Don Andrés, l'uomo - Zona Cesarini

Don Andrés, l’uomo

“Sarò sempre in debito con Andrés Iniesta: mi ha aperto gli occhi più di ogni altro su come si dovrebbe giocare a calcio”. (Pep Guardiola)

Se c’è una maglia che voglio acquistare da anni è quella di Iniesta. A frenarmi sono due fattori: la mia non particolare simpatia per il Barcellona e per la Nazionale spagnola ma soprattutto una sorta di riverenza – di muto rispetto o venerazione – che provo nei confronti de el Jinete Pálido, il Cavaliere Pallido, altro soprannome con cui è noto Andrés Iniesta. Perché dal ritiro di Zinedine Zidane e di Andrea Pirlo non c’è nessun calciatore al mondo che sia in grado di pareggiare la sua classe e la sua innata capacità intuitiva. No, vestire la maglia di Iniesta sarebbe un gesto ridicolo, di eccessiva sbruffonaggine e di cui francamente non sento di macchiarmi: sarebbe troppo pretenzioso presentarmi al campo con la 8 di Don Andrés.

Andrés Iniesta Luján nasce nel 1984 a Fuentealbilla, paese di duemila anime situato nella regione della Mancia, famosa per aver “dato i natali” al celebre personaggio letterario di Miguel de Cervantes Don Chisciotte. Il padre aveva ereditato dal suocero la gestione del bar del paese – ribattezzato el Bar Luján con chiaro riferimento al primo cognome della madre -, nel quale si alternava al bancone insieme ad altri membri della famiglia (tra cui la sorella e i cugini).andres-10In famiglia ancora scotta la delusione per la sconfitta delle Furie Rosse contro la Francia nella finale di Euro ’84, così l’arrivo del piccolo Andrés viene accolto come una sorta di gioioso palliativo dai giovani e numerosi maschi del clan Iniesta-Luján, che saranno i primi ad iniziarlo al mondo del futbol. Giocando coi cugini, infatti, Andrés s’invaghisce talmente tanto della palla da passarci pressoché tutto il tempo libero, finché ad 8 anni i genitori si arrendono all’evidenza della sua passione e lo accompagnano ad un provino per l’Albacete.

Provino che viene superato a pieni voti ma che apre la porta ad una serie di notevoli difficoltà per gli Iniesta: l’azienda di famiglia non permette flessibilità d’orario lavorativo e così, soprattutto nei giorni festivi, si assiste ad una staffetta da parte degli adulti per accompagnare Andrés al campo di allenamento, che dista 45 minuti in auto dal borgo manchego. Data l’evidente qualità del piccolo Iniesta in versione giocatore, perfino la scuola gli viene incontro permettendogli di lasciare le lezioni mezz’ora prima due volte alla settimana.

Quello che lo sostiene e incoraggia maggiormente è il padre José Antonio, che un tempo era stato un buon giocatore di Tercera Division per il Club Deportivo Denia, squadra dell’omonima città della Comunità Valenciana, e che subito capisce le immense qualità del figlio. Il quale, nel 1996, a 12 anni, partecipa con l’Albacete al prestigioso torneo giovanile Brunete. Quello che non sa è che la presenza dell’Albacete è stata fortemente caldeggiata dallo scout del Barcellona Albert Benaiges, ansioso di vedere dal vivo il minuto ragazzino che dicono danzare sul pallone.n_f_c_barcelona_andres_iniesta-1122409Superfluo aggiungere che l’esito del torneo si riveli positivo e che a settembre dello stesso anno Andrés venga invitato a raggiungere la città graffiata dal talento di Antoni Gaudì; in un mattino di fine estate Iniesta parte assieme ai genitori e al nonno per entrare definitivamente nella leggendaria Masia blaugrana. L’impatto iniziale, però, è devastante: non è facile per un ragazzino adattarsi alla vita di una metropoli, oltretutto distante 500 chilometri da casa.

“È stato difficilissimo adattarsi alla nuova situazione lasciando a casa nonni, genitori, sorelle, zii e cugini. Avevo bisogno di vederli, essere con loro, ascoltarli. Facevo numerose chiamate ogni giorno e le due volte al mese che ritornavo dai miei durante il week-end dormivo pure nel letto con loro. No, non è stato per niente facile”.

Ma Iniesta riesce presto ad adattarsi per due motivi. Il primo è naturalmente il calcio, in grado di fargli dimenticare ogni difficoltà personale; il secondo è la presenza nella Masia di quella che di lì a poco sarebbe diventata la spina dorsale del grande Barcellona di Pep Guardiola: Puyol, Gabri, Victor Valdés sono tutti più grandi di lui, ma lo fanno sentire fin da subito a casa, protetto come lo sarebbe stato un fratello minore.

Dopo sei anni di Masia, infine, anche la famiglia si trasferisce a Barcellona: l’inizio dell’importazione massiva di vini rossi dal Sud America ha infatti drasticamente ridotto il turismo enogastronomico di Fuentealbilla, costringendo papà José Antonio a chiudere l’attività di famiglia. Dall’inizio del millennio gli Iniesta vivono in una modesta ma accogliente abitazione a Sant Feliu de Llobregat, un paese famoso per l’annuale Festival delle rose situato a 10 chilometri dal centro di Barcellona.

Nel frattempo, l’ascesa dell’Iniesta versione calciatore è inarrestabile. Gioca in tutte le categorie, senza affrettare i tempi o bruciare i vari passaggi di maturazione in blaugrana: Bambino B, Bambino A, Cadetti B, Cadetti A, Junior A, sono le tappe obbligate prima delle due stagioni col Barcellona B (2002-2004) che gli valgono la chiamata in prima squadra da parte del tecnico Louis van Gaal.

La stagione 2004/05 è la prima nella quale trova continuità tra i professionisti. Mai da titolare, visto che viene spesso inserito come arma tattica all’inizio del secondo tempo. Ancora non ha un ruolo chiaro né una posizione rigida in campo, che d’altronde mai avrà: non si può imbrigliare Iniesta, né in campo né fuori, dove ha bisogno delle proverbiali pause riflessive che gli permettono poi imprevedibili exploit creativi.

È velocissimo nello stretto, non sbaglia una verticalizzazione, tira benissimo ma soprattutto vede il calcio prima di chiunque altro. Se arranca in qualche apparizione, è soltanto perché l’ennesimo piccolo infortunio di quel fisico compatto ne sta limitando i movimenti.

È da sottolineare come Iniesta, in quella stagione, vinca il campionato spagnolo e veda accrescere progressivamente il proprio peso all’interno dello spogliatoio catalano. Non è ancora così conosciuto a livello europeo, ma è già un punto di riferimento per i compagni. Twitter doveva ancora essere inventato e il concetto di virale aveva esclusivamente connotazioni mediche: le sue giocate erano rimaste impresse soltanto nelle retine degli esperti di calcio giovanile, o poco più.

In sintesi, il percorso di affermazione di Iniesta è stato lento quanto inesorabile, senza fretta ma con costanza: che fosse un talento puro lo sapevano benissimo sia i compagni di squadra che lo staff tecnico-dirigenziale; che non ci fosse da montarsi la testa per qualche buona prestazione in partite selezionate col contagocce, lo sapeva lui più di tutti:

“Quando avevo 12 anni, mio padre per comprarmi le Predator ci mise 2 mesi di risparmi. Ora sono contento di portare sempre quel modello, perché mi ricorda da dove sono partito e quanto conti rimanere umile”.

L’anno che fa da sliding door decisivo è il 2006: Andrés scippa il posto nello starting 11 a Edmilson, giocando di fianco di Xavi e Deco e a supporto del tridente Ronaldinho-Eto’o-Giuly. E proprio dal francese erediterà l’anno seguente l’iconica camiseta numero 8 che tuttora lo accompagna, originariamente sostituita dalla numero 24. Assieme alla seconda Liga per lui arriva pure la prima di 115 chiamate in Nazionale e l’inserimento nella lista dei convocati di Aragonés per i Mondiali: a 22 anni appena compiuti e come al solito in punta di piedi, Iniesta è pronto per entrare nel gotha del calcio.

La stagione invece maggiormente ricco di soddisfazioni agonistiche è il 2008, che per Iniesta comincia il 29 giugno con la vittoria dell’Europeo a Vienna. Dei 22 giocatori della spedizione, Iniesta è l’unico a giocare tutte le partite risultando il migliore in campo nella maggior parte di esse.o_f_c_barcelona_andres_iniesta-217771Nonostante provenisse da un brutto infortunio, è nettamente il migliore in semifinale contro la Russia e l’uomo iberico in più a centrocampo: grazie alla presenza dietro di lui di Marcos Senna riesce infatti a giocare 10-15 metri più avanti e ad essere decisivo nel lanciare a rete i compagni, trovare corridoi alle spalle del centrocampo e generare superiorità numerica nel sistema di possesso palla e gioco di posizione tipico di quella Spagna. A fine torneo sono scontati sia l’inserimento nella Top 11 della UEFA che la gratitudine incondizionata da parte dei connazionali. Non fosse per la presenza in rosa di Puyol, Xavi e Casillas, Aragonés avrebbe affidato la fascia proprio al 24enne ex capitano dell’Under 21.

La stagione 2008/09 si conclude con un altro trionfo: la vittoria della Champions League. A differenza del 2006, questa volta Iniesta è un attore principale nell’impresa, che si materializza grazie anche ad una sua prodezza nei minuti finali di una tiratissima semifinale contro il Chelsea. È un gol che fa da spartiacque: nel momento più difficile, ha ufficialmente inizio l’ascesa del Barcellona griffato tiquitaka di Pep Guardiola, che avrebbe dominato la scena europea per gli anni a venire.

Ma Iniesta riesce a fare ancora meglio in occasione dei Mondiali di Sudafrica 2010. Dopo quasi un anno d’inattività a causa di un infortunio al bicipite femorale, el hombre de la Mancha si prende il ruolo di leader tecnico silenzioso delle Furie Rosse, trascinando la squadra a suon di gol (segna in ogni partita tranne una) sino al titolo più ambito da ogni calciatore segnando il gol decisivo in finale. Per tutti, neo-allenatore Del Bosque compreso, oramai è Don Andrés. Colui che a suon di giocate utili ma fantasiose, e soprattutto decisive, è entrato di prepotenza nella storia del calcio europeo.

Sul campo, durante i festeggiamenti per il titolo, Iniesta appare come il più incredulo di tutti. Sfoggiando la maglietta dedicata all’amico di sempre Dani Jarque – morto un anno prima a Firenze per asistolia durante un tour con l’Espanyol -, Andrés non pare né sollevato né particolarmente esaltato come gli altri compagni: sembra soltanto contento e soddisfatto di sé, anche se un velo di malinconia e introversa inquietudine continua a segnare i connotati di quel volto timido e pallido.

In fin dei conti, sono passati già dieci anni dal suo esordio in Liga e quasi venti da quando ha lasciato il nido di Fuentealbilla. Anni di timori, sacrifici, assist col contagiri, incredibili dribbling nello stretto e una totale quanto ricercata banalità verso i media, che hanno minato la stabilità di un carattere mite e dimesso rendendolo un anti-personaggio venerato, però, alla stregua di un eroe:

“Spesso mi definiscono un eroe, ma non hanno capito niente. Eroe è chi emigra coi figli in un altro paese per cercare fortuna o chi cura le persone salvando la loro vita. Io sono solo un maledetto calciatore”.

Ideale uomo-spogliatoio, Iniesta è venerato pure dai compagni, dei quali non ha mai tradito la fiducia sul campo o fuori. Molto interessante ed esemplificativa del suo peso specifico all’interno dell’organizzazione tattica è una celebre battuta dello scrittore Marco Bucciantini, che recita più o meno così: “Il famoso tiki-taka? Secondo me ‘tiki’ è Xavi, mentre ‘taka’ è Iniesta: spesso ci si scorda che comunque i moduli li interpretano i giocatori”.

Ma nella visione media dello sportivo odierno a fare di un giocatore un calciatore vincente – o un eroe – sono esclusivamente i titoli di squadra. Che nel salotto di casa Iniesta non sono mai mancati: ad oggi, il suo palmarès conta 8 campionati spagnoli, 11 tra Supercoppe e Coppe Nazionali, 4 Champions League, tre Supercoppe Europee, due Europei, una Coppa del Mondo con la Spagna. Iniesta, nonostante tutto, è rimasto un normalissimo ragazzo di provincia: costantemente a disagio nel ruolo di icona calcistica globale – quando deve districarsi fra sponsor, interviste e special televisivi -, ma molto aperto e disponibile verso i suoi tifosi.iniesta-2Onesto, chiaro e lineare nei pensieri, non esiste giocatore al mondo che non sia rimasto ammaliato dalla sua classe così naturale. Ma, come capita nella narrazione tipica dell’outsider che ce l’ha fatta, anche per Iniesta non sono mancate le difficoltà. Come lui stesso racconta, citando il periodo in cui ha sofferto di depressione:

“Dopo i Mondiali, all’improvviso, cominciai a stare male. Il problema è che davvero non sapevo cosa avessi. Mi fecero un’infinità di esami e risultarono perfetti, ma il mio corpo e la mia mente non si incontravano. Niente ti dà più dolore del non sapere quello che hai. Tutto quello che so è che era angosciante: la palla diventava ogni giorno più pesante, mi sentivo male e la gente intorno a me non capiva. È stata dura, molto dura”.

Come sostiene la moderna psicoterapia, a volte, proprio l’aver ottenuto la realizzazione completa delle proprie ambizioni lascia smarriti, svuotati, con dubbi sulla propria capacità gestionale e di riuscita nel trovare nuovi obiettivi o modi di realizzarsi. Quel che è certo è che non è un risvolto inedito nel mondo dello sport: da Lindsay Vonn a Gigi Buffon, da Gaetano D’agostino al capitano della Roma scudettata Agostino Di Bartolomei, sono molti i casi documentati di forme di depressione che colpiscono sportivi di alto livello. Senza citare gli ex fenomeni Ian Thorpe, Casey Stoner, Marco Pantani e, per rimanere nel mondo del calcio, l’Imperatore nerazzurro Adriano.

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Molti lottano ancora contro i propri demoni, mentre altri ce l’hanno fatta. Tra quest’ultimi sicuramente possiamo annoverare Andrés Iniesta Luján da Fuentealbilla, che al lavoro ossessivo sul campo ha aggiunto un lavoro ossessivo sulla propria testa, circondato dall’affetto dei familiari e della famiglia-Barcellona. Che è uno dei motivi per cui non ha mai preso in considerazione l’idea di lasciare la Catalogna, nonostante ricchissime offerte recapitategli da ogni parte del globo.

Icona della Spagna rurale e unico giocatore iberico evocato in ogni stadio, continua a far ammattire gli avversari sul campo e contestualmente è diventato presidente onorario e socio di maggioranza dell’Albacete Balompié, dimostrando la sua gratitudine verso la società che l’ha lanciato pagando di tasca propria gli stipendi arretrati – circa 250.000 euro – che avrebbero condannato il club manchego alla retrocessione in quarta divisione, con conseguente fallimento, nel 2014. E che tuttora sponsorizza attraverso la sua azienda produttrice di vino: la Bodega Iniesta. Il nome della prima annata? Naturalmente El Illusionista, il più celebre tra i suoi numerosi soprannomi.

Entrato nella fase crepuscolare della carriera, ci mancheranno le sue giocate quando appenderà gli scarpini al chiodo perché, come annunciato a più riprese, scomparirà dai radar del calcio per godersi la vita in famiglia e la sua tenuta. Come nel suo carattere, cercherà l’oblio mediatico. Lui, che è sempre stato il più seguito e ammirato sul campo: leggero, agile e magnetico, è tuttora in grado di giocare sia da regista che da interno e di insegnare calcio ai colleghi più giovani e mediaticamente accattivanti.

Le sue radici tecniche in parte legate ad una smodata passione per il futsal, il calcio a 5, caratterizzano ancora i suoi punti di forza alla soglia dei 33 anni: la padronanza assoluta di gioco negli spazi stretti, il nascondere il pallone all’avversario mantenendo il totale controllo dell’azione e del tempo di gioco, la capacità intuitiva di smarcamento e ricerca dello spazio, l’improvvisa accelerazione palla al piede e la lettura anticipata del gioco di almeno un paio di secondi rispetto agli avversari. Insomma, Iniesta è il gioco.

“Ho iniziato a giocare e sono cresciuto con il futsal, in spazi strettissimi, dove devi trovare una via d’uscita. Spesso una diversa per ogni situazione: sei costretto a provare cose nuove, prenderti dei rischi. Così capisci rapidamente che il possesso della palla è tutto. E questo non cambia mai. Non importa dove giochi”.

Di uomini come Iniesta ne nascono pochi. Di giocatori ancor meno. Per lui, come per pochissimi altri interpreti, vale quanto scritto da Paolo Condò, citando il pensiero di Arthur Schopenhauer: “Il talento colpisce bersagli che nessun altro può colpire, mentre il genio colpisce bersagli che nessun altro può vedere.” Iniesta appartiene di diritto a quest’ultima categoria.