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Ventimila. Quarantamila. Sessantamila. Centomila. Cinquecentomila. Un milione. Due milioni. Tre milioni. Quattro milioni: merda! Sentite le palme: vedete questo giocatore, il quale si dice “Domani tutto questo, mai mio!”. Sentite le palme: ecco cos’è la musica.

Il giocatore di Piero Ciampi, per sua natura, non perde mai: male che vada ha sempre una donna dalla quale tornare. È un mostro, gioca a tutte le ore, punta sui cavalli, ha sempre almeno sé stesso e, soprattutto, ha sempre denaro per giocare. Come i veri ricchi, lui non perde mai: ha il gioco, e tanto basta a sopravvivere. La strategia paga? Non lo sappiamo: per lui sì. Non lo sappiamo perché, come chi non è pratico di certi settori, se dotati di una certa dose d’acume (dote tutt’altro che scontata) raramente ci lanceremmo in lodi, critiche puntigliose, annotazioni, non avendone i mezzi.

In generose proporzioni, azzarda chi ha il portafogli abbastanza gonfio per osare su larga scala. Azzarda chi, esperto di finanza ai massimi sistemi, sa che porterà a casa almeno il sacrosanto gettone di visibilità, proprio a perdere. Se la fortuna lo arride, di contro, legherà il suo nome a una storia gloriosa, a un’impresa che resterà negli annali, testimoniata negli anni da fotografie, video, metonimie di sorta.

Michel Platini vestiva una regale casacca Ariston. Pochi anni prima il futuro juventino, nonché hombre del partido Paolo Rossi, sfoggiava fiero la casacca biancorossa del Vicenza, con un’elegante erre blu poco più in là del cuore, simbolo di un’industria tessile storica (in questo, e solo in questo caso, si parla di abbinamento e non di sponsorizzazione, ossia di un nuovo soggetto economico nato dalla fusione di due realtà societarie provenienti da settori diversi). Il Milan di Tassotti ci metteva il Cuore, Maradona sfoggiava un’invitante scritta Buitoni, Baggio l’anticipava sul pasto con uno sfavillante Crodino, l’Inter trapattoniana volava leggera con Misura e la Roma che scavalcò il millennio a suon di trionfi, si assicurava un successo dietro l’altro con INA Assitalia.

E poi Pirelli, Cirio, Banca di Roma, Fiat, Barilla: in Italia ogni grande marchio, sin dal ventennio Settanta/Ottanta (sì, proprio gli anni cari ai miopi nostalgici), ha cercato con alterne fortune di lasciare un segno nel calcio che conta. Con un concetto col quale oggi si percula l’amico creativo, grafico, copywriter, freelance a caccia di una giusta retribuzione: la visibilità.

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Industriali di ogni specie si sono scervellati prima per capire come aggirare norme e regole che impedivano ai loro amati brand di comparire sulle casacche, poi per capire su chi puntare, come differenziarsi, come convincere che quella era la strada giusta.

Ne è una banale dimostrazione l’evoluzione e l’allargamento delle dimensioni sostenibili, mai come in questo caso importanti: 110 cm2, poi 144, 200 e infine 250. Con le dimensioni sono cresciuti anche gli sponsor esponibili: uno, due, tre. L’equazione è semplice: più spazio, più sponsor, più soldi. Anche in casse inaspettate. Lo sponsor paga in moneta sonante e, complici le lacune e le assurdità del sistema del calcio italiano, che impediscono a quasi tutte le squadre di navigare in acque tranquille, si rivela una voce sempre più fondamentale nei bilanci dei club.

Il puzzle è formato da main sponsor, co-sponsor e, per chi vuole dotarsene, sponsor sul retro della maglia, sotto i numeri. Nell’ultima stagione sono così entrate nelle casse della massima serie circa 91 milioni totali, (non) equamente suddivisi.

Juve e Milan pareggiano, almeno in questo caso: entrambe le società hanno incassato 17 milioni da Fiat ed Emirates: i rossoneri possono vedere il proprio cachet, in caso di risultati particolarmente importanti sul campo. L’Inter, che quest’anno viaggia a corrente alternata, ha chiuso, non senza strascichi, il legame storico con Pirelli: al suo posto l’azionista di maggioranza Zhang Jindong (sì, quello di “Fozza Inda!”) ha posto il marchio Suning, società cinese che si occupa di vendita al dettaglio di elettrodomestici e affini.

A Napoli, tra acqua, caffè e carboidrati, De Laurentiis incassa poco più di 10 milioni. Nella capitale, di contro, di main sponsor nemmeno l’ombra: sia Roma che Lazio, infatti, si presentano regolarmente in campo con il petto vuoto, prestandolo eventualmente per nobili cause, come quella di Telethon o No Racism. Identico il caso della Fiorentina, sulle cui maglie spicca il logo di Save the Children, sopra a quello della Folletto, nuovo main sponsor dopo cinque anni di vuoto. Niente main partner nemmeno all’ombra della Lanterna: sia Genoa che Sampdoria, al momento, contano esclusivamente sulle revenue di co-sponsor e brand posteriore.

In ultimo fra i casi notevoli, è bene citare quello della finta Cenerentola Sassuolo: il patron Squinzi gira nelle casse neroverdi una ventina di milioni circa, gentilmente elargiti dalla Mapei, cioè da lui medesimo. Un caso più unico che raro, a fronte soprattutto dei 22 milioni che transitano fra le due società.

Sono numeri alti? No, “ce lo dice l’Europa”: siamo il fanalino di coda del calcio che conta. Gli accordi fra i nostri club di Serie A e le varie aziende valgono poco più di 72 milioni di euro: sopra di noi ci sono i francesi a quota 83 milioni, gli spagnoli a 97, i tedeschi con 120. Irraggiungibili, oltre tutto, tutti e Manica, i club di Premier: nella passata stagione potevano spartirsi 264 milioni di €. Un piatto ricchissimo e indigesto, soprattutto per gli altri, cresciuto di altri tre milioni di euro proprio in questa stagione.

Sponsor Inglesi

Chi paga per farsi vedere nei campi albionici? Risposta: tutti. Da tempo ormai il sistema football piace, diverte e fa divertire, appare più sano di altri, più capace di reggere pressioni politiche e antropologiche, severe logiche televisive et alia. Per un’evoluzione totalmente differente dal campionato italiano, quello inglese può contare spesso su stadi belli e di proprietà, merchandising e, appunto, munifici investitori, senza restare impiccato al nodo dei diritti televisivi (che, nei bilanci, rivestono comunque un ruolo importante).

La particolare classifica assomiglia a quella di un campionato, sul campo, noioso e scontato: al comando c’è il Manchester United dei fratelli Glazer (figli di quel Malcolm Glazer tanto “amato” dai tifosi dei Red Devils), con 47 milioni di sterline, seguito a 7 lunghezze dal Chelsea di Abramovic. Più distanti si fermano Arsenal a 30 milioni, Liverpool a 25, City a 20 e Tottenham a 6.

Un campionato noioso, dove le prime cinque squadre si spartiscono più del 70% del totale, relegando in penultima posizione il Leicester delle meraviglie di pochi mesi fa, con appena un milione di incasso, sassuolescamente infornato da Vichai Srivaddhanaprabha, ceo dello sponsor King Powers e, al contempo, presidente delle Foxes.

Il campionato parallelo

Parallelamente alle squadre, si affrontano quindi aziende, cordate e solisti dell’imprenditoria internazionale, che abbandono i settemila e passa metri quadri d’erba per i trecento centimetri quadri di tessuto tecnico. Ed è un campionato a vocazione estremamente straniera, segno del fascino inarrivabile della Premier: dei diciotto nomi, solo quattro sono inglesi. Questi si trovano davanti a concorrenti cinesi, statunitensi, tailandesi, filippini, maltesi, kenyoti e giapponesi.

Diciotto, non venti: il gruppo gibilterrino Mansion infatti, big player del settore del gambling – ha recentemente inglobato anche Casino.com – gioca su due campi, quello del Crystal Palace, al quale vanno 5 milioni di sterline, e quello del Bournemouth, con 2 milioni. Come lui, anche Dafabet, brand filippino e suo diretto competitor nel settore, si schiera con Sunderland e Burnley.

E proprio le scommesse la fanno da padrone sul ricco mercato anglosassone: ben dieci squadre su venti incassano da questi brand. Al già citato quartetto si aggiungono Swansea, West Ham, Stoke, West Bromwich, Hull City e Watford.