Come affrontare la legacy di Guardiola - Zona Cesarini
Guardiola

Come affrontare la legacy di Guardiola

“Signori, questo è il Tiqui-Taca, ed è una merda”.

La citazione è originale di Pep Guardiola, la enuncia durante una sessione video ai tempi del Bayern Monaco per spiegare che a lui tenere la palla per puro esercizio stilistico non interessa affatto. Può sembrare strano, quasi paradossale, dal momento che la filosofia del Tiqui-Taca viene associata intuitivamente all’attuale tecnico del Manchester City.

In sociologia, il senso comune è quel ragionamento elementare che porta a risultati immediati basati su ciò che si palesa evidente ai nostri occhi. È un sistema che ci permette di elaborare soluzioni in maniera più veloce ma allo stesso tempo rischia di limitare i nostri processi cognitivi, sacrificandoli sull’altare del ragionamento intuitivo (80% di possesso palla=Tiqui-Taca).

La stessa parola, senso comune, è stata utilizzata diverse volte da Guardiola per descrivere quell’energia mistica che pervade l’FC Barcelona. Una sorta di barriera invisibile che dentro le mura del Camp Nou rende un club qualcosa di più. È per questo che tanti ottimi giocatori hanno fallito in Catalogna, è per questo che Guardiola quando allenava il Barça chiedeva che gli acquisti fossero talmente forti da giustificare un periodo piuttosto lungo di apprendimento dei sistemi di gioco che delineavano lo stile blaugrana, altrimenti avrebbe preferito promuovere un ragazzo della squadra B. La punta dell’iceberg è quello che vediamo sul campo, il sottobosco è un legame simbiotico con quei colori vagamente simile a una fede vera e propria.

Questa introduzione dovrebbe far capire che tipo di ambiente ha lasciato Guardiola e quanto è diverso l’approccio al fútbal a Sant Joan Despì rispetto a tutti gli altri posti. Bisogna andare molto indietro nel tempo per trovare un allenatore in grado di evolversi ulteriormente dopo un periodo sulla panchina blaugrana. Si tratta di un’esperienza che per certi versi ti arricchisce ma per altri ti svuota totalmente, rendendo inconcepibile un altro modo di pensare il calcio diverso da quello che è stato impiantato lì da Johan Cruijff.

Per questo quando si affronta un tema acceso come la legacy di Pep Guardiola è importante capire che a Barcellona svolgeva un certo tipo di mestiere, a Monaco di Baviera e a Manchester ha svolto e sta svolgendo un compito diverso, non solo più impegnativo ma anche più stimolante e allo stesso tempo ancor più bisognoso di legittimarsi tramite il successo. Vincere trofei dimostrerebbe che ha ragione lui: il calcio posizionale ha ancora margini di miglioramento, il calcio in generale può svilupparsi su linee guida differenti, il ruolo dell’allenatore richiede un’intelligenza astratta che in pochi possiedono.

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Se avesse vinto la Champions…

Dopo l’anno sabbatico, passato per lo più a New York, il ritorno di Guardiola su una panchina di un top club europeo era atteso come la vigilia di Natale dagli amanti del calcio. Il suo impatto con il Bayern Monaco e con il calcio tedesco in generale è stato disruptivo per entrambe le parti. Da una parte la reattività e il pressing forsennato sul portatore, dall’altra la frequenza modulata in base alle situazioni e un pressing orientato sulle linee di passaggio e non sull’uomo.

Per un signore dalle idee forti in tutti gli ambiti della vita (dalla politica al calcio) scontrarsi con un modello diverso per di più dimostratosi vincente (l’anno prima il Bayern aveva vinto la Champions in finale contro il Borussia Dortmund), rischia di mettere in crisi l’approccio mentale che caratterizza quella persona. Stiamo parlando tuttavia di un tecnico troppo intelligente per cadere in questa trappola.

Nel brillante libro di Martì Perarnau “Herr Pep” viene dato molto risalto alla figura di Manel Estiarte. Trattasi di un ex giocatore di pallanuoto, considerato il più grande di tutti i tempi nel suo sport, il quale gestisce la parte motivazionale all’interno dello staff di Guardiola. Ebbene Estiarte ci racconta che quando è a pranzo con Pep riesce a deviare la conversazione dalla sfera calcistica per non più di 32 minuti. Dopodiché si innesca un meccanismo involontario per il quale il cervello di Guardiola deve tornare ad elaborare informazioni sui tempi delle scalate difensive, sui movimenti senza palla degli esterni, sulla gestione delle situazioni in campo aperto, eccetera eccetera.

Persino quando si diletta su un campo da golf – dopo il calcio il suo sport preferito – lo fa perché lo aiuta a focalizzarsi sull’hic et nunc, ad aumentare la sua concentrazione sul presente da traslare poi sul campo da calcio. I suoi giocatori non devono pensare mai all’azione appena occorsa, ma a quella in fase di svolgimento.

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Tra l’altro, vi piace questo De Bruyne vero? Su Espn ci si arriva addirittura a fare queste domande. Magari accorgersene un po’ prima che era un giocatore fuori scala. Tipo un anno fa.

Non immagino che santa donna possa essere la moglie perché stiamo parlando obiettivamente di un sociopatico. Nell’accezione più positiva del termine, ma pur sempre un sociopatico. È ovvio che non si sarebbe mai fatto trovare impreparato alla sfida del calcio tedesco. Ne è la riprova il fatto che sull’acquisto di Thiago Alcantara non ha accettato repliche (“Thiago oder nichts”) perché evidentemente era quello il fit che gli mancava e lo sapeva prima di aver giocato un singolo minuto in Bundesliga.

Altrettanto indicativa è la sua totale assuefazione verso un giocatore come Philipp Lahm. Il senso della posizione e il destro educato lo hanno reso uno dei migliori terzini al mondo, ma l’intelligenza calcistica lo ha portato ad essere uno dei migliori giocatori al mondo. Secondo Guardiola avrebbe potuto giocare tranquillamente in tutte e 10 le posizioni di movimento in un campo di calcio. Un giocatore totale, che con Guardiola ha cambiato la sua collocazione tattica alla soglia dei trent’anni.

Quanti allenatori riescono a convincere un giocatore laureatosi due mesi prima campione d’Europa a mettere in discussione la sua collocazione tattica? Mourinho ci riesce perché è una sorta di neuroscienziato applicato al pallone; Guardiola invece convince i suoi giocatori della bontà del suo calcio fino a renderli partecipi del progetto tattico andando addirittura oltre.

È lo stesso Lahm infatti a confessare che la débacle contro il Real Madrid in semifinale di Champions non fu il frutto di scelte sbagliate del tecnico, bensì il modesto risultato di 90 minuti di autogestione. Prima della partita Guardiola prese da parte sei giocatori esortandoli a disegnare loro lo scacchiere da proporre in campo. Si fida a tal punto dei suoi giocatori, della pregnanza che i suoi concetti hanno su di essi, da lasciare il volante prima dell’ultima curva. Non è normale, e a conti fatti non è nemmeno produttivo, ma è pura filosofia.

Una delle conferenze stampa più cariche di significato da quando è al City. Al minuto 9 c’è anche la dichiarazione d’amore verso un giocatore contraddittorio come Stones.

Cosa sarebbe successo se il Bayern avesse vinto quella partita e la finale contro l’Atlético? Probabilmente il modus operandi di Guardiola sarebbe stato esaltato in ogni dove, i giocatori avrebbero sbandierato ai quattro venti la totalità del sistema guardiolano. Se un calcio così cerebrale fosse stato non solo attuabile, ma controllabile da un gruppo di calciatori al primo anno con il nuovo allenatore, allora saremmo di fronte a uno dei più grandi maestri di sempre.

Non è stato così per fortuna, altrimenti le innovazioni sarebbero probabilmente finite lì. Se Guardiola avesse vinto la Champions al primo tentativo fuori dai confini catalani nemmeno i calciatori sarebbero stati in grado di confutare il gioco posizionale proposto dal tecnico di Santpedor. Per assurdo aver preso una sonora batosta contro il Real Madrid gli ha permesso di continuare a sviluppare l’idea dei “falsi terzini” e di continuare la sua ricerca sui metodi di pressing e recupero in zone adiacenti l’area di rigore avversaria. Se avesse vinto la Champions avrebbe legittimato a pieno il suo calcio, ma forse non avrebbe continuato ad evolverlo.

La sfida più dura

Le tre stagioni alla guida del Bayern si sono concluse in modo normale. Ha ottenuto la miglior media punti nella storia della Bundesliga vincendo 82 partite su 102 giocate, ha portato a casa tre Meisterschale consecutivi corredati da un Mondiale per Club, una Supercoppa europea, due Dfb Pokal e tre eliminazioni in semifinale di Champions. Normale, insomma.

Quest’ultimo risultato è quello più faticoso da esorcizzare per Guardiola, al quale sicuramente non basta l’efficace sintesi di Rummenigge su quello che era il Bayern Monaco prima e su quello che sarà dopo il passaggio di Pep.

Un coach totalmente estraneo al mondo del calcio come Dan Peterson sostiene che una squadra risenta maggiormente dell’influsso dell’allenatore quando questo lascia l’ovile. Per questo guarda sempre i suoi ex giocatori: per vedere se i suoi metodi hanno permesso una crescita della squadra anche tempo dopo il suo addio.

Possiamo esser certi che i migliori risultati di Guardiola alle dipendenze del Bayern sono apprezzabili sul terreno di gioco e non sulla bacheca della società. È indubbio che in quegli anni Neuer sia diventato l’archetipo del portiere-libero (o sweeper keeper, se peferite) in grado di dettare i tempi della prima costruzione senza abbassare il tasso tecnico della manovra, così come un grezzo Jerome Boateng ha perfezionato la sua tecnica di calcio diventando uno dei migliori difensori al mondo nel trattamento del pallone. Impossibile dimenticare l’evoluzione dei terzini con Alaba, che dopo i tre anni con Guardiola riesce a svolgere i compiti del terzino classico aggiungendo una tendenza ad associarsi dentro il campo e all’occorrenza in grado anche di svolgere compiti di regia, le stesse skills che caratterizzano Kimmich, levigato sapientemente da Guardiola e in grado di fare le fortune di qualsiasi allenatore per la sua capacità di interpretare più posizioni in campo in più momenti della partita, senza che nessuno se ne accorga.

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Per dire: adesso Kimmich vede e disegna come un regista di alto livello.

Quando il principe Mansur bin Zayd Al Nahyan rileva la proprietà del Manchester City e opta per l’ambizioso progetto del City Football Group, capisce in poco tempo che la filosofia del club manca di una mission chiara in grado di associare il marchio ad un’idea di calcio rivoluzionaria e duratura nel tempo.

Per ovviare a questo problema servivano uomini imbevuti di cultura calcistica, manager competenti ma allo stesso tempo seguaci di un’idea che ha nel calcio il suo prodotto più riconoscibile, ma che avvolge tutto ciò che tocca. Non potevano che essere Txiki Beguiristan e Ferran Soriano, gli architetti del sistema Barcellona, a progettare la nuova creatura, e se costruisci un aereo unico nel suo genere è normale che per pilotarlo serva un uomo che condivida quella visione.

Se in Germania la sfida era ardua, in Inghilterra il discorso si fa ancora più ostico. In un paese refrattario al cambiamento, geloso della sua nobiltà, assuefatto da un’idolatria per il duello rusticano 1vs1 e molto poco interessato alle geometrie estetiche di Gaudí, Guardiola è chiamato ad importare un modello che necessita di risultati poiché senza di quelli con gli anglosassoni fatichi a ragionare (chi ha detto Brexit?).

Basta prendere la scorsa stagione e confrontare quanto margine ci sia tra le prestazioni espresse dal Manchester City e i risultati ottenuti.

Sarà pur vero che gli Expected Goals restituiscono soltanto una parte della verità, non potendo calcolare tutte le variabili endogene e esogene che interferiscono in un’occasione da gol, però dai.

Come può quella tabella non essere la prova che il sistema di Guardiola è testa e spalle il più seducente nel panorama internazionale? Qualcuno, tipo Mourinho, potrebbe obiettare che lo scopo ultimo del gioco è vincere trofei e non ammaliare l’audience. In realtà lo sport, visto come arte o come mera esaltazione della superiorità di un atleta su un altro, assume una valenza estetica nel momento in cui milioni di persone decidono di fissare uno schermo o pagare per vedere l’evento dal vivo.

Nessuno ricorderà quante medaglie ha vinto Usain Bolt nella sua carriera, ma tanti ragazzini non solo in Giamaica continueranno ad imitare il gesto più rappresentativo del più forte sprinter di sempre. Allo stesso modo l’identità tattica dell’Ajax di Michels, del Milan di Sacchi, del Barcellona di Cruijff e poi di Guardiola rimarrà intangibile negli occhi di chi ha goduto di tanta bellezza, senza che il numero di trofei vinti possa in qualche modo intaccare o modificare tale ricordo.

Inoltre questi allenatori definiti “romantici”, visionari, idealisti, sono in realtà quelli più morbosamente attratti dalla cura maniacale dei particolari attinenti al campo e alla vita dei calciatori.

La tesi con la quale Sarri ha conseguito il patentino da allenatore prevedeva un giorno di riposo per tutti tranne che per il coach, l’episodio di Sampaoli abbarbicato su un albero per seguire i suoi ragazzi è abbastanza noto, così come la storia che Bielsa, pur di assicurarsi le prestazioni di un giovane Pochettino, ha svegliato l’intera famiglia del ragazzo nel cuore della notte.

Con Guardiola, invece, diventa fondamentale la concentrazione in qualsiasi cosa anche soltanto vagamente attinente al calcio. Quando i giocatori del City sono dal fisioterapista non possono utilizzare il telefono, con Pep viaggiano sempre un dietologo e un nutrizionista, la sua comunicazione è studiata al fine di far arrivare il messaggio semplice e chiaro ai giocatori, delle sovrastrutture fa volentieri a meno (c’è Estiarte per quello). Vincere le partite rimane l’obiettivo di qualsiasi allenatore o giocatore, ma non può e non deve essere l’unica cosa che conta. Con una sola eccezione: questa.

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Per sua stessa ammissione Guardiola non allenerà fino a sessant’anni, ma allo stesso tempo ha garantito che l’impegno con il Manchester City sarà a lungo termine. È ancora presto ma non è peregrina una struttura societaria con Soriano CEO e Guardiola a fare una sorta di General Manager all’americana.

In fondo la mission del City Football Group è quella di creare una sorta di multinazionale del calcio che condivida gli stessi valori dentro e fuori dal campo. Chi meglio di Pep per instillare una filosofia vincente in un conglomerato calcistico? Servirebbe un nome a questa visione ma a pensarci bene c’è già: senso comune. Quello del Més que un club, quello che ha portato il Barça a diventare il marchio per eccellenza del mondo calcistico insieme a Manchester United e Real Madrid.

Cosa accomuna queste tre squadre? Facile, il palmarès. Ecco perché diventa così importante vincere per il Manchester City ed è ancora più importante il modo con cui si giunge a tali risultati. Ormai il brand è stato esportato, ma insieme ad esso deve viaggiare un’identità che rimandi direttamente al marchio. La gente deve riconoscere il Manchester City non dalle divise ma dal modo con cui si esprime in campo. Seriamente: esiste una persona migliore al mondo per realizzare questa ambiziosa visione?

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Ah, ecco.