Le pietre dello stadio - Zona Cesarini
Stadio

Le pietre dello stadio

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti uno stadio, dagli alti gradoni. Potrei dirti di quante file sono le curve fatte a scale, di che sesto gli archi dei tunnel d’ingresso, di quali lamine di metallo sono ricoperti i sanitari; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatto lo stadio, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato. Ma lo stadio non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto nelle rotondità dei seggiolini, nelle griglie delle reti, negli scorrimano delle scale, nella pelle ruvida dei tamburi, nelle aste dei bandieroni, ogni segmento rigato a sua volta di graffiti, adesivi strappati, motti e svirgole.

A grandi linee Italo Calvino, qualora si fosse dedicato a un libro capace di raccontare ogni stadio e non solo ogni città, avrebbe potuto iniziare così: spiegando quel che i tifosi di ogni latitudine provano per quel catino, più o meno brutto, più o meno vecchio, al quale delegano le gioie domenicali. Succede nei più nobili palcoscenici come negli stadi più ruvidi. Quasi a distinguere i ceti sociali, c’è chi ha il posto a sedere e chi si affolla alla bell’e meglio su gradoni ai limiti del praticabile o su un greppo erboso.

L’avrebbe scoperto col tempo, Calvino, e l’avrebbe saputo raccontare. Aveva una splendida penna e molto da dire. Avrebbe fatto entrare il suo Marco Polo cinquantacinque volte in uno stadio sempre diverso e uguale, tornando all’unità, al séma, all’atomo di ognuno di essi: la singola pietra, ché «senza pietra non c’è arco». Molte di quelle pietre e di quegli archi, oggi, non ci sono più.

Lo stadio evolutivo

Se per i tifosi (sempre meno, purtroppo), quelle pietre rappresentano qualcosa di estremamente fisico, per un club uno stadio rappresenta un qualcosa di ben più volatile, ma vitale. Taglieggiate spesso dai Comuni di appartenenza, costrette a pagare affitti da capogiro e a rimpallarsi con i Comuni stessi le spese di gestione, le società vedono negli stadi di proprietà una sicura fonte d’introito, essenziale per bilanci dissanguati dalla corsa all’acuto di mercato.

Non è un caso che dopo gli imprenditori brillanti degli anni Novanta (i frutti del loro lavoro spesso marciscono in serie adesso infime), sulle poltrone più alte siedano palazzinari, costruttori, Re Mida del mattone e dell’infisso. È un’alternanza insana ma congenita, che segue la naturale devoluzione del pallone e si scontra con le amministrazioni comunali. Su mille, uno ce la fa. Nessuna città italiana, calcisticamente degna di questo nome, negli anni non ha assisto a querelle infinite tra presidenti e sindaci, irrorate da progetti, proposte, rilanci, utopiche cittadelle sportive in grado di arricchire il tessuto urbano, veti, polemiche.

montezemolo ciao italia 90 stadio
Italia ’90: due protagonisti fuori dal campo (e dal tempo)

Terrorismo di stadio

A questo si aggiunge una sacrosanta paura: Italia ’90 brucia ancora. Non tanto per i malnati rigori di Serena e Donadoni, ché tanto ha sempre avuto ragione De Gregori, quanto per i tredicimila miliardi di lire svaniti in un deserto costellato da alberghi fantasma, parcheggi esanimi, stazioni ferroviarie quanto mai effimere e, appunto, impianti nati morti o giustiziati a sangue freddo in fase di ristrutturazione.
Lo stadio San Paolo, per dirne uno. I lavori per quel mondiale gli regalarono una copertura non richiesta e un terzo anello oggi chiuso, oltre a un maxiprocesso conclusosi tra assoluzioni e prescrizioni.

Altro caso eccellente è rappresentato dalla barese Astronave San Nicola, progettata da Renzo Piano. Tra la macilenta pista d’atletica e l’allora futuristica copertura in teflon, volata in buona parte via in una notte di vento, di solido vi sono rimaste solo le spese di manutenzione.
Si aggiunge a questo rosario il Sant’Elia di Cagliari, più volte rimaneggiato e messo a posto, tanto da diventare un’irreale matrioska di tribune, settori e tribunette e costringere la squadra isolana a giocare a Trieste prima e a Sant’Elena poi, in un napoleonico quanto contestato esilio, terminato con un altro scandalo, poi dissoltosi.

stadio sant'elia cagliari
Una veduta dello stadio-matrioska Sant’Elia: la curva cagliaritana

Leggermente diverso il caso del Delle Alpi di Torino, stadio costato da solo ben 226 miliardi e abbattuto appena maggiorenne. Motivo? Ingenti costi di gestione, una progettazione miope, frequenti allagamenti. Al suo posto sorge l’ambizioso e futuristico (stavolta sul serio) Juventus Stadium di omonima proprietà, che convoglia nelle casse bianconere svariate decine di milioni di euro ogni anno. Pietre moderne, con poca storia ma con tanta sostanza.

Impressionante l’epopea del vecchio stadio granata, il Filadelfia, le cui pietre potrebbero raccontare storie di gloria, di scudetti, di goleade (dieci reti all’Alessandria, per dire), di campioni assurti a leggenda, prima e dopo la morte. Per mezzo secolo. Il Toro vi ha giocato ininterrottamente fino al 1963, dopo un’infausta parentesi talmoniana. Da allora è stato verde pubblico, area residenziale, potenziale campo d’allenamento, scenario post-atomico. Verrà riconsegnato alla città, si dice, nel prossimo maggio.

stadio Filadelfia Torino
Il Filadelfia: una (fortunatamente vecchia) diapositiva

Los Estadios

Fuori dai confini italiani, e lontano dagli scandali nostrani (ma non troppo), delle pietre di altri spesso non resta traccia. Come le immagini della memoria, che «una volta fissate con le parole, si cancellano» (di nuovo grazie, Italo), così delle vestigia del calcio che fu è rimasto poco.

Le secolari pietre del San Mamés di Bilbao, per esempio: stadio nato sulle ceneri d’una cattedrale e alle ceneri ritornato pochi anni fa, per far spazio a un impianto più moderno, più bello, senz’anima. Storia lascia il passo a Economia, materia meno affascinante e più ostica: fredda, severa e, non potrebbe essere altrimenti, calcolatrice. E non è il solo caso.

Le pietre del barcellonese Estadi Sarrià, levigate per noi e spigolosissime per Zico, Sócrates e compagni, proprio nel 1982 conobbero il loro momento di maggior gloria mediatica: quindici anni dopo sarebbero crollate una sull’altra.

paolo rossi brasile stadio sarria 1982
Pablito trafigge Valdir Peres: è il 5 luglio 1982

Si avvicina, forse, la fine dello stadio Vicente Calderón: mezzo secolo di storia costretto a soccombere a un piano regolatore. Altro che Autostrada delle Ginestre e svincolo alla tangenziale est. In Paseo de la Virgen del Puerto, al posto dell’ex Manzanares (a sua volta costruito sopra un altro vecchio stadio, il Metropolitano), sorgerà una nuova, elegante zona residenziale. Quelli dell’Atletico, armi e bagagli, andranno a sudare a La Peineta.

Forse: la vera partita i rojiblancos la stanno giocando in tribunale, tra appelli e ricorsi. Giuro: non so davvero cosa stia accadendo. Da tifoso che vorrebbe restringere il suo campo visivo al campo, alla storia sportiva, agli spalti, appena il punto vista si sposta in alti ambienti, soffro. Soffro di quel complesso da mammifero portato al di fuori del suo habitat: mi ci muovo piano, goffo, più mi agito e più peggiora. Mi basta sapere che in palio, per i colchoneros, c’è l’identità

Football Fields forever

Si può uscire da un’idea di continente, ma non da un’idea di storia. La Storia è come una marcatura alla Claudio Gentile: ti segue pedissequamente, non ti lascia respiro. Senti i suoi calcetti nel morbido dei polpacci, spalle alla porta. Ti strappa la maglia ma nessuno guarda, men che mai l’arbitro. Nemmeno un giocatore di livello come lo stadio di Highbury ce l’ha fatta, figurarsi gli altri. La casa dei Gunners ha sopportato le bombe degli Stukas ariani, ma non il peso dei soldi. Dopo novantatré anni di servizio, vantando un impeccabile manto erboso, ha reso l’onore delle armi. Adesso potete citofonare Emirates.

costruzione stadio highbury
Un secolo fa: Highbury in costruzione

La stessa triste sorte, per mille anni e forse ancora, la piangeremo addosso alle macerie del White City, di Maine Road, del Roker. O, per dirne un altro, dell’Ayesome Park, dove un professore di educazione fisica (e non un dentista), a capo di una “banda di Ridolini”, la mise dove non batte mai il sole a uno sprovveduto popolo di santi, poeti e navigatori.

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Il professore a rete all’Ayesome Park

L’ultima lapide a destra porta bolle di sapone: è l’Upton Park, arena degli Hammers dalla fortuna sinusoidale. Oggetto di efferati dibattiti comunali e negoziati, battaglie legali e pubbliche proteste, se n’è andato acro per acro. Le bolle adesso seguono le correnti sopra gli spalti dell’olimpicissimo Olympic Stadium. La sua dismissione è stata lenta e sofferta come un decorso post-operatorio finito con il rigetto.

La sua storia è stata decapitata di netto, come la regnante della quale serbava il nome, Boleyn Ground. Sul quel prato hanno segnato Sir Geoffrey Hurst e Trevor Brooking, Alvin Martin e Paolo Di Canio, i Lampard (padre e figlio) e l’Apache Tévez. Per dirne un pugno, per altro scarso, molto.

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Un ultimo saluto

Quelle pietre se ne sono andate con negli occhi un’ultima, epica rete: quella del 3-2 sul Manchester United, segnata da Winston Reid, neozelandese d’origine maori naturalizzato danese (ma battente bandiera kiwi in Nazionale). Ka ora, Winston. Ka mate, Boleyn Ground. Ironia del destino, il terreno dove sorgeva quello stadio servirà per cacciare la feccia che l’ha popolato per anni. Gli ottocento appartamenti upper class che vi sorgeranno, già progettati e venduti, sono l’ariete con il quale Londra vuole scardinare le fondamenta di una zona per troppo tempo considerata malfamata.

Nella cultura popolare le strade dell’East End risuonano di slang cockney e bestemmie. E son battute palmo a palmo ora da Jack lo Squartatore, adesso dal temibile Fu Manchu, calpestate dai piedi cenciosi di un Oliver Twist qualsiasi. Troppo, per una città che vuol diventare city in tutto e per tutto: non c’è spazio per novelli Cass Pennant. Chi può permetterselo, emigri all’Olympic. Per gli altri c’è la tv, o la radio. E non è detto che sia peggio.

No hay nada menos vacío que un estadio vacío

Di penna in penna, rotolando come un pallone sgonfio: dove se non in Sud America? Il 13 luglio 1930 Domingo Lombardi guardò a destra prima e a sinistra. Osservò gli spalti dello stadio, gremiti. Sudò solo a far quello, se ne rese conto, fischiò. Era l’inizio della prima partita del primo mondiale: vide il primo gol e la prima doppietta, i primi assist e la prima goleada, il primo infortunio e la prima minoranza numerica (sostituzioni? Nel 1930?).

Il pubblico del Pocitos di Montevideo si sarebbe ricordato a lungo quel pomeriggio. Alla fine dello stesso decennio quelle pietre sarebbero state divelte per costruirvi sopra case (la Storia si ripete, no?). Nel punto dove Laurent segnò la prima rete mondiale, sorge un piccolo monumento a forma di incrocio dei pali. Pietre che ricordano altre pietre. È poesia anche questa.

mondiale 1930 stadio pocitos
Il primo gol della bandiera della storia dei Mondiali

Medesima sorte è toccata all’argentino Gasómetro, a Buenos Aires, vecchia casa del San Lorenzo. La sua storia, a lieto fine nonostante tutto, è già stata narrata in queste pagine. Ooh, San Lorenzo! Ma, per una bella storia che finisce ce ne sono una cinquantina che imputridiscono tra le pareti della Storia stessa. Alcune, viste qualche capoverso prima, si intersecano con mafie, affari sporchi, palazzinari d’ogni tipo e, soprattutto, grandi eventi.

L’ultima tappa, la peggiore (perché questo non è un viaggio di piacere), ha luogo in Brasile. La macchina organizzativa, icona di un Paese in eterna crisi, è riuscita a incepparsi in ogni fase dei Mondiali. Impianti consegnati in ritardo, costi lievitati (ma questo è un ritornello che conosciamo), inghippi d’ogni sorta.

Un esempio, il migliore (o il peggiore) è quello dello stadio Mario Filho, meglio noto come Maracanà, le cui pietre ancora piangono la tragedia immane del 1950. La sua ristrutturazione si è trasformata in un Moloch spietato: tutto ciò che poteva rappresentare un problema, lo ha fatto. Le coperture, l’erba, l’inclinazione delle tribune. Duecento milioni di dollari sono svaniti così, nel magma economico del Mondiale più caro di sempre. Un evento letale per un Paese dove la crescita, al momento del calcio d’inizio, era praticamente immobile. Ma il Maracanà non è certo figlio unico.

protesta brasile stadio
Un momento della protesta

L’Arena das Dunas è costato centoventicinque milioni di euro. Ha ospitato quattro partite, tra le quali la disfatta italiana contro l’Uruguay (e Galeano ride ancora). Dovrebbe essere tutt’ora in vendita, dopo una proficua carriera da location di feste, matrimoni, convegni e fiere. Un po’ la stessa carriera intrapresa dall’Arena Pernambuco, dove Eupalla sorrise alla Costa Rica (e non agli Azzurri). Declini simili a quelli di vecchie rockstar che salgono sul carrozzone del trash per sopravvivere all’oblio della vecchiaia. Il Mané Garrincha di Brasilia oggi è poco più di un parcheggio per gli autobus: cinquecentocinquanta milioni di manovre.

L’Arena Pantanal, quella da Amazônia e l’Estádio Mineirão, invece, non hanno niente da dire: sono vuoti. Problemi strutturali, questioni logistiche, cavilli burocratici: fra quegli spalti poco utilizzati è rimasta la polvere e poco più.

E le pietre, sempre loro, ché senza pietre non c’è arco.

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