Coi capelli di Frey - Zona Cesarini

Coi capelli di Frey

Sébastien Frey è una di quelle figure che mette quasi tutti d’accordo. È operazione ardua trovare pareri discordanti o almeno poco lusinghieri sull’ex numero 1 francese: ricordato con affetto in ogni piazza toccata nella sua lunga carriera, osservato come si può osservare uno di quei dandy dall’aria bohémien in cerca di un passatempo per ammazzare noia e tempo, venerato al pari di un fenomeno da circo: bizzarro, eccentrico, eppure professionista esemplare tra i pali e figura speciale nel rapporto con le sue tifoserie. E soprattutto esponente di spicco di quella scuola di portieri che oltre all’efficacia – elemento base del ruolo -, ritagliava un personale angolo di spettacolarità ogni week-end. Perché la domanda resta: all’interno di quei 7,32×2,44 metri, quanto era spettacolare Sébastien Frey?

In un campionato in cui il ruolo è egemonizzato da un moloch come Buffon e da un giovanissimo predestinato come Donnarumma, il fascino di Frey rimane quello di un’innocente evasione dallo sviluppo moderno del ruolo: un concentrato naturale di esplosività e stile personale, riconoscibile tra migliaia di pariruolo. È forse questo l’aspetto che, a due anni dal suo ritiro, ancora oggi colpisce e genera una strana sensazione di ammirazione e meraviglia attorno al francese.

Tra i grandi interpreti odierni del ruolo Donnarumma, a 17 anni, già si muoveva dando l’impressione di un nazgul in volo da un palo all’altro; Courtois sembra il perfetto portiere che mai si scompone e detiene l’egemonia totale della propria area di porta con distaccata freddezza; Cech resta uno straordinario mix di fisicità dominante, doti tecniche da manuale e applicazione continua; Ter Stegen appare come l’ideale prosecuzione del portiere contemporaneo, uno sweeper-keeper emanazione diretta della cesura impressa al ruolo da Neuer. Nessuno tra gli elementi di spicco del panorama internazionale sembra rispondere a caratteristiche di pura spettacolarità, estetica ed istinto spinti al parossismo che un portiere come Frey esibiva ogni domenica: una magnifica eccezione alla regola.

Anche Ibrahimovic testa allegramente da 5 metri, di destro e sinistro nell’arco di un secondo, i riflessi di Frey con cannonate da superoe Marvel. Tuffo ad una mano→in piedi→volo a due mani.

Una deroga allo sviluppo del ruolo, sempre più razionalmente legato ad un’evoluzione in senso totale del portiere: chiamato continuamente in causa dai compagni, fondamentale nel compito di primo riferimento della costruzione bassa, nella ricerca dell’ampiezza verso gli esterni eludendo il pressing offensivo, capace di velocizzare le transizioni positive con lanci favorendo i ribaltamenti di campo, pronto ad agire come libero coprendo ampie zone di campo alle spalle della linea difensiva. Il portiere, oggi, è probabilmente il ruolo più rivoluzionato rispetto alla storia del ruolo stesso. Al contrario, il fascino di Frey resta quello di un old-fashioned che si è affacciato al professionismo in un periodo di trasformazioni, portando con sé istinto, tecnica e reattività.

È ancor più bizzarro sapere che un portiere come il francese rimane tuttora il terzo straniero in assoluto per presenze in Italia (446), ma che in carriera abbia vinto soltanto una Coppa Italia ai tempi del Parma. Una sorta di disfunzione in rapporto al talento di base e alla longevità di Sébastien, esordiente a 18 anni – come i grandissimi del ruolo – con l’Inter e ritiratosi nel 2015 nel buen retiro turco di Bursa.

Altra caratteristica che ha costantemente accompagnato Frey negli anni è stata l’evoluzione del suo stile esteriore, dei suoi capelli in particolare, irrobustendo così una narrazione di numero 1 e insieme showman: personaggio eccentrico, diverso, per sua stessa natura, dagli altri. O come apostroferebbero i Bluvertigo nel pop sperimentale di Sono=Sono:

“Giuravo che avrei fatto il portiere, era l’unico a differenziarsi; pensavo che non fosse della squadra, era vestito meglio e stava fermo! E quando io sto fermo è perché ho qualcosa in mente…”

E così come è praticamente ovvio che esistano altre forme di vita, allo stesso modo risulta evidente come Frey sia un’altra forma di portiere, forse demodé. Più vicino alle follie estetiche di Campos e all’attitudine punk tra i pali di Jean-Marie Pfaff che ai grandi interpreti odierni, a cui, però, anagraficamente appartiene. Una carriera controcorrente: parzialmente deludente nell’ottica dei risultati finali, mai davvero al centro della scena, iniziata, però, con tutti i crismi della next big-thing del ruolo: un 18enne semi-sconosciuto, esordiente un po’ per caso, in una squadra come l’Inter.

Segnalato da Walter Zenga alla dirigenza nerazzurra e acquistato senza difficoltà dal Cannes, viene fatto esordire in un campionato di altissimo livello, sfoderando fin da principio quelli che saranno gli stilemi di un’intera carriera: personalità esuberante, reattività felina, capacità di leggere in anticipo traiettorie corte e medie, abilità sovrumana nell’opporsi agli uno-contro-uno a pochi metri dalla porta. Bellissimo da vedere e ancor più da tifare, per Frey la strada sembra segnata: un concentrato di talento da far proprio per sistemare il ruolo più decisivo nel calcio.

Frey nel 2000 all’Inter. Tempo di reazione e coordinazione? Approssimo con tendente a 0,0 secondi.

Invece la sua maturazione prende una piega insolita, complice l’onta epocale del derby meneghino finito 0-6 per il Milan e a cui Frey sarà associato. Come una sorta di reietto. E a nulla vale la buona stagione personale, arrivata dopo una straordinaria annata da titolare a Verona a 19 anni, perché i piani alti del club nerazzurro decidono per la rottura netta e il rifacimento ex novo della rosa. Sébastien viene acquistato dal Parma, che, a sua volta, aveva appena venduto Buffon alla Juventus, puntando senza remore sul francese, più giovane di due anni ma già sulla bocca di tutti per potenzialità tecniche e sfrontatezza.

Il Frey versione parmigiana è un portiere che cresce progressivamente, ampliando il bagaglio di sicurezze e giocate, non intaccando quello stile personale che l’ha lanciato: migliora nelle uscite basse, usa maggiormente i piedi e dà l’impressione di dirigere il reparto infondendo sicurezza ai compagni. È la fase di maturazione di una carriera ancora vissuta con una patina di disincanto in rapporto alle potenzialità espresse, ma Parma è anche il luogo dove riesce ad alzare un trofeo, la Coppa Italia del 2002, che rimane l’unico in carriera. Arrivato nella fase clou della maturazione, a 25 anni, dopo il terremoto societario del club crociato, Pantaleo Corvino riesce, con una delle sue migliori intuizioni, a strapparlo alla concorrenza portandolo a Firenze.

La Fiorentina, uscita in maniera drammatica dalla stagione della risalita in A, dopo una retrocessione sfiorata e tre cambi di guida tecnica, riparte da Cesare Prandelli e da una rosa ambiziosa e completamente rinnovata: Toni, Fiore, Jorgensen, Ujfalusi, Montolivo e Frey sono i pilastri di una squadra che punta l’Europa grazie al calcio equilibrato e propositivo del tecnico bresciano. Ma se la scena se la prende inevitabilmente Luca Toni infilando la cifra monstre di 31 gol in campionato e diventando a tutti gli effetti il nuovo centravanti a cui aggrapparsi, quella di Seba è una stagione da top europeo nel ruolo.

Se si potessero applicare le utilissime statistiche avanzate disponibili oggi, forse risulterebbe che nessuno come Frey ha inciso in termini di punti e continuità di prestazioni in rapporto al piazzamento finale della propria squadra. La Fiorentina 2005/06 arriva quarta, così come nei successivi due anni, cementando un gruppo convinto, con principi chiari e una sicurezza assoluta verso i propri uomini-chiave. Frey diventa simbolo di un ciclo di rinascita, non più isolata eccellenza fra i pali, ma leader e volto sorridente di un processo di crescita e consolidamento che profuma di Europa.

I tifosi, poi, lo elevano a vero idolo: se Toni rappresenta la faccia pulita ed educata del centravanti che vive in funzione del gol ma che non trasmette una profonda empatia, Frey è il personaggio fuori dagli schemi, il gigolò dalle mise audaci con tanto di teschi glitterati, il ragazzo che cambia look al mutamento di stagione sorprendendo ogni volta, il dandy à-la page che si è fatto customizzare una Mini con il tricolore francese solo per sfilare sui Lungarni. Riesce ad andare costantemente sopra le righe senza, però, risultare ridicolo. Frey non è alla moda: detta la moda. Particolare che non sfugge ai tifosi viola, che con l’ironia pungente e un po’ boccaccesca tipicamente fiorentina, acclamano le acconciature del portiere come un invidiato stile di vita.

Ma se la dimensione extra-campo e lo stile del francese rimangono elementi accessori, pur se fondamentali nel tratteggiare l’identikit di una personalità amata da tutti, il rendimento in campo resta la stella polare con cui orientare una valutazione più analitica di Frey. Perché le sue prestazioni non subiscono cali, nonostante un grave infortunio alla tibia che all’inizio della fase fiorentina lo tiene fuori dai giochi per quattro mesi. Al rientro in campo Sébastien ha visibilmente acquisito peso, generando dubbi e sussurri su una tenuta fisica precaria e su una fulminea capacità di assimilazione dei carboidrati.

Al contrario proprio quell’infortunio rappresenta una cesura nell’esperienza professionale di Frey: durante una riabilitazione lunga e più complicata del previsto, il portiere – mai soggetto ad infortuni ed entrato nella fase clou della carriera – chiede consigli a Roberto Baggio, ex compagno in nerazzurro. È anche grazie alla vicinanza del Divin Codino che Seba si accosta alla dottrina buddista, che, come più volte dichiarato, lo aiuta nel trovare un agognato equilibrio emotivo.

“Mi sono avvicinato al buddismo e ne ho parlato con Baggio. È stato lui a presentarmi la persona che mi ha fatto conoscere questa filosofia di vita. E oggi mi sento meglio di prima, ho qualcosa in più, sono più sereno, ho trovato il mio equilibrio. Sono sicuro che il buddismo mi farà migliorare anche dal punto di vista umano”.

È l’ennesima trasformazione di un numero 1 fuori dagli schemi, ma stavolta è un percorso intimo, silenzioso. Un processo che pare cozzare con quell’allure da dandy che ormai è parte integrante della sua figura. Sono le migliori stagioni del portiere francese, che dopo l’infortunio ha lasciato per strada parte dello smalto giovanile e accusa qualche incertezza soprattutto nelle situazioni di gioco con palla bassa a tagliare l’area di rigore, rimanendo spesso troppo vicino ai pali, come se non si fidasse più al 100% della sua eccezionale elasticità.

A Firenze nella partita contro il Napoli di Mazzarri, finita 0-1, c’è sia il talento che il punto debole di Frey: una doppia parata con i piedi che sembrano molle elasticizzate, poi vola come un’aquila su un rigore di Quagliarella, infine prende gol all’88° su una palla bassa dalla fascia, di facile lettura, partendo con un leggero ritardo.

Ci sono poi le competizioni europee, manifestazioni in cui la Fiorentina riesce sempre a giocarsela a viso aperto sia in Champions che in Europa League, togliendosi isolate soddisfazioni come la vittoria ad Anfield Road, quella sul Liverpool al Franchi, la vittoria sul Lione, quella ad Eindhoven, il passaggio agli ottavi e successivo incubo sotto la scure di Ovrebo che concede il gol del 2-1 in clamoroso fuorigioco al Bayern dopo un tiratissimo pareggio all’Allianz Arena, e l’amarissima vittoria per 3-2 nel ritorno. Ma c’è forse una partita, più di altre, che fa intuire il peso specifico del talento e della personalità di Frey all’interno di un collettivo: Everton-Fiorentina.

Nei quarti di finale di Europa League 2008, dopo un sicuro 2-0 all’andata, i Viola giocano a Goodison Park senza troppi patemi in vista della semifinale. Sarà la partita più sofferta della storia recente viola: l’Everton va sopra 2-0, ridicolizzando i Viola a livello di intensità, fisicità e applicazione: ogni seconda palla viene intercettata dai Toffees, ogni contrasto vinto dai giocatori in maglia blu, che sembrano schegge impazzite che si muovono in verticale, spinte dal frastuono del pubblico sotto una pioggia che ha del biblico. In questa situazione inedita, e a un passo dalla clamorosa eliminazione, Frey compie almeno cinque interventi decisivi.

Un passaggio che spiega alla perfezione quella partita: in soli 23 secondi l’Everton – già sul 2-0 – crea due occasioni clamorose per segnare dall’area di porta, in entrambe Frey sposta in avanti il concetto di “riflessi felini”.

La squadra di Prandelli per 75 minuti non riesce neanche a consolidare il minimo possesso per garantirsi l’uscita dal pressing offensivo avversario portato individualmente fino a fondo campo, ma rimane in partita grazie al francese: un puma che vola sotto la pioggia, e toglie letteralmente dalla linea due palloni destinati al gol con movimenti che ricordano i graffi dei grandi felini.

La Fiorentina riesce ad arrivare ai rigori, dato anche il calo fisico dei Toffees nell’extra time, e si gioca l’accesso alla semifinale. La serie è quasi miracolosa: segnano tutti, ma il volo decisivo lo compie Frey, alzando la mano di richiamo sul tiro incrociato di Jagielka e lasciando la gloria del passaggio del turno all’ultimo rigore di Santana.

La lunga parentesi in Viola, coincidente con la maturità agonistica del francese, si conclude in modo agrodolce nell’estate del 2011: periodo di una nuova ricostruzione e fine di un ciclo tecnico che per cinque anni ha portato il club dallo psicodramma della salvezza all’occupare stabilmente il palcoscenico europeo. Il 2011, inoltre, è l’annus horribilis per Frey, vittima di un infortunio al crociato anteriore e ormai ai titoli di coda in favore del polacco Boruc.

Superato l’infortunio e il periodo di riabilitazione passa al Genoa. Un’altra scelta controcorrente a 31 anni: una città dal grande fascino, più vicina alla sua Nizza, una tifoseria tra le più iconiche in Italia, ma anche ambizioni di medio cabotaggio. È il tipico humus in cui Seba sembra voler vivere: prima la maglia, la voglia di essere davvero protagonista e poi il resto, i trofei, le vittorie. Vive in funzione della memoria collettiva più che del mero riconoscimento statistico o da albo d’oro.

Botta di collo pieno da 6 metri. Pararla con un balzo assimilabile a quello di una lince a caccia di lepri nella taiga: . Ordinaria amministrazione.

Un modo di essere che trova la sua sublimazione nel fatto che Frey difficilmente parla di rimpianti o rimorsi, soprattutto tenendo a mente che – cosa realmente incredibile – nei 15 anni di carriera italiana è stato convocato due sole volte, come dodicesimo, in Nazionale. La maglia Bleu meriterebbe un appendice a parte: un racconto kafkesque che ha visto l’imputato Frey condannato all’esilio davanti al tribunale del grottesco di Raymond Domenech, che nel suo settennato alla guida della Francia gli ha preferito giocatori di livello nettamente inferiore come Landreau, Coupet, Ruffier e Mandanda, oltre all’ottimo Lloris. Ma almeno i tifosi francesi non l’hanno dimenticato, dedicandogli lettere e dediche col soprannome Freynomeno.

E perfino a Marassi, nonostante le premesse post-infortunio, diventa subito un punto di riferimento tecnico, e ancora una volta, un idolo per i tifosi. Lo ribattezzano Wolverine, e girovagando per l’internet ho pure scovato un blog dedicato al Frey del periodo genoano: una sorta di diario di viaggio volo del numero 1 a Marassi. Dove si arriva addirittura ad una sorta di petizione popolare mondiale online per non far partire Frey verso Bursa. Un portiere – e un personaggio – che genera idolatria con la facilità di una popstar.

Anche a 33 anni riusciva a generare quella sensazione di rabbia e sconforto negli avversari dopo conclusioni di ogni genere, rimanendo assolutamente tranquillo. Probabilmente avrebbe respinto anche le palline da tennis sparate da una macchina lancia-palle da 70 centimetri di distanza.

A 33 anni abbandona l’Italia, dopo 15 anni consecutivi tra i pali della Serie A, privilegiando l’ennesima scelta sui generis – come quella turca – a varie offerte, rimanendo però deluso per la mancata chiamata della Fiorentina, dove si era offerto come secondo o addirittura terzo portiere per favorire la crescita di Neto.

Si ritira nel luglio del 2015, a 35 anni e con un anno di contratto ancora davanti, un’età avanzata ma non troppo per i portieri contemporanei. Una decisione tranchant, presa più per una visione del calcio che non riesce più a sposare che per un reale desiderio di staccare la spina dell’agonismo a livello professionale. Nel suo modo di essere e di pensare rimane un velo di nostalgia mista a delusione per aver visto da vicino i tempi cambiare, soprattutto in riferimento a quei giovani che hanno un rapporto squisitamente edonistico col mondo del calcio: una visione che il francese non sopporta.

«Quando sono arrivato all’Inter, era come essere in una famiglia. Non voglio dire che trattassero Frey come Ronaldo, ma almeno a livello umano eravamo tutti uguali. Ecco, oggi questo si è perso. Negli ultimi 3-4 anni mi sono accordo che questo mondo mi appartiene sempre di meno. La parola di una persona aveva lo stesso valore di una firma, ora invece contano sempre meno anche le firme. Spesso i ragazzini dai 12 anni in su hanno in testa cose sbagliate: pensano poco al calcio. Non so cosa darei per tornare all’età in cui pensi soltanto a portare il pallone e ad andare a giocare con gli amici. La mia ultima esperienza in Turchia è stata la botta definitiva, avevo un altro anno di contratto ma non volevo avvelenare il ricordo che ho del calcio. È stato la mia vita, non posso andare in campo solo per prendere lo stipendio.»

Dopo il ritiro di due anni fa, ha più volte dichiarato di non sentirsi pronto per fare l’allenatore, tantomeno l’ospite o l’opinion leader che infoltisce i salotti tv. Gioca a golf, si gode la rilassatezza della sua terra di mare – la Costa Azzurra – e scende ancora in campo per puro divertimento con la selezione di vecchie glorie nerazzurre, ma non solo. Facendo sempre e comunque parlare di sé.

Vi invito calorosamente a prendervi 5 minuti scarsi per osservare questa compilation delle migliori parate di Frey, che, diciamo, mette le cose in chiaro su chi sia stato il numero 1 più spettacolare d’Europa. Do not try this at home.

Bonus: cose che ti convinceranno che nessuno è figo come Frey

La piscina nella sua villa a Nizza. Caratteristiche: continuo cambio di colore ad intermittenza.

In ottima forma per una partita d’esibizione a Cannes, tra campi con le palme e tramonti rosa pallido: come se vivesse in un film di Michael Mann.

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È arrivato il momento di dirvi grazie… Grazie a tutti per avermi sempre sostenuto nel corso della mia carriera, per avermi aiutato a crescere come calciatore ma soprattutto come uomo! Porterò sempre con me una parte di ogni squadra dove ho avuto l'onore di giocare!!! Merci a #ascannes , grazie a @inter di Massimo Moratti , a @hellasveronafc di pastorello , al Parma di tanzi, alla @acffiorentina dei della valle, al @genoacfcofficial di Enrico preziosi, a @bursaspor e alla @fffofficiel !!! Merci pour tout! Grazie di tutto ! Thanks for all ! Oggi potete leggere la mia intervista esclusa sul @corrieredellosport ! #corrieredellosport #instafootball #calcio #ligue1 #liguedeschampions #süperlig #europaleague #equipedefrance #thisistheend #intermilan #hellasverona #parmafc #fiorentina #genoa #bursaspor #ilovefootball

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Il ringraziamento a tutte le squadre in cui ha militato, con le maglie che formano un’ideale legacy di Frey.

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Welcome back Marty mc fly… #backtothefuture

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Seba Frey che, come tutti noi, il 21 ottobre 2015 ha salutato l’arrivo di Marty McFly a bordo della DeLorean.

Frey che festeggia il suo ritiro dalle scene con una bottiglia di champagne. Cioè, una Magnum dorata da 20 litri.

Frey che dichiara così al mondo il suo imminente ritorno a Firenze in qualità di ospite per i 90 anni della Fiorentina.