Bucanieri, ska e solidarietà. Rayo Vallecano, l'altra Madrid - Zona Cesarini

Bucanieri, ska e solidarietà. Rayo Vallecano, l’altra Madrid

Nel mondo esistono comunità che vanno oltre il “senso di appartenenza”, creando un legame profondo che supera i tipici concetti di città, paese o quartiere. Allo stesso modo, nel calcio esistono alcune realtà che vivono di questa straordinarietà sociale. Un esempio celebre è il St. Pauli del quartiere a luci rosse di Amburgo, un altro può essere l’Athletic Bilbao nei Paesi Baschi. Ma a Madrid, capitale e simbolo del centralismo spagnolo per secoli, la situazione si fa estremamente più frammentaria, divisa e insieme egemonizzata dalle due potenze metropolitane: Atlético Madrid e Real Madrid.

E per quanto i Colchoneros continuino fieramente a rappresentare una forma pop di resistenza al cannibale planetario rappresentato dai Blancos, sono oramai mutati in un club d’élite a livello continentale. Stabilmente nella Top 16 del calcio europeo, foraggiati da fondi come Doyen e sulle prime pagine dei media per i loro invidiabili risultati come per i giocatori di talento che affollano la rosa degli ex-materassai. Ma vivere Madrid, metropoli tentacolare e sconfinata, significa pure imbattersi in qualcos’altro, qualcosa di diverso fin dalla struttura del suo compatto dna. Significa Rayo Vallecano: le api di Vallecas.

Perché Vallecas e il Rayo formano un soggetto unico, ruvido ed inscalfibile come i mattoni rossi che dominano il panorama del più popoloso distretto adagiato alla periferia madrilena. Circa 320.000 residenti e una storia che racconta di un’annessione amministrativa alla capitale avvenuta soltanto nel 1950. Una realtà limitrofa, scandita dal suono delle sirene che annunciano inizio e fine dei turni, perché da queste parti la fa ancora da padrone la classe operaia. Definizione ormai retrò e parzialmente abusata, che, però, trova un humus ideale in questo barrio che vive le stagioni come un’isola in mezzo ad una metropoli.

rayo vallecano

Vallecas è una strana creatura urbana, divisa da un’unica grande avenida, figlia prediletta delle lottizzazioni di massa sotto forma di caseggiati anonimi dal profilo grezzo e squadrato. In altri contesti, si apostroferebbe come un “quartiere dormitorio”. Non fosse per quella socialità ribelle che permea l’intera comunità. E che abbraccia il club di Vallecas, il Rayo Vallecano, emblema popolare di un’area problematica, che ha vissuto da outsider le grandi cesure della storia contemporanea spagnola: dal regime franchista alla Movida, fino alla crisi economico-finanziaria post-2008.

Nonostante tutto, nel barrio – come viene comunemente identificato per sottolineare una diversità fisica e sociale – i colori dominanti rimangono quelli bianco-rossi.

Api operaie

Una tifoseria dichiaratemente schierata, unanimamente anti-fascista e contro ogni forma di discriminazione. Uno stadio di quartiere, architettonicamente sorpassato e rivedibile, con sole tre tribune a cingere il terreno di gioco più piccolo della Liga. Una società impegnata in campagne di solidarietà all’interno del barrio. Una passione che rompe l’idealtipico schema comunità-tifo-società-squadra, elevando il concetto di club d’appartenenza a quello di entità-totem. Non si tifa Rayo: si vive Vallecas. Tutto il resto è logica conseguenza, tessere di un domino che cadono a cascata sulle rive del Manzanarre.

Il 1992 è l’anno decisivo per la formazione del gruppo ultras più celebre della comunità, Los Bukaneros, I Bucanieri, nome dalla bizzarra ispirazione piratesca, emanazione diretta della principale fiesta di quartiere: la Batalla Naval di Vallecas. Un concentrato di istanze sociali e politiche, più che un gruppo di tifoseria organizzata, mosso dal motto-guida “Rayo, working class and anti-fascism”. Uno sparuto insieme di 10 associati, che, nel giro di dieci anni, diventeranno più di 350 dando voce e forma a quel sentimento di autarchia che regna per le strade di Vallecas: come un’effige da sbandierare all’esterno.

Perché l’unicità di questo piccolo ma popoloso angolo di mondo non passa soltanto dalla retorica tipica del “working class football”, ma si trasforma in qualcosa di più significativo, paradigmatico. Un esempio su tutti, che ha generato scalpore e che contribuisce a rafforzare l’immagine di un club impegnato nella salvaguardia della grande famiglia di Vallecas risponde al nome di Carmen Martínez, 85enne residente nel barrio.

È il caso più celebre e celebrato sui media e – allo stesso tempo – quello più limitante per una società che vive di sforzi ed azioni concrete in più campi della vita quotidiana. L’85enne di Vallecas si trovava in gravi difficoltà economiche, malata, con la pensione minima e avrebbe dovuto abbandonare il suo piso entro pochi giorni perché sotto provvedimento di sfratto. I giocatori e il club – venuti a conoscenza della situazione – si sono riuniti, e hanno raccolto una cifra – circa 21mila euro – che permettesse all’abuelita di pagare gli arretrati e coprire le spese future, salvando così il suo diritto all’abitazione. Insomma, siamo davanti a un territorio inesplorato sotto forma di un embrionale welfare state calcistico.

“#Carmenresta. Gli sgomberi di uno stato malato; la solidarietà di un quartiere operaio”, Los Bukaneros

Ma, oltre la dimensione da Libro Cuore, a queste latitudini pesano ancora gli ideali comuni e un diffuso senso di solidarietà, declinato in più campi d’azione, che abbraccia la routine di un quartiere complesso. Tradotto: giocatori che si sobbarcano turni alla mensa degli indigenti una volta al mese. È successo pure che Antonio Amaya, difensore centrale del Rayo, si sia tagliato un dito durante una cena di solidarietà per i disoccupati in un centro sociale del barrio, dove stava prestando servizio volontario come aiuto cuoco.

Perché Vallecas rimane luogo di povertà, o meglio vittima designata di quella crisi finanziaria di cui tutt’oggi si avvertono gli echi, sotto forma del tasso di disoccupazione più alto di tutta la comunità autonoma di Madrid (i dati del 2015 segnavano un devastante 21,5%). Miseria, precarietà e rabbia: è storicamente l’humus ideale per la proliferazione di estremismi e populismi incontrollati. E invece.

L’onda lunga dello Ska e il gigante nigeriano

Da queste parti le difficoltà endemiche della comunità hanno sempre trovato sfogo all’interno di una socialità solidale, libertaria, contrapposta per natura e necessità ai modelli dominanti. Il campo e il tifo sono l’ideale proseguimento di una squadra di outsider, in bilico perenne tra serie minori e fugaci squarci di gloria nell’Olimpo della Liga. Quando la Spagna stava vivendo il suo clima moderno, quel movimento culturale conosciuto come Movida madrileña che ha abbracciato gli anni ’80 della rinascita post franchista, a Vallecas si sperimentavano le prime forme di diritti del lavoro.

Gli anni ’80 delle libertà sessuali e delle sofisticate provocazioni culturali di Pedro Almodovar sfiorano appena il barrio, un luogo dove ogni libertà è legata a un’identità autonoma che si esprime in tutta la sua forza nel decennio successivo, gli anni ’90 dello ska e dei suoi alfieri: gli Ska-P. Band autogestita, autoprodotta e insieme voce viscerale di Vallecas – declinata in sonorità crossover derivative del decennio precedente – in quell’incrocio tra ska e punk che mina alle fondamenta ogni forma di establishment rivendicando libertà di ogni sorta: dalla liberalizzazione delle droghe leggere all’anticlericalismo fino al riconoscimento dei diritti dei lavoratori, tratto distintivo del barrio di appartenenza.

E poco importa se quel modo di vivere e di professare un insieme di valori faccia breccia nello scenario europeo attraverso le radio indipendenti tipiche della Spagna degli anni ’90, e non tramite i primi gruppi di tifo organizzato, perché sono le stesse istanze che muovono Vallecas e quel popolo che segue il Rayo. Popolo a cui la band appartiene da sempre, arrivando ad esprimere il suo tifo per i rayados anche sottoforma di canzoni.

Il successo degli Ska-P e della scena underground di Vallecas porta alla ribalta il nome di un quartiere isolato e schierato: come se uscisse direttamente da una strofa di Joe Strummer. Dopo la lunghissima stagione franchista, vissuta in direzione ostinata e contraria, a Vallecas si respira un’aria da nuova epoca, almeno culturalmente. Un coacervo di libertà e orgoglio che non avrebbe sfigurato in Spanish Bombs, magnifica rivisitazione spanglish del conflitto civile spagnolo a firma The Clash.

In questo contesto, il Rayo Vallecano e il suo stadio dal nome simil-dilettantesco – Campo de Fútbol de Vallecas – rimangono il centro sociale a cielo aperto dell’isola alla periferia di Madrid. I Bukaneros acquistano sempre più numeri ed autorevolezza con l’andare del tempo e delle stagioni, costantemente vissute sul filo di salvezze e promozioni. E, a differenza dell’occupazione, l’elemento che non conosce mai crisi è la partecipazione al mundorayo.

Andando un po’ oltre: a seguito della fuga dalla rappresentanza politica e soprattutto partitica post-2008, il Rayo si eleva come unico rappresentante di un quartiere popolare a basso reddito. Concetto plasticamente espresso sulla mai costruita quarta tribuna, dove campeggia una gigantesca scritta: “Juntos Podemos”.

«Quando sono arrivato qui, mi sono trovato in un club dove tutti sono ben integrati. Ognuno ha ben chiaro il proprio compito. Qui tutti possono dire la loro, e poco importa la gerarchia. Tutto è collettivo.» (L. Yanez-Rodriguez, ds Rayo)

Insomma, nel quartiere sviluppatosi sull’immigrazione di estrazione andalusa che caratterizzò la capitale negli anni ’40, tuttora le cose sembrano non essere cambiate molto. Almeno per quello che riguarda i princìpi di inclusione, solidarietà orizzontale e rispetto delle diversità. In questo senso, una storia, più di altre, racchiude in sé le peculiarità del soggetto unico composto dal Rayo e da Vallecas.

Wilfred Agbonavbare è stato per anni il portiere della nazionale nigeriana, quelle SuperAquile che sorpresero il mondo nel Mondiale di Usa ’94, e che finì persino in una canzone cult di Elio e le Storie Tese. Agbonavbare, però, da queste parti è conosciuto soltanto col suo nome, Wilfred, oppure col suo soprannome El Gato. Perché l’ex numero 1 nigeriano ha giocato per cinque anni proprio nel Rayo (1990-95), decidendo infine – come molti immigrati extra UE – di trasferirsi definitivamente a Vallecas.

In un calcio già lanciato verso scenari globali, mediatici ed iper-competitivi, Wilfred antepose l’integrazione e la condivisione di valori ad altri lidi più ricchi ed esotici. Vivendo in un appartamento di Vallecas insieme alla moglie, negli anni sbarcò il lunario passando per lavori come il benzinaio fino al garzone per le consegne a casa, mettendo a disposizione gratuitamente la sua esperienza come allenatore dei portieri di una squadra amatoriale del barrio.

Improvvisamente il caso giocò un ruolo decisivo quanto devastante: sia Wilfred che la moglie si ammalarono di tumore e, nonostante le cure oltreoceano, non arrivò nessun miglioramento. In fin di vita e ormai senza risorse economiche, Agbonavbare decise di passare i suoi ultimi giorni a Vallecas. In questo scenario di drammatica ineluttabilità, il club si mosse con decisione, chiamando a raccolta dapprima i Bukaneros e poi tutti i sostenitori, riuscendo a racimolare la cifra necessaria per permettere ai figli di Wilfred di raggiungere Madrid – dalla Nigeria – per un ultimo saluto al padre. Dopo la sua morte, nel 2015, il Rayo, con una delibera speciale ha rinominato l’ingresso principale dello stadio col suo nome.

Il murales di Agbonavbare all'ingresso 1 dello stadio di Vallecas
Il murales di Agbonavbare all’ingresso 1 dello stadio di Vallecas

Tra ristrettezze endemiche, coreografie dai messaggi espliciti e taglienti, un’innata avversione verso il Potere, stagioni e gestioni sportivamente a dir poco altalenanti, il Rayo e il suo popolo continuano a rinnovare un legame indissolubile.

Più forte di proprietà opache e di consistenti esposizioni con gli istituti di credito, più sincero di improbabili progetti sportivi lanciati nel Midwest statunitense, più coerente di qualsiasi salvezza raggiunta al 93° minuto dell’ultima giornata. Un legame demodé, che ormai suona quasi bizzarro e sorpassato: quello fra un’intera comunità, i suoi valori culturali di riferimento e il calcio.