Marco Delvecchio, il rumore del gol - Zona Cesarini

Marco Delvecchio, il rumore del gol

Marco Delvecchio di mestiere fa l’attaccante, indossa la maglia giallorossa da quattro stagioni e il suo obiettivo quando calpesta il prato dell’Olimpico è fare gol. Il 13 marzo 1999, quando al decimo minuto della sfida con il Bologna colpisce il pallone di testa e lo spedisce alle spalle del portiere avversario Antonioli, vuole sentire il rumore che ama. Non quello della palla che tocca la rete, ma quello dei tifosi che esultano, che impazziscono di gioia. Delvecchio è nato a Milano, eppure dal primo giorno nella città eterna si è sentito parte di quel popolo, folle e allegro come lui. Per questo non sopporta i fischi, la contestazione che gli piove addosso ad ogni errore solo perché non è il centravanti dei sogni, quello che la piazza invocava: Gabriel Omar Batistuta. Per questo decide di portarsi le mani alle orecchie come a dire: fatemelo sentire il rumore del gol, o magari volete contestarmi anche adesso. Il raddoppio è ancora suo, ancora di testa, stavolta sul cross di chi ha seduto per anni sulla panchina della Roma, Eusebio Di Francesco. La festa è completa, Marco si porta di nuovo le mani vicino alle orecchie. I fischi si sono trasformati in applausi.

Dopo la partita i tifosi pretendono un confronto con il centravanti, gli chiedono di non festeggiare più con quel gesto che loro considerano di sfida. Delvecchio chiede di non essere attaccato prima della partita, a priori: non è colpa sua se Sensi non li ha accontentati comprando l’argentino della Fiorentina. L’esultanza rimarrà invariata anche dopo il chiarimento, ma sarà sintomo del desiderio di ascoltare il calore dei tifosi e nient’altro. Dopo la doppietta al Bologna arrivano il gol alla Juventus e quello all’Atlético in Coppa Uefa, senza celebrazioni strane e con il boato del pubblico che non lo delude. Il giorno del derby, quindi, il ragazzone con i capelli lunghi arriva carico. Ha già segnato all’andata, nel pirotecnico 3-3 che lo aveva visto protagonista anche per l’assist a Totti per la rete del pari e per il gol annullato ingiustamente nel finale. Il 4-3 sarebbe stato l’apoteosi, con la squadra rimasta in inferiorità numerica per l’espulsione di Petruzzi, ma non è arrivato.

Nel match del ritorno, però, non c’è storia, dopo una serie di risultati deludenti nella stracittadina il pareggio in rimonta di qualche mese prima ha dato la carica giusta alla squadra di Zeman. Il primo gol di Delvecchio è un capolavoro: velocità e potenza insieme. La finta che disorienta Mihajlović è la preferita di Marco: il ‘gancio’, che secondo l’attaccante “è la finta più facile e ti può riuscire sempre, se il difensore non abbocca al movimento tiri, se va in scivolata sposti la palla e lo superi. Bisogna soltanto essere bravi a capire il momento”.

E il momento è quello giusto, la palla si infila sotto la traversa “una saracca, forse il tiro più forte della mia carriera, Marchegiani non ha potuto farci niente”. Il suo sinistro ha appena fatto impazzire lo stadio, la Roma giallorossa è ai suoi piedi e non lo metterà più in discussione. La rete del raddoppio è ancora sua, assist di Totti e tap-in vincente. La partita verrà ricordata forse più per la maglietta celebrativa di Francesco per il terzo gol, con la scritta “Vi ho purgato ancora”, ma il protagonista per una volta non fu il numero 10.

Dopo un derby così, “quello a cui sono più affezionato”, dirà poi Delvecchio, per la Lazio si aprì la crisi che portò poi allo scudetto del Milan di Zaccheroni. Il conto delle reti di Marco in quella stagione si fermerà a quota 18, solo tre in meno del tanto invocato Batistuta. In estate l’argentino non si muoverà da Firenze, mentre al posto di Zeman arriverà un nuovo allenatore: Fabio Capello.

Cambiare per vincere

La prima estate con Capello è complicata, il Chelsea vuole Delvecchio, che si prepara ad andarsene. Sensi ha già l’accordo con i Blues ma il nuovo allenatore sa cosa vuole, non ne vuole sapere di rinunciare alle sue qualità uniche in rosa e lo convince a restare. Il nervosismo estivo di Marco è comprensibile: quando era all’Inter, pronto a diventare un giocatore importante nello scacchiere nerazzurro, Moratti gli aveva garantito la sua incedibilità, per poi scambiarlo con il giallorosso Branca. Da quel giorno Delvecchio ha capito che il calcio è un business e tutto può succedere. Sostenuto dalla determinazione di Capello, sceglie di restare a Roma, città che ama e dove si sente libero di esprimere il carattere estroverso, da “romano nato a Milano”, come si è sempre definito. Già nella seconda metà della stagione 1999/00, quella dello scudetto della Lazio di Cragnotti, l’allenatore goriziano decide di spostare Delvecchio sulla fascia, per sfruttarne le doti di gamba, corsa e le brucianti accelerazioni. Una formula vincente, confermata l’estate seguente.

I tifosi sono entusiasti, finalmente è arrivato il centravanti che serve per puntare ai primi posti: Batistuta. Delvecchio non prende male l’arrivo del fuoriclasse argentino il cui mancato acquisto gli aveva complicato la vita poco tempo prima. Capisce che con lui si può vincere davvero, e così sarà. Il caso-Delvecchio ricorda quello che ha fatto Mourinho nell’Inter del Triplete: spostare Samuel Eto’o sulla fascia per sfruttare le sue grandi doti di corsa e applicazione per permettere così alla squadra di avere in campo Sneijder, Milito e il camerunense, senza sbilanciarsi in avanti. A dire la verità Capello inizialmente punterà sul tridente Totti-Montella-Batistuta, per poi ritornare sui suoi passi e utilizzare Delvecchio a tutta fascia e Montella come preziosissimo jolly dalla panchina. La visione si dimostra esatta, la Roma vince il terzo scudetto della sua storia, anche grazie al suo centrocampista-punta.

“Eravamo una squadra unita in campo, ma non è vero che non si può vincere con un gruppo che va d’accordo solo sul prato verde. Fuori dal campo non ci frequentavamo per niente. C’erano quattro gruppi, due composti da italiani, quello degli argentini e quello dei brasiliani. Ancora oggi, però, mi sento con i compagni a cui sono più legato”.

L’annata successiva in campionato la Roma arriva soltanto seconda. Delvecchio non se lo spiega: “Sicuramente si poteva vincere di più, avevamo i giocatori per farlo… abbiamo perso in casa con il Milan, poi sbagliato partite all’apparenza semplici contro Ancona e Venezia che ci sono costate il secondo scudetto. Forse ci siamo rilassati, forse a Roma non c’è la cultura giusta, che ti aiuta a vincere vari campionati di fila”. Il mancato arrivo del secondo titolo non è l’unico rimpianto di quel periodo. Prima del campionato vinto in giallorosso, infatti, c’è stato Euro 2000, perso al golden gol con la Francia nonostante la rete di Marco che aveva portato in vantaggio gli azzurri. Una delusione cocente, “il momento più brutto della mia carriera, secondo soltanto all’ultima partita con la maglia della Roma”. Una vittoria sfuggita tra le dita che ha un’unica spiegazione: “Abbiamo pagato la fortuna nella semifinale con l’Olanda, dove loro hanno sbagliato l’inverosimile. In finale sapevamo che dopo il pareggio di Wiltord arrivato in quel modo, all’ultimo secondo, non sarebbe stato possibile vincere”.

L’uomo dei derby

Dal 2002 al 2009 Delvecchio è stato il recordman di segnature nei derby della Capitale insieme a Dino da Costa, con 9 reti, ma come ricorda lui “sarebbero 10 se non mi avessero annullato il gol regolare dell’andata nel ’98-‘99”. Il gol con l’esultanza più pazza è sicuramente quello del 21 novembre 1999. È il primo derby dopo il 3-1 del “Vi ho purgato ancora”, e Marco recita il ruolo di protagonista ancora una volta, con un’altra doppietta.

Al 7° è già gol: Cristiano Zanetti lo lancia alla perfezione, mentre lui è appostato nell’half-space tra centrale e terzino e non aspetta altro. Corsa verso il portiere, sinistro e palla in rete. Per esultare si sdraia sui cartelloni pubblicitari, in posa per farsi ammirare, scherzoso ed esuberante come al solito, senza accorgersi che sta esultando di fronte ai tifosi avversari. Quello che rende ancora più indimenticabile il momento è un ultras laziale a pochi metri, che affannosamente cerca qualcosa per terra da lanciargli addosso. Il primo tempo finisce 4-0, anche il secondo gol di Marco viene festeggiato con un pizzico di follia: fa uno strano girotondo sul posto prima di cadere a terra, sopraffatto dalla gioia.

La grandezza di Capello, secondo l’attaccante giallorosso, sta tutta in quello che disse ai giocatori al termine del primo tempo di quella partita dominata in lungo e in largo, che finì 4-1. “Nello spogliatoio esultavamo come matti e lui ci disse: ‘No ragazzi, anche se siamo sopra di 4 la partita finisce solo al novantesimo’. Questa frase a parer mio esprime tutta la grinta e la bravura di Capello”. Anche nella stagione dello scudetto non mancherà il timbro di Delvecchio, nel derby di ritorno pareggiato 2-2 con i biancocelesti. “Il gol più difficile, una palla bella che io ho fatto diventare bellissima”.

Succede tutto nel secondo tempo, dopo il pregevole cross mancino dalla fascia che ha messo in condizione Batistuta di portare la Roma in vantaggio e azionare il mitra nell’esultanza, arriva il raddoppio firmato da Marco: cross di Zanetti, palla colpita di mezza punta in scivolata, senza far rimbalzare il pallone. L’ennesima prodezza mancina che manda in delirio la sua Roma. Nedved e Castroman nel recupero faranno sfumare quella gioia, ma il gol rimarrà comunque impresso nella memoria di tutti.

Quanto è difficile segnare così?

Nella stagione seguente, il 27 ottobre 2001, ecco un’altra perla della collezione Delvecchio. La partita non si sblocca e decide di intervenire lui. Lancia Emerson, Marco scatta come sempre alle spalle dei difensori per attaccare la profondità; stop di petto a seguire e corsa forsennata per tagliare la strada a Nesta, poi un ‘gancio’ anticipato con la parte inferiore della tibia, quando la palla, dopo il rimbalzo, è ancora sospesa a mezz’aria. Nesta si pianta, si aggrappa alla maglia dell’avversario ma molla la presa, cade a terra e non può fare altro che guardarlo dalla polvere: novello Ettore mentre Achille vola a prendersi la gloria.

Come racconta, più ironicamente, Marco a Roma TV durante uno speciale a lui dedicato: “Mi sono detto: Sandrino ma che fai? Sono andato a Roma e non posso vedere il Papa?”. Delvecchio vuole vederlo e prosegue nella sua azione, scavalca Nesta che lo guarda impotente con dipinta in volto un’espressione disperata (questa) rimasta nell’immaginario dei romanisti molto a lungo. Incredibilmente anche Peruzzi scivola in uscita e il giallorosso lo supera con il destro. Orecchie, Totti gli salta sulle spalle, solito delirio.

 

Non si parla mai abbastanza dell’importanza del controllo orientato in certe situazioni. Splendido quello in corsa di Delvecchio.

Segnerà un altro gol nella stracittadina, nel pareggio del 27 ottobre 2002. Con il passare del tempo, trova sempre meno spazio in campo, fino alla decisione di dire addio alla maglia che ha amato di più. Dopo 300 gare e 83 reti, nel gennaio del 2005, a 31 anni, passa al Brescia. Dopo la parentesi senza gol con i lombardi, in Serie A indosserà le maglie di Parma e Ascoli segnando complessivamente soltanto tre gol. Uno di questi, per un curioso scherzo del destino, proprio contro la Roma. Delvecchio entra all’Olimpico con la maglia dell’Ascoli. Non lo sa ancora, ma sarà la sua ultima stagione in Serie A, che dovrà abbandonare a causa di un infortunio al ginocchio. Il primo gol del match è uno dei suoi classici colpi di testa: la frustata giusta con i tempi giusti, il pallone in fondo al sacco. La reazione istintiva di ogni attaccante dopo il gol è festeggiare, lui infatti corre via. Poi, però, si ferma. È sotto la Curva Sud, realizza di aver segnato “contro la squadra sbagliata”. Il gesto di stizza contro se stesso, le scuse plateali che l’abbraccio dei compagni intorno a lui non riesce a nascondere. Delvecchio non ce la fa proprio a gioire, da vero romanista.

Un viaggio giallorosso

Delvecchio ha vissuto diverse fasi importanti della storia giallorossa. Quando è arrivato, nel 1995, il capitano era il Principe Giannini, che lo aiutò ad ambientarsi nei primi tempi: “Era una grande persona e un ottimo compagno di squadra. Nello spogliatoio mi trovai bene, era divertente e pieno di romani, esuberanti proprio come me”. Delvecchio giocò la prima stagione ancora in prestito dall’Inter, al suo arrivo i titolari erano Balbo e Fonseca e Mazzone non gli aveva dato grandi speranze per quanto riguardava il minutaggio. Al suo arrivo a Trigoria iniziava a scalpitare un giovanissimo Totti, ma Delvecchio era già passato dall’Inter e non ebbe nessun problema ad affrontare la concorrenza e a diventare presto un giocatore importante della rosa giallorossa. Il primo gol lo segna al Napoli, e sempre contro i partenopei arriverà la sua prima tripletta, nell’aprile 1996. Tre gol da stropicciarsi gli occhi.

Spizzata di testa in anticipo sui difensori, solita ‘signature-move’ attaccando la profondità, e pallonetto in scivolata a bruciare difensori e uscita del portiere. Un repertorio completo.

Delvecchio ha fatto la storia della Roma, ma oggi il record a cui era più legato non gli appartiene più. Il suo primato di gol nel derby è stato superato da Totti nel 2015, in una partita indimenticabile: la Lazio passa in vantaggio con Mauri e raddoppia con Felipe Anderson, poi ci pensa il Capitano con una doppietta a pareggiare i conti (bellissimo il secondo gol in sforbiciata). Sono i gol numero 10 e 11 per il Pupone, Marco non è andato oltre i 9 ma non se ne rammarica troppo: “Se qualcuno mi doveva superare, sono contento sia stato lui che è il simbolo della Roma”. E aggiunge poi con un sorriso: “Certo, la media gol più alta rimane sempre la mia”.