Cosa ci lascia il 2016: otto cose da ricordare - Zona Cesarini

Cosa ci lascia il 2016: otto cose da ricordare

Come ogni anno e come ogni sito che si rispetti, abbiamo scelto i momenti calcistici più significativi del 2016. Calciatori, personaggi, accadimenti, gol, giocate: qualsiasi cosa che abbia lasciato un segno, a suo modo significativo, nell’anno che si sta chiudendo. Otto diversi autori per otto diversi protagonisti del 2016.

Hibernians: a moment in time, a moment in history

Simone Viaro

Quella appena trascorsa verrà tramandata negli almanacchi (e via social) come una tra le stagioni calcistiche più entusiasmanti e singolari da quando il pallone ha incominciato a rotolare. Nell’anno del Ronaldo in versione asso pigliatutto e dei suoi fidi scudieri lusitani sul tetto d’Europa, degli exploit iconoclasti di cenerentole terribili come Islanda e Galles, della favola a lieto fine targata Foxes e altro ancora, decretare il best moment appare materia da scienziati.

Se dovessi racchiudere in un’istantanea i tanti attimi che hanno contraddistinto questi 365 giorni di stravolgimenti, questa vedrebbe come luogo prescelto Hampden Park, in una placida giornata di primavera. Il pubblico, alla Scala del calcio scozzese, è quello delle grandi occasioni. E della grande occasione, difatti, ne ha tutti i crismi.

Si gioca la Scottish Cup, massima competizione nazionale ad eliminazione diretta. A contendersi la posta i Rangers – nobile momentaneamente decaduta dopo il recente dissesto finanziario – e l’Hibernian di Edimburgo, che il suddetto trofeo non lo solleva dal lontanissimo 1902.

Come avrete già intuito, l’highlight del 2016 ci racconta una storia di riscossa, di sogni rincorsi una vita e finalmente esauditi, di fantasmi scacciati. Spulciando tra i pezzi che accomunano l’Hibernian alla conquista della Coppa, l’espressione chiave che ciclicamente salta all’occhio – in un refrain immarcescibile – è proprio “scacciare i fantasmi”: quasi a darci la misura di come il conseguimento di un risultato sia diventato una sorta di mission, un’ossessione dalla cui dipende non soltanto una società sportiva, ma una comunità tout-court. Una comunità nella quale pulsano sangue operaio, birra e tanta voglia di rivalsa: è la Leith tra le cui strade scorrazzano idealmente Mark Renton e gli altri figli della penna di Irvine Welsh.

Nella personale visione del broker Jordan Belfort “l’unica cosa che si frappone tra te e il tuo obiettivo è quella stronzata di storia che racconti a te stesso sul motivo per cui l’obiettivo non si può raggiungere.” Nel caso degli Hibs, quella stronzata si traduce con dieci finali perse dall’ultimo arcaico trionfo ad oggi. Mica un dettaglio di poco conto.

Il 21 maggio, però, qualcosa è cambiato, ristabilendo una sorta di giustizia cosmica nei destini dei ragazzi di Edimburgo. A dirla tutta, anche in quel fatidico giorno, lo scorrere degli accadimenti pare arrecare ai Nostri il solito, ineluttabile, doloroso schiaffo in faccia. Dopo un inizio al fulmicotone con la discesa vincente di Anthony Stokes ad illudere la metà dello stadio di fede cattolica, la notte cala impietosamente sulle speranze biancoverdi, sottoforma di rimonta avversaria.

Ed invece, proprio quando l’ago della bilancia sembrava pendere in maniera definitiva dalla parte dei Golia in maglia Gers, Stokes e Capitan Grey- gli uomini più iconici- si ribellano ad una Storia apparentemente già scritta, disintegrando di fatto una maledizione dalla durata centenaria. Le reti che pongono fine al digiuno infinito sono pressoché uguali: entrambe di testa, ad impattare la sfera da calcio d’angolo. Gesti tecnici di puro stampo working class: rabbia e determinazione, orgoglio e tenacia. Come gli Hibernian, come la gente di Leith.

Il boato, al fischio finale, è una colonna sonora totalizzante e liberatoria. L’incantesimo è finalmente rotto; dopo 114 anni i fantasmi scacciati per sempre dal subconscio del Club.

“A moment in time, a moment in History” commentano con un velo di commozione i cronisti sulle parole sognanti della splendida Sunshine on Leith: quelle che risuonano libere in cielo sono note di gioia, di fratellanza e senso d’appartenenza.

Ad Hampden Park si canta a squarciagola l’amore per la propria squadra, per la propria identità della quale, da quel 21 maggio 2016, andare nuovamente fieri.

Il gol di Hal Robson-Kanu al Belgio

Michele Pelacci

Dovendo scegliere tra momenti che godranno di gloria imperitura, momenti strappalacrime e momenti semplicemente unici, la mia discriminante per assegnare il “Moment of the Year 2016” riguarda il contesto in cui l’evento è avvenuto. Un po’ come se si dovesse classificare la serie delle Ninfee di Monet a seconda del luogo di conservazione del quadro, estrapolare da 365 giorni di calcio uno e un solo momento è un lavoraccio tutt’altro che provabile scientificamente, ma se riuscite a trovare un modo migliore per decretare, che so, se questo è meglio di questo o viceversa, fatemelo sapere.

Il contesto, dicevamo. Il Momento™ che ho scelto l’ho vissuto con due amici in un minuscolo appartamentino all’ultimo piano di uno dei pochissimi appartamenti di una delle pochissime abitazioni di uno dei pochissimi centri abitati della Valle di Rhemes Notre-Dame, un posto bellissimo in cui, quella sera, c’eravamo noi, gli Europei e tante cose buone da mangiare.

La parabola ascendente dell’innamoramento estivo verso Hal Robson-Kanu ha un inizio preciso: l’11 Giugno a Bordeaux il nostro amatissimo segna il gol decisivo per la prima vittoria del Galles alla prima partita ad una fase finale di un Europeo, ciabattando in maniera comica per tutti tranne che per Marek Hamsik. Da lì in poi, si guarda ogni partita del Galles per Robson-Kanu, un giocatore normalissimo, che dell’archetipo dell’eroe ha forse solo il nome.

Robson-Kanu segna gol pazzeschi con la pazzesca maglia del Reading.

Quella di Thomas Henry Alex detto Hal è una storia niente male: a 15 anni fu ripudiato dalle giovanili dell’Arsenal. Brendan Rodgers, allora a capo dell’Academy del Reading, lo portò nel Berkshire e lì è rimasto – parentesi di prestiti a parte – per quasi dieci anni. Con questo comunicato, tuttavia, il Reading decide di non rinnovargli il contratto.

Ad Euro2016, Hal Robson-Kanu è un disoccupato nei suoi anni d’oro.

Altro che Bale e Ramsey, a portare il Galles in semifinale è stato il nostro protettissimo. Il trionfo contro il Belgio nei quarti è dipinto così da Leonardo Capanni: “Wilmots contro Wilmots non è il remake fiammingo del classico hollywoodiano con la coppia Dustin Hoffman-Meryl Streep, ma rende l’idea di come questo Europeo sia sempre più terreno di consacrazione per allenatori con idee chiare, e non per selezionatori à-la page”. Posto dunque che la squadra più forte si è sconfitta da sola, tre gol a Hazard e compagnia devi farli. E se ti chiami Hal Robson-Kanu non è necessariamente facile (neanche se ti chiami Sam Vokes, ma questa è un’altra storia).

HRK (acronimo bello quasi quanto LBJ o CR7) circumnaviga gli ottavi e il primo tempo contro i Diavoli Rossi. Noi, sul divano, aspettiamo solo una scintilla, una giocata, qualcosa. Ricordo una veronica inutile verso la mezz’ora che lo porta a perdere palla. Poi Ramsey mette giù un bel lancio, se la aggiusta e crossa verso il nostro. In mezzo a due, HRK aggancia spalle alla porta, si gira con la sua interpretazione della Cruijff Turn, manda al bar la difesa avversaria, apre il piattone sinistro e batte Courtois. Viene giù tutto: a Lille i tifosi gallesi si mettono a cantare il suo nome e il mondo sembra un po’ più bello.

C’è tutta l’imperfezione di Robson-Kanu in questo gol storico. Come scrive qui Alfredo Giacobbe, il centravanti gallese stesso sembra sorpreso di trovarsi faccia-a-faccia col portiere.

La parabola Robson-Kanu è al suo apice: tutti si accorgono di questa ex-pippa e pare che il Cholo Simeone voglia puntare su di lui. Attualmente fa della gran panchina al West Bromwich Albion, ma il suo mito non morirà mai.

Sogno (irrealizzato) di una notte di mezz’estate.

Higuain 36: ultima notte da liceale

Giovanni Parente

Era una serata di metà maggio e pioveva. In città non si parlava d’altro: nell’ultima giornata il Napoli si sarebbe giocato il secondo posto che valeva i gironi di Champions League e Gonzalo Higuaín era a due gol di distanza dal record del gigante svedese Gunnar Nordahl datato 1950. L’avversario era il Frosinone, già retrocesso da parecchio tempo, allenato da una vecchia conoscenza del San Paolo, quel Roberto Stellone che era stato l’ultimo vero centravanti prima del fallimento.

Per vivere al massimo questa partita convinsi alcuni tra i miei amici e compagni di classe ad andare allo stadio insieme anche al Preside del nostro istituto, appassionato e tifoso del Napoli. Con i biglietti della Curva A e della B superiore esauriti, ci vedemmo costretti ad andare in B inferiore ma questa scelta ci permetterà di assistere da vicino ad un momento storico.

Fin da subito la partita è a senso unico: il Napoli domina, tira tante volte ma la rete del vantaggio non vuole arrivare. Dopo una decina di minuti dal fischio d’inizio Gori, centrocampista dei Ciociari, commette un fallo su Insigne, come se ne vedono tanti, ma subito dopo calcia il pallone contro il numero 24 del Napoli. Sotto gli occhi esterrefatti di noi tifosi, l’arbitro estrae il cartellino rosso: Frosinone in 10, ora il Napoli deve soltanto dilagare.

Ma dopo altri trenta minuti il risultato non cambia, grazie anche alle parate di Zappino, fino a quando su un cross in area di Ghoulam, Hamsik fa il suo solito movimento a tagliare sul primo palo e la insacca da pochi passi. Il primo tempo finisce sull’1-0 e il Napoli è con un piede e mezzo ai gironi di Champions.

L’altro tassello che manca per completare questo campionato è il record di Gonzalo Higuaín ma il “Pipita” non riesce a sbloccarsi contro una squadra già retrocessa in una partita ampiamente chiusa, sembra incredibile ma è così.

La partita ricomincia e dopo pochi minuti Allan penetra in area superando gli avversari come birilli, la mette in mezzo e Higuaín riesce finalmente a sfatare questo tabù firmando il suo gol numero 34. Passano altri dieci minuti, Hysaj crossa ed è ancora una volta l’argentino ad anticipare tutti e segna. 35. Trentacinque. È già nella storia, visto che ha pareggiato il precedente record di Nordahl che durava dal secondo dopoguerra.

Il momento in cui le nostre vite cambiarono per sempre. (Carlo Hermann/AFP/Getty Images)

A questo punto gli Dei del calcio decidono di metterci del loro e si inventano un finale che nessuno poteva aspettarsi: al minuto 71, Mertens vorrebbe il triangolo con Higuaín che, spalle alla porta, stoppa il pallone. In quel momento si trova proprio sotto la nostra Curva, in pratica proprio di fronte a noi visto che ci troviamo nel settore inferiore, quando vediamo partire una parabola che sembra non volersi mai arrestare.

Solamente una mente diabolica può aver escogitato una trama del genere per il gol numero 36, record assoluto in Italia: la rovesciata, il massimo ideale di bellezza calcistica, spettacolo di forza ed armonia, il gesto atletico che ognuno di noi sogna di fare fin da piccolo. In quel momento mi passarono per la mente tantissime cose: l’esame di maturità che avrei dovuto sostenere un mese dopo, l’indecisione sulla facoltà universitaria da intraprendere, i dubbi sul lavoro che avrei fatto da grande.

Sapevo che l’università e la vita mi avrebbero separato dai miei amici, che ognuno avrebbe intrapreso la propria strada, ma quel gol, quella giocata così improvvisa ci avrebbe unito per tutta la vita. Perché, come recita un celebre detto brasiliano, tutto passa ma un gol in rovesciata resta per sempre.

La falena di CR7

Federico Castiglioni 

L’anno solare che si chiude è senza alcun dubbio quello di Cristiano Ronaldo. Nel curriculum presentato da CR7 per il Pallone d’Oro si registrano le 55 reti segnate tra Real e Nazionale, la vittoria della Champions League, quella della fu Coppa Intercontinentale (a.k.a. Mondiale per Club) e quella del Campionato Europeo, oltretutto primo trofeo assoluto della storia del Portogallo. Ormai si può affermare che l’ultimo minuto della pubblicità Nike per Sudafrica 2010 era nient’altro che una profezia del 2016.

Ma il momento per eccellenza di Cristiano non è quello dove alza un trofeo, o segna un rigore decisivo. È quando una falena gli si è posata sulla fronte, durante la finale dell’Europeo, e lo ha reso umano. CR7, implacabile macchina da guerra calcistica, piange. E poi esulta, incita, carica i suoi.

In una competizione dove non stava riuscendo a lasciare davvero il segno nonostante il percorso straordinario della sua squadra, nello zenit del dramma sportivo (lui, capitano e stella del Portogallo, costretto ad uscire al 18esimo minuto della finale, affossato da un’entrata “non fallosa” di Payet); è allora che la spontaneità emerge da sotto una corazza di muscoli che si era sbriciolata per l’usura di una stagione troppo lunga.

Sembrava la caduta degli dei. Ma il dio caduto sulla Terra trova gloria anche nella sua umanità. La tensione e la rabbia accumulate esplodono in panchina, in un crescente fomento per la gara in corso, tra cazzotti di nervosismo e incitamento ai compagni come un qualsiasi fedelissimo tifoso, fino alla gioia finale sancita dal gol di Éder.

Lo avevamo già scritto, ne avevamo già parlato. Forse siamo ripetitivi. Ma in un periodo dove troppo spesso si rimpiangono le emozioni di un calcio che fu, quel lungo momento di empatia con uno dei più forti calciatori del mondo in circolazione forse è bene tenerselo stretto: per ricordarci che il calcio è soprattutto emozioni.

Totti non finisce mai

Andrea Madera

Il 2016 è l’anno in cui Francesco Totti ha compiuto 40 anni. Alla sua età Del Piero stava chiudendo la carriera in India, mentre Vieri era a Formentera a giocare a foot-volley già da un pezzo.

Il 20 aprile il Capitano ha rimandato al mittente le critiche di chi voleva vedergli appendere le scarpette al chiodo perché ormai inadeguato al palcoscenico della Serie A. Nella partita precedente, contro l’Atalanta, aveva servito l’antipasto, segnando il gol del definitivo pareggio con una rasoiata di destro a soli sette minuti dall’ingresso in campo.

Quello che succede all’Olimpico contro il Torino, però, supera i limiti dell’immaginabile. La Roma sta perdendo, Manolas ha risposto a Belotti ma i granata sono passati di nuovo in vantaggio grazie a una dormita della difesa giallorossa. Pochi minuti dopo, entra in campo Totti. La Roma si procura una punizione tra il vertice sinistro dell’area avversaria e la linea laterale.

La batte Pjanić, precisa sulla testa dell’accorrente Manolas, galvanizzato dalla rete di testa messa a segno nel primo tempo. Il difensore greco però non impatta bene la sfera, la devia soltanto indirizzandola verso il secondo palo. Džeko, come gli accade spesso nella sua annata maledetta, non coglie l’attimo e colpisce solo l’aria davanti a sé. Quando il pallone rimbalza per terra e sembra destinato a spegnersi sul fondo, davanti a lui si materializza il piede destro del Capitano, che lo aggancia e lo fa rimbalzare in rete.

Non è il classico gol del Dieci romanista, è un colpo di reni inaspettato, un’affermazione di volontà, di pura resilienza rispetto allo scorrere del tempo. Il gol più veloce della carriera, dopo ventidue secondi dall’ingresso in campo. Spalletti applaude incredulo, lo stadio lo acclama. La Roma adesso ci crede, e l’arbitro la aiuta indicando il dischetto quando un cross di Perotti va a sbattere contro il gomito di un avversario. Calcio di rigore, e dopo tre minuti tocca ancora a lui. Anche chi lo detesta per la sua romanità, per gli scatti di nervi, per qualcosa che ha detto o fatto, difficilmente potrà dimenticare il cucchiaio a Van der Sar o il rigore contro l’Australia nel 2006.

La rincorsa è sicura come sempre, il pallone corre sull’erba e supera la linea di porta. Padelli intuisce, lo sfiora col guanto, ma non basta. Mentre la clessidra del tempo cade dallo scaffale spaccandosi in mille pezzi, i compagni sottraggono Totti alle inquadrature con un abbraccio collettivo e da qualche parte nel mondo Pallotta inizia a buttare giù il rinnovo del contratto, un giovane tifoso filma quello che sta accadendo con l’iPhone, scosso da singhiozzi irrefrenabili.

Quanto è lontano il pianto del Capitano nello stesso stadio, a febbraio durante la partita con il Palermo. Totti si era sciolto davanti ai cori di sostegno dei suoi tifosi in piena bufera post-intervista al Tg1, quando ancora non sapeva che sarebbe riuscito a sconfiggere Padre Tempo nella partita più difficile. Chi lo ha amato in questi anni rimane aggrappato agli ultimi, abbaglianti lampi che il genio romanista può produrre. Perché sa che quando Totti giocherà l’ultima partita, sentirà risuonare le stesse parole che pronunciò Mick Jagger durante l’incontro tra Muhammad Alì e Larry Holmes, il match che sancì la vittoria di Crono sul più grande pugile di sempre.

“Sai cosa stiamo guardando? La fine della nostra giovinezza.”

Quando la retorica incontra la realtà

Paolo Stradaioli

Quanto la bellezza dello sport risiede nella sua natura incerta? Indubbiamente tanto. Quello che realmente ci fa arrabbiare del calcio-scommesse non sono i soldi che girano, ma l’idea che qualcuno per un suo tornaconto ha sottratto da un evento aleatorio quella componente di mistero che lo rende appetibile per 90 minuti e oltre.

Succede infatti che se i dadi vengono lanciati, se la ruota continua ininterrottamente a girare, se il croupier insiste a girare le carte, prima o poi quello che viene considerato un evento impossibile diventa realtà senza passare dal corridoio della probabilità.

È andata così per il Leicester 2015/16. Non ricordo nessuno, durante una delle più improbabili cavalcate della storia del calcio inglese, utilizzare le pinze per trattare un fenomeno sconosciuto a chiunque. Chi seguiva la Premier League si divideva in due tronconi ben distinti: i visionari, ovvero chi vedeva il Leicester campione già a dicembre, e i realisti, ovvero coloro che ne prevedevano un piazzamento in zona Europa League ricoperto comunque di applausi. Io ero compreso nei secondi. Più il tempo passava più non mi capacitavo di quello che realmente stava succedendo, e come ogni volta che mi immergo in una storia cerco sempre di suffragarla con delle evidenze empiriche.

Ad esempio si può assurgere che il proprietario del Leicester City Football Club sia un tale di nome Vichai Srivaddhanaprabha, il quale possiede un patrimonio stimato sui 3,2 miliardi di dollari che lo rende il numero 612 tra gli uomini più ricchi sul pianeta. Siamo lontani dal calcio popolare, vero?

Tanto lontani che la campagna acquisti 2015/16 è costata al miliardario thailandese 49 milioni di euro, incassandone meno di 10 (fonte Transfermarkt). Il Napoli ha speso meno, Fiorentina e Lazio non ne parliamo, la Roma ha speso una decina di milioni in più e sono tre anni che non scende sotto la terza piazza. Ascoltando una conferenza stampa di Maurizio Sarri, riportata qui sotto, si arriva quindi al nocciolo della questione.

L’allenatore del Napoli si perde un po’ in calcoli astratti, ma il discorso è realmente legato a quanto una società inglese guadagna dai diritti TV, dal merchandising, dal main sponsor. Il miracolo Leicester non è tanto aver giocato un campionato sopra le aspettative grazie ad un mordente da Any given Sunday. Sicuramente la componente di cazzimm’ ha avuto un ruolo, ma non è questo il punto.

La vera bravura, il vero colpo di scena, è che questi sapevano prima di noi che Vardy sarebbe diventato il giocatore più veloce della Premier League, oltre che un goleador implacabile. Che Mahrez sarebbe diventato l’ottavo giocatore per passaggi chiave, il settimo per assist, il quinto per gol, il primo per dribbling riusciti, che nella mia lingua si riassume in FENOMENO. Un giocatore come Kanté, pagato nove milioni (non cinque euro e una matita) al Caen, non è calato dal cielo per giocare le due fasi divinamente, ha migliorato la sua tecnica con Ranieri e adesso continua a fare la differenza nel Chelsea e sono convinto che Simeone si bagni pensando a quanto bene si sposerebbe con il suo sistema.

A dire la verità farebbe comodo un po’ a tutti

Ormai ci sono talmente tanti giocatori validi che la differenza sta nello sceglierli e nel saperci lavorare. Chi ha lavorato all’interno del Leicester, Ranieri in primis, ha creato questa storia. Per cui è inutile cercare di trovare il “nuovo Leicester” nel Sassuolo, nell’Atalanta, nel Lipsia o nel Rostov, o di trovare il “nuovo Vardy” in Lapadula o in Belkheir (chi???).

Ai nostri nipoti racconteremo dell’attaccante-operaio, dell’allenatore che non vinceva mai, di una piccola città capace di sconfiggere le grandi del football inglese. Da grande però deve sapere che questa rimarrà una storia unica non perché frutto di fantascientifici eventi, ma perché figlia del lavoro di tutti. È sempre bello quando vince un underdog, ancora di più se quella vittoria è meritata. Lo scudetto del Leicester rientra in questa casistica. Chapeau.

Il disimpegno di Evra

Gianluca Lorenzoni

Che l’elemento dell’imponderabile sia un fattore non secondario del gioco del calcio è abbastanza evidente. Un’interpretazione tattica perfetta, lo studio e l’analisi dell’avversario, le capacità fisiche e tecniche che possono far pendere l’ago della bilancia dalla propria parte, possono anche venire vanificate da un piccolo dettaglio impossibile da preventivare, capace di far crollare un impianto che fin lì pareva solidissimo, che sia un infortunio, una papera del portiere o un errore sottomisura della punta. O un disimpegno sbagliato al 92° di una partita che probabilmente sarebbe finita negli annali alla voce ”gara perfetta”.

Non ce l’ho con Evra, sia chiaro. Non ce l’ho mai avuta con lui neanche a caldo, quando il maledirlo per non aver calciato quel pallone il più lontano possibile sarebbe sicuramente rientrato tra le opzioni più logiche.

Se c’è una cosa che questo stranissimo 2016 sportivo ci lascia in dote è un crollo quasi definitivo delle certezze: dall’impresa di Ranieri a quella portoghese, dall’Italia che batte la Spagna ma perde con la Germania (siamo sinceri, non pensavamo che questo giorno sarebbe mai arrivato) al record di Higuaín, da Nibali morto e risorto nel giro di ventiquattro ore agli ace di Zaytsev contro gli Stati Uniti, fino a Rosberg campione una tantum, è stato un incessante inno al colpo di scena che neanche il miglior Scorsese.

Anche Patrice Evra ha voluto contribuire a questo reiterato attacco alle coronarie, suo malgrado ovviamente e nella maniera più inaspettata, scegliendo il momento peggiore per sbagliare una scelta di gioco, caso più unico che raro. Perché il francese non sarà un terzino straripante, non lo è mai stato, ma grazie al carisma, alla concentrazione e alla costanza ha sempre trasmesso quella serenità tipica di chi sa cosa fare. Evra è il tipo che fa quasi sempre la scelta più giusta e mai quella sbagliata. Quasi mai, ça va sans dire.

Che a togliergli quel dannatissimo pallone orchestrando il pareggio last-minute del Bayern siano stati Vidal e Coman poi, aggiunge alla situazione un ulteriore e forse decisivo ingrediente per uno psicodramma definitivo, un sunto perfetto di quanto possa essere sottile il confine tra impresa e disfatta e di quanto repentinamente possano cambiare le prospettive trasformando lo sbeffeggiato in sbeffeggiante, e viceversa.

Uno come Evra, che ha fatto dell’impegno uno stile di vita – basterebbe citare lo sfogo nell’ormai celebre post-Sassuolo, fondamentale per dare il via alla rimonta da record in campionato – tradito da un banale dis-impegno: anche nella scelta delle parole a volte si celano beffe crudeli, contrappassi dal sapore dantesco.

Da tutti me lo sarei aspettato, meno che da lui. Perché da quando si è impossessato della fascia sinistra bianconera – prima di lasciare spazio a quella mezza divinità di Alex Sandro – il 33 ha dimostrato di poter contribuire alla causa in modo forse poco appariscente, ma oltremodo essenziale, con la stessa sicurezza di un buon impiego statale, linearità e rara intelligenza: guizzi pochi e ponderati, ma ancor meno sbavature.

Ecco perché un errore del genere risulta ancora più difficile da comprendere e metabolizzare. Quoque tu, Patrice? Proprio tu, l’unico – insieme a Mandzukic – ad aver già alzato quella Coppa; proprio tu, quintessenza della saggezza calcistica.

Forse questo 2016 si è solo voluto divertire alle nostre spalle, togliendoci certezze che parevano inattaccabili, sacrificandole sull’altare della sorpresa ad ogni costo e dell’imprevedibilità. È il momento di voltare pagina, ma capiterà di ripensare a questo momento e già mi immagino la scena: “io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, – ma soprattutto, ancora tanta e intatta – voglia di bestemmiare”.

Antonio Conte: Say my name!

Leonardo Capanni

Premessa: non amo particolarmente la Premier League. Soprattutto nell’ultimo decennio l’ho osservata come se mi trovassi davanti ad uno di quei blockbuster hollywoodiani dal budget sconfinato e dalle poche pretese autoriali o narrative. Un concentrato muscolare di azione, colpi di scena e poca sofisticatezza, racchiuso, però, in una cornice altamente attraente; al contrario di altri campionati uncool, ma più maturi e stratificati da un punto di vista tattico e propositivo.

Ed esiste una sottile ironia in quella che si sta confermando come la sorpresa dell’anno. Il Chelsea di Antonio Conte dominatore della Premier nasce sulle ceneri di un secco 3-0 subìto all’Emirates Stadium il 24 settembre. È il turning-point della stagione, quello che in altri ambiti narrativi sarebbe ribattezzato come plot-twist. Il momento in cui Walter White assume la consapevolezza di essere definitivamente diventato Heisenberg, per chi è appassionato di serie tv.

La svolta è ancor più ironica se ci fermiamo a considerare chi è stato l’indiretto deus ex machina della metamorfosi Blues: Arsène Wenger, simbolo di un ancien régime ormai giunto al crepuscolo nella tranquillità della zona nord della City.

Perché, da quella partita in poi, Conte rinnova l’adagio secondo cui “si cresce attraverso le sconfitte”; o meglio, si cambia e si perfeziona una visione attraverso di esse. I Blues infatti, dalla settimana successiva, virano ad un 3-4-3 che ha pochissimi precedenti nella storia della Premier. Perfino l’impronosticabile impresa del Leicester si era comunque attaccata al canovaccio brit della linea a 4, quasi fosse un mantra da tramandare di generazione in generazione fra una tazza di tè e un disco degli Stones. La straordinarietà dell’ex Ct della Nazionale risiede qui: coraggio di sperimentare, idee chiare, maestria tattica e ferrea presa sugli interpreti a disposizione.

Il 3-4-3 elastico – spesso 3-2-4-1 in fase di possesso – diventa il grimaldello per scardinare una Premier rinnovata, in evoluzione come mai prima: dal gioco di posizione guardioliano al gegenpressing di Klopp fino al bielsismo rivisitato di Pochettino, tutti cadono davanti alla creazione inedita del mister salentino. Uno che aveva già fatto le prove generali in estate, spazzando via le favorite Belgio e Spagna con un sistema diverso eppure simile per applicazione e punti di riferimento nei 90 minuti. E, come in ogni capolavoro, esiste un emblema: un simbolo che assurge ad elemento distintivo di un pensiero che scardina le comuni convenzioni.

Piccolissima esemplificazione in 5 secondi del David Luiz in versione contiana.

David Luiz è il suo personalissimo elemento di rottura, l’ingranaggio che – messo al centro del sistema – rivoluziona il senso stesso del campionato contiano. Un difensore troppo poco difensore, uno che in infanzia ha litigato furiosamente con i concetti di concentrazione ed applicazione. David il goliardo, Luiz lo strapagato: strambo giullare simil-telespalla Bob spesso finito al centro di umiliazioni calcistiche, vuoi per carenze tattiche o nervose. Quello del 7-1 del Mineirazo, ultima immagine globale di un difensore per sbaglio.

Eppure, la mossa di Conte è un ribaltamento geniale: il suo abito tattico, inedito a quelle latitudini, sfila perfetto come un Armani. Sobrio, composto, resistente: moderno e classico al tempo stesso. Straordinariamente cucito sulle caratteristiche peculiari di Luiz: libero, prima fonte di gioco che permette un’uscita pulita del pallone in ogni situazione, creatore di spazi e triangoli di costruzione grazie al suo movimento verso il centro del campo.

In Inghilterra è già un must. Conte’s era: before and after 3-4-3.

È l’unico allenatore esordiente in Premier ad aver vinto 12 partite consecutivamente; ha serrato la porta, difendendo con un 4-2-3-1, subendo 2 reti nelle ultime 12 partite; ne ha segnati 28; ha reso giocatori come Moses e Alonso pedine-chiave nell’interpretazione del sistema nelle due fasi. Ha stracciato la lezione di Ranieri dello scorso anno e ha disegnato una tesi in modernità del football, sintetizzando la sua figura in un ibrido tra allenatore “di campo” di tradizione italiana e manager all’inglese.

Insomma, al netto di un cammino ancora lungo, la sua appare già come la stagione della vita grazie a preparazione globale e spinta all’innovazione in rapporto al contesto. Oltre i cliché e i luoghi comuni, che in molti casi abbondano. Vedi il logoro ritornello della “favola-Leicester” di cui sopra. Il 3-4-3 di Conte, oggetto non identificato al di là della Manica – proprio nella stagione della Brexit – rimane forse il lascito calcistico che più deve far riflettere. E magari rendere giustizia ad un campionato e una scuola formativa troppo spesso bistrattati – la Serie A – sacrificata sull’altare miope ed autoconsolatorio di un passato glorioso che non esiste più.

(Immagine di copertina di Sara Liguori)