, stavolta battuto da destra da Gaston Ramírez, Godín “prende l’ascensore”, salta più in alto di tutti e con un colpo di testa perfetto batte Buffon e trascina la Celeste agli ottavi.

Anche in questo caso il fattore-Godín è quello fondamentale. Contro gli azzurri senza organizzazione e in condizione deficitaria, non poteva esserci più giusto “giustiziere” che il giocatore con più garra dell’intero Uruguay. Il centrale uruguayano insomma, in un sovvertimento dei sensi che sarebbe piaciuto a Stefan Zweig, è un’arma temibilissima in area di rigore, dato che riesce, anche per la preveggenza nel mappare i movimenti avversari, ad interpretare il tempo giusto per l’inserimento, saltando sempre nell’istante ideale, esibendo uno stacco imperioso e un colpo di testa secco e preciso in ogni specifica situazione d’impatto.

Ma Godín dà certamente il meglio di sé nella propria area di rigore. Osservarlo dal vivo, in questo senso, è un’esperienza interessante. Lo scorso 16 aprile c’è stato il match dei quarti di finale di Champions tra l’Atlético e il Barcellona; al di là che questa, assieme ad altre, può essere intesa come un vero e proprio capolavoro della filosofia cholista di Simeone, è anche una delle migliori partite giocate da Godín. Di fronte all’attacco più forte del pianeta, la “MSN”, anche il più rude dei centrali potrebbe sentire un certo sudore freddo alla schiena.

Nessuno dei tre gioielli del Barcellona, però, ha davvero inciso, anche e soprattutto perché, e qui torniamo al discorso precedente, il leader della difesa biancorossa ha giostrato a meraviglia gli automatismi difensivi che hanno reso celebre l’Atlético del Cholo, impedendo in ogni circostanza gli uno-contro-uno e gli isolamenti sulle fasce alle punte blaugrana. Senza strafare, senza interventi disperati o plateali “alla Sergio Ramos”, ma attraverso la forza della perseveranza, dell’attenzione per la gestione delle forze ed un forte carisma, Godín ha giganteggiato contro gli extraterrestri del Barca, per una sera almeno, molto più “pulci” che titani.

Lele Adani analizza Godin in 140 caratteri di epicità.

In più, e basta scorrere il suo profilo Instagram per comprenderlo, Godín non è un divo del pallone. Le sue foto lo ritraggono quasi esclusivamente in allenamento con l’Atlético Madrid o con la Nazionale uruguayana, il più delle volte sorridente ed attorniato dai suoi compagni di club o nazionale: anche in questi piccoli particolari si capisce quanto sia un uomo squadra e insieme un antidivo. Un uomo normale e, al contempo, un difensore eccezionale: il giocatore uruguayano con più presenze in Liga.

Arrivato a 31 anni, nella piena maturità, Diego Godín è oggi, senza alcuna possibilità di smentita, uno dei migliori centrali del mondo – se non il migliore per continuità di rendimento -, in grado di interpretare al meglio i dettami e le esigenze della fase difensiva del calcio moderno, unendoli però alla grinta e all’essenzialità nelle giocate del difensore old school. Ecco perché Diego Godín rimane l’ultimo stopper del calcio: l’ultimo grande numero 5 di una lunga storia fatta di carisma, forza di volontà e applicazione continua, contro l’entropia che regola questa parte d’Universo.