Come ricordarsi di Wesley Sneijder - Zona Cesarini

Come ricordarsi di Wesley Sneijder

L’espressione “leggere il gioco” è una delle più fortunate metafore che la letteratura sportiva italiana ci ha consegnato. Quando un giocatore legge il gioco vuol dire che si immedesima in esso, lo interpreta, non cerca di piegarlo alla sua volontà bensì lo asseconda fin quando la partita non gira in un determinato modo. Le partite che Wesley Benjamin Sneijder ha realmente forzato si contano sulle dita di una mano. A lui bastava leggere, capire il contesto in cui era chiamato a fare la differenza per poi assecondare un destino che accomuna tutti i fuoriclasse. Quello di farla per davvero la differenza.

Un giocatore di questo tipo difficilmente finirà negli annali del gioco, anche fuori dal campo non ha mai mostrato un addiction nei confronti del calcio degna di un Cristiano Ronaldo o di uno Zanetti, con cui pure ha giocato e vinto insieme. Semplicemente lui legge la sua carriera esattamente come legge il gioco: senza forzature, senza patemi.

Se la condizione fisica e mentale è quella giusta allora può uscire fuori una stagione come quella 2009/10 in cui è il padrone incontrastato del calcio mondiale vincendo il triplete con l’Inter, trascinando l’Olanda ad un passo dal titolo mondiale e diventando forse l’unico insieme a Xavi e Iniesta a poter legittimamente recriminare sull’alternanza Messi-Ronaldo che contraddistingue tutt’ora l’assegnazione del Pallone d’Oro. Alternativamente, quando il corpo e la mente non comunicano più come un tempo, si accontenta di un palcoscenico meno altisonante come può essere la Turchia o la Costa Azzurra.

Nel frattempo è diventato il recordman di presenze con la nazionale dei tulipani toccando quota 132 caps, due in più di Van der Sar, e anche se ormai i risultati sportivi difficilmente torneranno a collocare Sneijder nel gotha del calcio mondiale, forse negli annali del gioco un posticino gli va trovato. E forse, se al posto di Robben quella sera ci fosse stato Milito, adesso staremmo parlando dell’unico giocatore in grado di spezzare, almeno per un anno, la monotona diarchia argentino-portoghese.

Colpo di fulmine

Guardando giocatori come Sneijder diventa lapalissiano cosa streghi tanto l’italiano medio nel guardare ventidue individui in mutande che rincorrono un pallone. Proprio per la sua ridondanza il calcio tende ad esaltare quei giocatori in grado di tracciare un percorso differente, capaci di disegnare traiettorie con il pallone che per chi è seduto sul divano assomigliano all’espressività artistica di un Kandinskij.

Per questo, quando è arrivato all’Inter, la sensazione che serpeggiava nell’ambiente nerazzurro era quella di aver pescato un gioiello tra una montagna di bigiotteria, e per quanto una pietra preziosa conferisca un’aura aristocratica al contesto non sempre si sposa con una macchina pensata per funzionare su schemi molto poco barocchi. Con quella squadra Sneijder aveva qualcosa da spartire? Il dubbio c’era. Fino a questo.

Non che il pubblico italiano non fosse abituato a prodezze balistiche da fuori area, in questo caso la palla non trova neanche il fondo della rete e più tardi Stankovic farà un gol formidabile calciando anche da più lontano. Però sono passati cinque minuti, in un derby che la controparte interista ricorda come uno dei più dolci del nuovo secolo, e lui è arrivato a Milano da appena un giorno. La capacità di calarsi in un contesto tattico totalmente nuovo, in un campionato mai assaggiato prima, con dei compagni che hanno già iniziato a costruire l’epos mourinhano del noi contro tutti, lo rendono da subito un faro nel senso più letterale del termine. Da quella sera fino a quando Wes non lascerà la compagine nerazzurra tutti i suoi compagni si renderanno conto che per togliere le castagne dal fuoco ne esistono pochi come lui.

La conclusione da fuori area diventa subito un marchio di fabbrica che avevano imparato ad apprezzare sia ad Amsterdam sia a Madrid. Con l’Ajax sono ovviamente i primi vagiti calcistici di Sneijder. Esordisce e più in generale approccia il calcio in un’epoca di passaggio, in cui alle ultime pennellate di Litmanen corrisponde il primo sound aggressivo e graffiante di un giovane Zlatan Ibrahimovic. Al tempo l’Ajax è un coacervo di popoli in cui si fondono le geometrie degli olandesi con il pragmatismo degli scandinavi, il tutto mescolato alla perfezione dall’esotismo di quei giocatori come Boukhari e Pienaar, venuti da lontano e destinati a rimanere tra coloro che son sospesi tra la promessa e la meteora.

Nel primo lustro dei Duemila ad insegnare calcio all’Amsterdam ArenA c’è Ronald Koeman, attuale tecnico dell’Everton e lontano dalla disillusione per un calcio che sente ancora attuale. Il 4-3-3 dell’allievo di Cruijff costringe Sneijder ad adattarsi una volta esterno con forti tendenze centripete, una volta mezzala con compiti prettamente offensivi. Non era il giocatore perfetto per Koeman, ma il tecnico olandese si accorge ben presto che per sviluppare un volume di gioco soddisfacente in un calcio proattivo come il suo, privarsi di un talentino appena ventenne per il quale destro o sinistro non fa differenza avrebbe rasentato la follia. Sneijder vince un campionato, due coppe d’Olanda, fa il suo esordio con la nazionale maggiore e quando nel 2005 Danny Blind rileva Koeman sulla panchina degli ajacidi, esplode definitivamente.

Giusto per capirci: quello sarebbe il suo “piede debole”

Occupa finalmente lo slot di trequartista e dopo una stagione un po’ travagliata si carica la squadra sulle spalle e la trascina al secondo posto in Eredivise e alla conquista della coppa d’Olanda scrivendo 22 alla voce “gol stagionali”. Sono 27 tutti e subito i milioni di euro che l’allora presidente del Real Madrid Ramón Calderón deve sborsare per assicurarsi le prestazioni del fuoriclasse di Utrecht. Diventa il secondo giocatore olandese più pagato nella storia e nella capitale spagnola viene a conoscenza di quanto Plaza de Cibeles ci metta poco a incoronarti Re per poi spodestarti al primo errore.

Ancora una volta è costretto a scendere a patti con la sua indole creativa per assecondare un sistema che non prevede  l’enganche. La prima stagione la vive da protagonista ed è anche grazie a lui che il Real vince la Liga, ma già dalla seconda comincia ad avvertire quel senso di claustrofobia tattica, recluso ai margini di un gioco che invece vorrebbe passasse più spesso dai suoi piedi. L’arrivo di Florentino Perez sulla poltrona presidenziale fa il resto.

Entrano Kakà e Cristiano Ronaldo e per la gioia di Bayern Monaco e Inter escono Robben e Sneijder. Tutto per tornare a quel destro a giro respinto egregiamente da Storari. Un lampo che avrebbe convinto il popolo interista che anche l’ultimo tassello del puzzle si era incastrato alla perfezione.

Innamoramento

Oltre al derby del quattro a zero ci sono altri due momenti chiave per corroborare la tesi di predestinazione che pendeva su quella squadra. C’è ovviamente il gesto delle manette nella partita contro la Sampdoria, il momento in cui Mourinho identifica il metus hostilis (o il rumore dei nemici, prendendo in prestito il lessico mourinhano) e crea quella sovrastruttura psicologica che farà la differenza nel proseguo della stagione. L’altra sliding door risale ad una fredda serata di Kiev.

Nel girone di Champions l’Inter aveva raccolto tre punti in tre partite, e con la sfida del Camp Nou destinata a sorridere ai padroni di casa diventava fondamentale tornare dall’Ucraina con i tre punti. Il gol in avvio del solito Shevchenko (cambia la divisa non cambia la vittima prediletta) mette tutto in salita e fino a cinque dalla fine l’avventura europea dell’Inter è appesa a un filo. Il resto è storia, ma la tenacia con la quale Sneijder si avventa su quel pallone è la dimostrazione che qualcosa è cambiato. Essere il centro nevralgico della manovra non gli interessa più. È disposto ad aspettare che sia la partita ad andare da lui, perché tanto con uno così la partita scende a patti. Non importa se il marchio è stato apposto con un gol sporco, brutto e cattivo (cit. Tranquillo) piuttosto che con una delle sue gemme dai 25 metri.

Quel gol serve anche per trovare una collocazione umana in quella squadra. Adesso Sneijder sa che la mera ricerca del gesto tecnico non basta più e, se il contesto lo richiede, allora sarà pronto a sbattersi per i compagni.

Allo stesso tempo c’è l’altra faccia della medaglia, quella che Mourinho interpreta alla perfezione. Lo stesso Sneijder rivela che con lui usare il bastone ha quasi sempre l’effetto contrario. Una strategia molto più astuta è quella di gestirlo nella maniera meno vincolante possibile. Un non facere che con la maggior parte dei giocatori non paga, ma con un professionista come Sneijder è il modo migliore per ricavarne prestazioni eccelse la domenica. Dopo un periodo particolarmente stressante è lo stesso Mourinho a consigliargli una pausa, magari in qualche posto esotico. Al suo ritorno Wes è lapidario:

“Ero disposto a uccidere e morire per lui”.

Esattamente: una squadra con questa mentalità come fa a perdere? Anche perché intanto Sneijder gioca la sua miglior stagione in assoluto. Segna in quasi tutte le partite più iconiche di quella stagione: la folle rimonta contro il Siena, il trionfo contro il Barcellona in semifinale, e quando non finisce sul tabellino dei marcatori propizia comunque la vittoria, come quando alza la testa e pesca Eto’o pronto a piegare la resistenza di Stamford Bridge.

Alterna giornate da artista a pomeriggi da factotum nei quali pensa più a collegare i reparti, a consolidare il possesso, delle volte anche a facilitare l’uscita del pallone dalla difesa. Si riscopre un giocatore più completo: meno avido di palloni ma molto più attento a trasformare quelli che vede in potenziali occasioni da gol. La stagione del triplete non sarà la sua migliore in termini realizzativi, ma completerà comunque – tra campionato e Champions League – 37 passaggi chiave, 12 assist e sette gol. La realizzazione come elemento funzionale in un sistema lo renderà il perno della nazionale olandese ai mondiali sudafricani.

Una nazionale che sonnecchia nel girone per poi regolare le pratiche più spinose come Brasile e Uruguay. In entrambi i match ci pensa il 10, con la Seleçao segnando entrambi i gol del successo e con l’Uruguay marcandone uno e legittimando una superiorità tecnica che probabilmente, se Robben avesse infilato Casillas, sarebbe tutt’oggi ricordata come una delle stagioni più fantascientifiche per un giocatore che l’aura del predestinato proprio non ce l’ha mai avuta. Già, perché alla fine dei giochi l’Olanda dovrà arrendersi ad una Spagna superiore nel gioco e nell’organico, una Spagna graziata dal giocatore del Bayern, perché ancora una volta Sneijder aveva fatto passare quel pallone.

Forse la sliding door più cruenta per il calcio olandese…

Magari la sua carriera avrebbe preso una piega diversa, o magari non sarebbe cambiato niente (sempre che vincere un Mondiale sia classificabile come niente), di sicuro oggi non solo gli interisti, testimoni di una delle stagioni più gloriose della propria squadra, si ricorderebbero di quanto fosse difficile contenere Wesley Sneijder quando era in serata.

La presa di coscienza

Quel 2010 rimarrà l’anno migliore per Sneijder. Non solo e non tanto per i successi in campo professionale ma perché il 17 luglio a Castelnuovo Berardenga convola a nozze con Yolanthe Cabau. Da lì in poi inizia la seconda parte della carriera di Wes. La situazione in casa Inter degenera nel post-Mourinho e il pubblico si deve accontentare di qualche gemma lasciata cadare qua e là per ricordare a tutti di che razza di giocatore stiamo parlando.

Contro la Roma prima lascia partire il solito missile all’incrocio…
…poi lancia Pazzini nello spazio con una facilità disarmante. Rigore ed espulsione che chiuderanno virtualmente la partita.

Sarà uno degli ultimi eroi del Triplete a lasciare la barca che affonda e rimarrà anche piccato da una separazione figlia di una confusione societaria e manageriale non adatta a chi ha bisogno soltanto di esprimersi sul campo. Trova la sua oasi di tranquillità in Turchia; il Galatasaray ha progetti ambiziosi ma, tolto lo sgarbo fatto in Champions ai danni della Juve (gol di Wes), non riuscirà mai ad affermarsi come un club pericoloso fuori dai confini nazionali. Intanto Sneijder sfrutta l’occasione per ampliare il suo palmarès portando a casa due campionati, tre coppe nazionali e tre supercoppe.

È ovvio che in un campionato come quello turco la superiorità tecnica di Sneijder sia fuori luogo, ma vedere un fiore appassire fa parte del ciclo naturale delle cose. Non ha voluto forzare i tempi, ha aspettato fino all’ultimo prima di decidere che era pronto per una nuova sfida e il dito ha fermato il mappamondo in Costa Azzurra dove a dominare è il rossonero ma non quello del Milan, bensì quello del Nizza. Per sua stessa ammissione la scelta non è dipesa in minima parte dalla rinnovata visibilità che il campionato francese sta assumendo, anche se probabilmente la volontà di tornare al centro dei riflettori ha pesato e non poco.

Sneijder

Il mercato faraonico del PSG, il polimorfo Monaco di Jardim, lo stesso Nizza in grado di giocarsela alla pari con le grandi per buona parte della scorsa stagione hanno reso il sud della Francia qualcosa di più di un bel posto dove passare le vacanze. Un posto dove magari regalare le ultime righe di un romanzo che Sneijder non ha mai voluto forzare per arrivare a una conclusione diversa. Ai posteri spetterà l’ardua sentenza.