Le omelette di Paulo Sousa - Zona Cesarini
REGGIO NELL'EMILIA, ITALY - NOVEMBER 30: ACF Fiorentina coach Paulo Sousa looks on before the Serie A match between US Sassuolo Calcio and ACF Fiorentina at Mapei Stadium - Città del Tricolore on November 30, 2015 in Reggio nell'Emilia, Italy. (Photo by Marco Luzzani/Getty Images)

Le omelette di Paulo Sousa

“Dobbiamo fare l’omelette con le uova che abbiamo.”

Questa fu la sibillina frase pronunciata da Paulo Sousa, da appena due mesi sulla panchina viola, a proposito dell’arrivo a Firenze di Joan Verdù. Si era a pochi giorni prima della chiusura del mercato estivo 2015, e ci si aspettava almeno un colpo last-minute di Pradè per puntellare una rosa che ai più appariva incompleta. Arrivò il 32enne galiziano, ex-canterano catalano, a parametro zero dagli Emirati Arabi; giocatore che un decennio prima era stato anche un bel prospetto, ma che era palesemente nella fase calante della carriera. A gennaio se ne tornò silenziosamente in Spagna, con 8 presenze tra campionato ed Europa League, impreziosite da un gol (bellissimo) in un Fiorentina-Atalanta 3-0.

Quando l’omelette riesce bene.

Quella sarcastica frase fu subito emblema di un travagliato rapporto a tre allenatore-società-tifosi, relazione difficile, mai veramente in equilibrio, mai davvero sbocciata, nemmeno quando i gigliati a cavallo del giro di boa del campionato 2015/16 si ritrovavano ai primissimi piani del classifica. Anzi, da lì si è progressivamente consumata una rottura prima tra allenatore e società (per opposte visioni sul mercato di gennaio), poi tra parte dei tifosi e allenatore (per il crollo del rendimento della squadra da febbraio in poi). Rottura tragicomicamente allargata dalle solite lotte tra guelfi e ghibellini, ovverosia tra gli orfani di Montella e i sostenitori di Sousa.

Tornando alle cose serie, bisogna riconoscere che inquadrare questo allenatore basandosi sul rendimento in campo della Fiorentina è esercizio di stile. La Viola con Sousa è una squadra sospesa tra la meraviglia e lo sfacelo, tra risultati roboanti (l’anno scorso, il 2-0 contro il Milan all’esordio e il 4-1 contro l’Inter a San Siro, quest’anno il 2-1 al Franchi contro la Juventus), prove di caparbietà e gioco contro avversari più forti (vedasi le quattro gare contro il Napoli) e prestazioni tragicomiche (la debacle dell’Olimpico contro la Roma). Ma qual è la vera Fiorentina? Quella che batte la Juve o quella che è maltrattata dalla Roma?

Tanti sono i fattori che influiscono sulle prestazioni di una squadra. Fattori ambientali, livello tecnico degli elementi a disposizione, caratura degli avversari, preparazione alle gare, fattore C. Si guardi l’Inter: appariva come una landa desolata con De Boer, poi è risorta con Pioli e c’è voluta la Juventus per fermarla, eppure i giocatori erano sostanzialmente gli stessi. Ma ad esempio l’olandese ha battuto i bianconeri con una delle migliori prestazioni finora mostrate dai nerazzurri, probabilmente l’unica dove i suoi l’hanno seguito fino in fondo. Sicuramente De Boer non è un dio del calcio ma nemmeno un incapace totale, proprio come Pioli.

Lo stesso vale per Sousa: non lo si può definire un allenatore scarso“, soprattutto da un punto di vista puramente tattico. Testardo invece è un aggettivo che sembra calzargli a pennello. Come quando si incaponì con l’inamovibilità di Ilicic, o relegò per un anno Bernardeschi in posizione di esterno destro a tutto campo. O quando ha preferito per buona parte del girone di andata Milic ad Olivera. Ma la questione è più complessa: nell’immediato, pareva aver ragione. Poi, mentre il delicatissimo giocattolo si rompeva, lui non sembrava capace di aggiustarlo con le mosse più ovvie e lineari.

Forse il problema è che il suo calcio alla lunga non è sostenibile da una squadra come la Fiorentina, e Sousa non vuole adattarsi a questa situazione. O forse non può. Ma qual è il suo calcio?

Nonostante abbia più volte cambiato modulo e uomini in questi due anni, appare evidente come Sousa abbia inquadrato la Viola in un 3-4-2-1 in fase di possesso, nelle intenzioni estremamente aggressivo e caratterizzato da ritmi alti, squadra corta e un baricentro medio alto. Un sistema di gioco proattivo, molto dispendioso e al tempo stesso asimmettrico e scoperto, che richiede una costante azione di corsa, applicazione e sacrificio degli esterni di centrocampo (chiamati al contempo ad attaccare per regalare ampiezza e poi abbassarsi ad agire da terzini) e una circolazione di palla elegante ma agile, che parte da una difesa a 3 piuttosto alta e si articola in un quadrilatero di fioretti tra il duo di pivote in mediana e il duo di trequartisti.

Una squadra sì manovriera, ma che – a differenza della Fiorentina di Montella – dovrebbe essere assai più portata alla verticalizzazione, alla pressione costante, alla palla portata in area attaccando la profondità.

Pressing alto orientato sull’uomo + Kalinic = Gol.

Emblematico in ciò il confronto sull’uso del centravanti, vero cruccio dell’attuale mister milanista: se Vincenzo aveva trovato la chiave di volta con l’atipico Giuseppe Rossi, non riuscendo mai a far ingranare Mario Gomez, Sousa ha la sua soluzione in Kalinic, ovvero una curiosa sintesi di tecnica di base e fisicità necessari per svolgere accanto ai compiti di finalizzazione tutto quel lavoro che va dal primo pressing al far salire la squadra, fino ad attaccare la profondità, rifornire sponde e assist, e creare spazi per i centrocampisti. Insomma, serve uno che sappia fare “reparto da solo” attraverso un set di movimenti oltremodo completo.

Tutto bello, sulla carta. E a tratti la sua Fiorentina lo ha adeguatamente esposto sul campo. Ma ogni impianto di gioco ha i suoi limiti, e la rosa della Viola non aiuta a colmarli. Va pure detto che quando Sousa ha rimescolato le carte (doppio centravanti, o 4-2-3-1) in realtà la squadra ha reso generalmente peggio. Forse per semplice disabitudine tattica, o forse perché davvero questo è l’unico schieramento, l’unica impostazione di gioco possibile? Analizziamo brevemente le criticità, tattiche e dei singoli.

Le corsie esterne, ad esempio. Qui Sousa ha creato i suoi capolavori, trasformando prima Marcos Alonso da terzino mediocre ad esterno esplosivo a tutta fascia (chiedere a Conte), lanciando poi il giovane Chiesa Jr che finalmente ha permesso lo sganciamento di Bernardeschi da quell’infausto ruolo per posizionarlo sulla linea dei trequartisti per attaccare lo spazio davanti a sé.

Un vero peccato non averli avuti tutti insieme a disposizione, e doversi barcamenare nel tempo tra Tello – esterno offensivo mai brillante -, Milic e Maxi Olivera – terzini modesti – per completare l’undici titolare. Al momento, proprio il giovane Chiesa sembra essere l’unico veramente capace ad assecondare i compiti tattici che il mister richiede in quella posizione, per capacità tecniche, atletiche e mentali. Ritornano le omelette e le uova a disposizione.

Sul pacchetto arretrato, poi, apriti cielo. Di fatto, da anni a questa squadra manca il terzo centrale di difesa, casella dove drammaticamente finisce per essere titolare Tomovic, giocatore assolutamente stimabile per impegno e dedizione ma banalmente inadeguato a certi livelli.

L’ultima soluzione di Sousa è stata l’arretramento di un centrocampista centrale, Sanchez, con tutti i pregi e i difetti che questa soluzione impone. Il colombiano si rivela importante nelle uscite difensive palla a terra, forte nel gioco aereo e nei contrasti, ma fatica molto nei movimenti a coprire la profondità alle sue spalle, li deve pensare e non li ha nel dna, oltre a soffrire terribilmente l’1vs1 con ali rapide.

Un classico di questa parte di stagione.

Anche davanti le problematiche non mancano. La casella di centrosinistra, quella occupata generalmente da Borja Valero: è il famigerato elastico, regista avanzato chiamato spesso ad abbassarsi in funzione di raccordo tra mediana e attacco per fornire una soluzione di uscita fra le linee avversarie nell’ultimo terzo di campo.

Chiave tattica rilevante, ma le 32 primavere dello spagnolo si fanno sentire nello svolgere un compito a dir poco dispendioso tra associazione del gioco, attacco degli spazi, primo pressing e ripiegamento nella linea a 4 con cui la Fiorentina è solita difendere (4-4-2). E non che ci siano grandi alternative nel ruolo. Cristoforo, o eventualmente – e con tutt’altra interpretazione – Tello. Insomma, pareva un ruolo ritagliato su misura, ma forse Borja un ruolo così non è più in grado di sostenerlo. E un correttivo non è mai stato pensato.

E il centravanti? Nel croato Kalinic certamente Sousa ha trovato la corrispondenza ideale al suo identikit di “numero 9”, ma lo stesso non si può dire per la sua (unica) alternativa: Babacar. Perché se al senegalese non mancano né il fisico né il fiuto del gol in area, manca invece la concezione del ruolo (o l’impegno) per svolgere tutto il lavoro che il mister richiede. Personalmente ormai propendo per la prima ipotesi, e le stesse difese – frequenti – di Khouma da parte del mister tendo a leggerle come un “non è che non è forte, è che non so che farmene”. Insomma, Babacar rimane un centravanti di superata concezione.

Ma non esistono soltanto i singoli, e le difficoltà di questi si mischiano e si confondono con quelle di gruppo. La Viola ad esempio è una squadra dal basso livello di concentrazione nell’arco dei 90 minuti: commette tanti errori, spesso banali, a volte disastrosi. Si pensi al gol di Kucka in Milan-Fiorentina: una punizione laterale dai 30 metri sorprende la difesa a zona dei gigliati, e lo slovacco insacca di testa in mezzo a tre difensori. Esempio di errore di reparto, ampiamente ribadito nella sconfitta interna contro il Borussia, con 4 gol subiti su sviluppi da calcio piazzato. Oppure si pensi al capolavoro contro il Pescara: una difesa schierata – male – squarciata in due passaggi.

Spesso gli errori tendono a deprimere tutti gli undici in campo senza che nessuno sembri capace di riprendere il timone, Sousa compreso. L’unico che sotto questo aspetto è migliorato è Bernardeschi: dal giorno del suo avanzamento, è lui che nei momenti di magra prova a prendersi la squadra sulle spalle, come a Napoli o a Mönchengladbach.

E riecco la difficoltà a giudicare il tecnico portoghese. Perché l’esplosione di Bernardeschi è buona parte farina del suo sacco, anche al netto della posizione bislacca che gli ha assegnato per oltre un anno. In particolare, Sousa non può non essere stato importante nella crescita caratteriale del ragazzo, che lo sta ora portando ad esprimere al massimo le sue potenzialità tecniche. Curioso che questo avvenga per mano di un allenatore adesso considerato apatico dalla piazza.

Bernardeschi gol

Eppure, rimangono incomprensibili alcune scelte che coinvolgono più o meno direttamente il numero 10 viola. Nell’ultimo drammatico match dei Viola in Europa League, l’uscita al 63° minuto di Bernardeschi appare totalmente ingiustificabile sul piano tecnico-tattico, tanto da irrobustire le voci sui rapporti particolarmente freddi tra i due.

Tornando ai problemi e ad un piano più strettamente tattico, la Fiorentina di Sousa è una squadra che soffre. Non tanto per l’avversario, soffre proprio di suo, soffre nello stare in campo. Fatica a tenere determinate posizioni e distanze per un’intera partita, fatica a restare concentrata, fatica sulle palle da fermo, fatica a mantenere una pressione alta per lungo tempo, involvendosi in uno sterile possesso che la lascia pure clamorosamente esposta alle ripartenze, persino in frangenti di gare dove in teoria sarebbe l’avversario a doversi scoprire.

Insomma, la Fiorentina fatica a sostenere ANCHE questa impostazione di gioco, quella ritagliatale su misura dall’alchimista Paulo. In questo la difesa assurge al ruolo di croce della squadra: spesso non è alta come dovrebbe, e non riesce ad uscire davanti ad una pressione alta. Lenta, imprecisa e nemmeno particolarmente aiutata dai centrocampisti che abbassandosi rischiano di allungare a loro volta la squadra. In definitiva, sembra mancare sempre un piano B all’intera fase difensiva gigliata.

Nella gara contro il Milan, ad esempio, i due gol rossoneri hanno entrambi alla base errori in uscita di Gonzalo (palla persa da cui nasce la punizione dei rossoneri) e di un Borja Valero chiamato a fare il pivote al posto di Badelj. Ma, aldilà dei singoli errori, spesso la Viola è andata in difficoltà quando c’era da ripartire, anche in momenti dove la pressione del Milan era praticamente nulla.

In uscita Borja perde palla, poi Deulofeu arriva a tirare tra 5 giocatori gigliati che indietreggiano troppo.

Perfino davanti non mancano problemi del genere: l’azione offensiva di fatto si basa sull’asse di destra, quello tradizionalmente occupato da Chiesa e Bernardeschi (strano, vero?) e che ha in Kalinic un perfetto terminale. Spesso l’assenza di uno di questi tasselli basta e avanza per azzerare la capacità d’attacco viola. Di Kalinic abbiamo detto; riguardo ai due gioielli della cantera, essi sono banalmente gli unici in rosa capaci di creare superiorità numerica, di saltare l’uomo, di sparigliare le carte nelle fasi di transizione positiva.

Sempre in relazione alla gara contro i rossoneri, se già l’assenza di Bernardeschi e l’affidarsi ad Ilicic minava quell’asse (lo sloveno era anche partito bene, salvo poi spegnersi come al solito), l’uscita di Chiesa ha portato all’involuzione totale della fase offensiva gigliata, ridotta a un preponderante ma sterile possesso palla contro un Milan asserragliato dietro per togliere la profondità e assolutamente incapace di uscire, ma mai veramente in pericolo.

In tutto questo, a lasciare perplessi è l’atteggiamento di Sousa: l’eclettismo delle scelte sull’11 di partenza scompare nell’arco dei 90 minuti. La Fiorentina non si corregge mai a gara in corso, non cambia mai davvero assetto. Emerge ancora la testardaggine (o l’apatia?) del portoghese, emerge ancora l’incomprensibilità di alcune scelte.

La gara contro il Borussia ne è l’emblema: aldilà dell’inspiegabile sostituzione di Bernardeschi, il “riassetto” di una squadra che, nei dieci minuti a cavallo dell’intervallo, è passata dall’aver la qualificazione in tasca ad una Caporettosi è risolto in un passaggio dal 3-4-2-1 al 3-4-1-2 con gli innesti dei chili di Babacar e dei piazzati di Ilicic. A mezz’ora dalla fine, è sembrato che il primo ad alzare bandiera bianca sia stato l’allenatore, che, privo di idee, ha buttato dentro fisico ed estro sperando succedesse qualcosa e rinunciando perfino al terzo cambio.

Si torna agli errori che deprimono, si torna alla difficoltà soprattutto mentale nel trovare un qualsiasi tipo di reazione, si torna ad una squadra che appare al contempo impaurita e svagata.

Ma ritorna pure il rompicapo delle omelette: gli uomini a disposizione sono quelli, si affronta una doppia competizione, e anche mettere giù un undici con lo spettro del turn-over è quantomeno complicato. Che materia prima ha veramente a disposizione Sousa per apportare significative correzioni? Si può immaginare come girarsi verso la panchina alla ricerca di una soluzione sia parecchio scoraggiante, quando la carta migliore da giocare per cambiare l’inerzia di una partita è Tello.

In tutto questo, va detto che le ultime due gare – pietra tombale della stagione dei gigliati e anche del rapporto fra Sousa e Firenze – non sembravano necessitare di chissà quale crackné per evitare di complicarsi la vita né per eventuali correzioni in corsa: a San Siro, con un modesto Milan arroccato in una difesa diventata a 5, era il caso di lasciare Salcedo in campo per tutta la gara in posizione di esterno sinistro? Contro il Borussia, al netto del rigore subìto nel finale di tempo, era così ingestibile il prevedibile forcing di inizio ripresa (intenso e tatticamente organizzatissimo, ma tecnicamente modesto) dei tedeschi? Era così impensabile o naif, dico ingenuamente, marcare parzialmente a uomo sui calci piazzati?

Si dice che gli allenatori bravi siano quelli che riescono ad ottenere il meglio dai propri giocatori. Dovessimo valutare con questo metro Sousa, probabilmente dovremmo concludere dicendo che è un allenatore mediocre, visto quanto scritto finora. Ma quella è una frase che vuol dire poco, se presa alla lettera.

Mourinho trovò la quadra dell’Inter del Triplete convincendo Eto’o a fare l’ala a tutto campo, non certo mettendolo nelle migliori condizioni per sé, ma mettendo nelle migliori condizioni la squadra. Sousa ha lavorato su questo concetto?

Forse sì, almeno dal punto di vista tattico. Certo è evidente che a partire da un preciso momento – non a caso coincidente con il mercato di riparazione del gennaio 2016 – è venuto meno qualcosa nella testa e nelle motivazioni del mister lusitano. E viene da sé che l’incancrenirsi di certi rapporti, di alcuni spigoli caratteriali e problematiche di gestione ha progressivamente svuotato di contenuti il raffinato giocattolo viola costruito nei primi mesi di guida tecnica.

In un momento dove di omelette ormai non si parla più e si è di fronte a gigantesche frittate, la domanda pur banale rimane, però, un’altra: questa Fiorentina avrebbe margine tecnico per fare di meglio?