Wayne Rooney e la normalità del gioco - Zona Cesarini
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Wayne Rooney e la normalità del gioco

Nel 1190 Re Riccardo I unì i due leopardi, stemma della Normandia, al Leone d’Aquitania, dando vita all’ancora attuale stemma inglese:  rosso, a tre leoni di d’oro in palo, armati e linguati d’azzurro; gli stessi tre leoni passant-guardand che sono cuciti, senza piegarsi troppo all’estetica moderna, sul petto dei giocatori della Nazionale, i Three Lions.

Leoni d’Inghilterra che, dopo la vittoria per 4-2 a Wembley contro la Germania nella finale del 1966, non sono piú riusciti a portare in terra d’Albione un trofeo internazionale, nemmeno nella vicina Germania nel 2006, nonostante le grandi aspettative e la rosa di primissimo livello.

La débâcle del 2006, con gli inglesi sconfitti ai rigori contro il Portogallo, è una profonda ferita sulla schiena dei leoni, che con una delle rose più competitive della storia recente falliscono la conquista della Germania, 40 anni dopo l’unica vittoria in un mondiale. Sconfitta attribuita all’unanimità a Wayne Rooney, reo di aver reagito alle provocazioni di Ricardo Carvalho e di aver lasciato la squadra in 10 per quasi un’ora di gioco.

Terminata la partita, un uragano di critiche da parte di pubblico e stampa si abbatte su un appena ventunenne Rooney; una sua grave ingenuità aveva compromesso un torneo più che positivo fino a quel momento, ma nella conferenza stampa dopo la sconfitta, Sven Goran Eriksson, all’epoca commissario tecnico degli inglesi, difese pubblicamente il suo attaccante 21enne:

“Wayne Rooney è il golden boy del calcio inglese; non uccidetelo perché avrete bisogno di lui”.

Undici anni dopo, Wayne Rooney è il più prolifico giocatore della storia della nazionale inglese, senza però essere (per il momento) riuscito a riportare oltremanica un trofeo internazionale.

Uno dei primi video di Rooney è un gol contro l’Aston Villa con la squadra giovanile dell’Everton, il gioiello della primavera dopo aver segnato si avvicina alle telecamere mostrando sotto la casacca da gioco una maglietta bianca; sulla maglietta, scritte in maiuscolo ben leggibili con un pennarello blu: Once a Blue always a Blue. Tredici anni dopo, Rooney è tornato a tutti gli effetti ad essere un Blue e chissà che da qualche parte nell’armadio della casa dei suoi genitori a Croxteth, Rooney non conservi ancora quella famosa maglietta.

Un giovane Rooney così come tutta la sua famiglia, è un blue.

È proprio dal malfamato sobborgo appena fuori Liverpool che inizia la storia del Golden Boy inglese, sobborgo dal quale negli anni Rooney non si è mai allontanato. Eredita dal padre i pochi capelli e dalla madre le lentiggini che fanno di lui l’Anti-Beckham per eccellenza, lo Scouse con la faccia da avventore di pub che non si è mai staccato dalle sue origini. La moglie Coleen abitava a due passi da casa sua, in “un modesto appartamento dove i mattoni sanno di lardo e non batte mail il sole”, si conobbero molto prima di tutto, quando Rooney era solo uno dei tanti profili dell’academy dei Toffees.

E in effetti Rooney non si è mai mosso veramente dalla periferia di Liverpool, scelse Manchester perché a 50 chilometri da casa sua; quando gli chiedono perché non ha mai osato giocare all’estero, risponde citando Ringo Starr: “People in Liverpool don’t move very far, you know”. L’esordio in Premier League è datato 17 agosto 2002; due mesi dopo interrompeva la striscia d’imbattibilità dell’Arsenal degli invincibili, ancora 16enne.

“Remember the name: Wayne Rooney!”

Paradossalmente è proprio l’esordio precoce che rende Rooney per l’opinione pubblica un calciatore ormai finito, ma, nonostante i 15 anni da professionista alle spalle, l’inglese ha comunque 31 anni: è più giovane di qualche mese di Cristiano Ronaldo e appena due anni più anziano di Messi.

La crescita di Rooney nei primi anni di carriera è più unica che rara, a 19 anni guida la nazionale maggiore agli Europei del 2004, prima di infortunarsi e vedere dall’ospedale di Lisbona i compagni perdere ai rigori contro il Portogallo.

Un rimpianto che lo tormenta ancora oggi: “Ero in forma smagliante, se non mi fossi infortunato credo che saremmo rimasti in Portogallo molto più a lungo.” A fine Agosto dello stesso anno abbandona la sua gente, non senza critiche e risentimento, e per una cifra record si accasa al Manchester United; si presenta ai Red Devils con una tripletta in Champions League contro il Fenerbahçe.

Sinistro, destro, calcio piazzato; una tripletta pazzesca, una prima da sogno all’Old Trafford, il Teatro dei Sogni. Come scrisse John Lennon, un altro nativo di Liverpool: “A dream you dream alone is only a dream, a dream you dream together is reality.”

Sotto l’ala protettrice di Ferguson è protagonista di un ciclo di vittorie impressionante, gioca in ogni posizione dell’attacco, adattandosi perfettamente ai compiti richiesti in entrambe le fasi di gioco e alle caratteristiche dei compagni di squadra; riesce ad abituare i tifosi a prestazioni sontuose per oltre 7 anni di fila; vince 4 volte il premio di Giocatore Inglese dell’Anno.

Il primo Rooney è un giocatore perennemente nel suo Magic Moment, straordinariamente completo sotto ogni aspetto tecnico ed agonistico: capace di segnare e far segnare – uno dei tre giocatori nella storia della Premier ad essere in tripla cifra sia per gol che per assist – in ogni momento; il gol al Manchester City, poi, decretato gol più bello della storia recente della Premier, è un perfetto riassunto della supremazia dell’inglese durante l’era Ferguson.

Derby of Manchester, risultato inchiodato sull’1 a 1 con lo United che si riversa in attacco per trovare un gol importantissimo ai fini della classifica; Scholes allarga per Nani che scodella al centro un pallone lento e morbido, Rooney è troppo avanti rispetto al pallone, ma in una frazione di secondo cambia direzione e vola. Al di là del gesto tecnico in sé mi stupisce sempre il contesto in cui è riuscito a compierlo, è di fatto un gol decisivo in una delle partite più importanti della stagione. Wayne Rooney, in ginocchio sotto l’East Stand.

Nonostante una vistosa flessione nell’ultima stagione riesce comunque ad arrivare a quota 250 gol e infrangere un record imbattuto da quasi mezzo secolo. Il suo 250esimo gol con i Red Devils, con il quale stacca Bobby Charlton e diventa il capocannoniere della storia del Manchester United, è una perfetta allegoria di cosa significhi essere Rooney: un gol splendido ma quasi inutile, una punizione perfetta che salva la squadra dalla sconfitta contro lo Stoke City, acciuffando nei minuti finali un pareggio che è comunque ai fini della classifica tanto utile quanto una sconfitta. 
Nemmeno esulta Rooney, batte il cinque a qualche compagno mentre corre verso la sua metà campo per far ricominciare il gioco il prima possibile, una sola veloce occhiata alla panchina, quasi a sperare che Sir Alex fosse ancora lì con lui.

Ma Sir Alex Ferguson ha già lasciato l’Old Trafford da qualche anno e Rooney ne ha risentito più di chiunque altro: a 31 anni chiude con una disastrosa stagione dal punto di vista personale il suo cammino a Manchester, per la prima volta in carriera non raggiunge quota 10 gol in una stagione, la sua, caratterizzata da troppe panchine e da un rapporto travagliato con Mourinho.

Rooney paga più di chiunque altro l’addio di Sir Alex, si ritrova in una squadra che di colpo fa fatica a piazzarsi nelle prime tre, in pochi anni passa dal segnare uno splendido gol che piega i rivali del Manchester City, a segnare, sempre contro i Citizens, un inutile gol della bandiera in un sonoro 4-1. Scende in fretta dall’Olimpo dei calciatori a cui tutto è concesso per tornare ad essere un normale attaccante, un normale ragazzo che gioca a calcio; paradossalmente proprio quello che sperava di essere quando la sua vita privata veniva costantemente spiata, quando lui e Coleen erano la coppia del momento.

La sua ultima presenza con i Red Devils è forse l’epifania di come oramai per Rooney fosse arrivato il momento di allontanarsi da una piazza che non è più sua; Mourinho lo manda in campo per gli ultimi secondi della finale di Europa League con la fascia da capitano al braccio, magra consolazione per l’inglese, che nemmeno tocca il pallone prima del triplice fischio.

Finisce così un matrimonio durato 13 anni, Rooney torna a casa, nel suo primo stadio, dai suoi primi tifosi. È probabilmente la sfida più difficile in 15 anni di carriera per l’ex giocatore più pagato d’Inghilterra, l’ultima spiaggia per dimostrare che il ritorno a Liverpool non è la passerella d’addio di un grande campione, ma una nuova pagina della sua ineguagliabile carriera. Le premesse lasciano ben sperare, all’esordio in un’amichevole estiva si presenta con un gol alla Rooney.

Il secondo esordio di Rooney, 15 anni dopo la prima volta coi Toffees.

Sebbene le ultime stagioni abbiano corroso il ricordo di Wayne Rooney come giocatore, il ritorno nel porto di Liverpool dopo 13 anni di avventure lontano (neanche troppo) da casa ha fatto tornare sulle copertine dei tabloid l’inglese, che ormai nemmeno era così abituato ad esserci.

I tifosi hanno accolto calorosamente il loro figliol prodigo, dimenticando quando li aveva abbandonati per i trofei e per il prestigio, e chissà che l’aria di Croxteth non possa far sbocciare nuovamente il fiore Rooney, appassito dalle ultime stagioni, ma pur sempre uno dei più affascinanti d’Inghilterra.

“Non è l’uscire dal porto, ma il tornarci, che determina il successo di un viaggio.” (H.W. Beecher).