Convertitevi al culto di Andrés Guardado - Zona Cesarini

Convertitevi al culto di Andrés Guardado

Nel paese che ha istituzionalizzato la rivoluzione portandola in parlamento, c’è anche spazio per ogni forma di culto: dal cattolicesimo di matrice spagnola a nuove e discutibili forme come la Santa Muerte, caso raro di un culto di derivazione azteca, sopito per centinaia di anni ma mai davvero scomparso, e riaffiorato come un fiume carsico negli ultimi anni, con risvolti inediti, discussi e violenti, generando milioni di adepti. Il Messico, insomma, resta una di quelle terre caotiche e disomogenee ad occhi esterni. Ma nel paese dei culti manca ancora una forma di venerazione pagana che, al contrario, dovrebbe essere riconosciuta, un po’ come avviene in argentina per la Iglesia maradoniana: è il culto di Andrés Guardado.

Perfino i cugini Salamanca, in quella famosa serie tv cult che è cosa buona e giusta vedere, si convertono al culto di Andrés Guardado.

Una delle maggiori issue del nostro tempo è lo scarto tra realtà percepita e realtà effettiva. Un concetto ampio, che oggi assume contorni tendenti ad infinito: dalla politica all’immigrazione fino alle statistiche sui fenomeni più marginali, quel grande spazio vuoto e immaginario che viene riempito con ragionamenti intuitivi e semplificati – o meglio, scorciatoie – è uno dei grandi interrogativi contemporanei. Lo stesso concetto si potrebbe applicare ad un calciatore come Andrés Guardado: per la grande maggioranza dell’opinione pubblica calcistica un giocatore di medio/basso appeal, destinato a palcoscenici di secondo piano, un elemento silenzioso che agisce nell’ombra; ma se spostiamo lo sguardo dall’altra parte dell’Atlantico la figura di Guardado assume le fattezze di una semi-divinità Maya, così come potevano esserlo i re dell’antico impero.

Nello scarto tra questi due mondi apparentemente inconciliabili, si muove con eleganza il centrocampista messicano, arrivato alla decima stagione europea: forse, la prima con i riflettori puntati addosso. Alla soglia dei 31 anni, infatti, Guardado sta affermandosi seguendo il copione che ha sempre recitato, come un profeta ramingo che non viene preso sul serio. Dopo una fase stagnante di carriera, dove ha mancato il salto che avrebbe potuto consacrarlo come giocatore di livello internazionale, oggi el Principito sta abbracciando una fase di maturità che lascia pochi dubbi sulle sue qualità calcistiche.

Dopo tre stagioni di esilio in Olanda, con la maglia del PSV, Guardado è rientrato nel giro dei campionati di vertice europei firmando un triennale con il Betis Siviglia. Ricostruito sulle fondamenta di un progetto ambizioso e futuribile, grazie alla mossa del neo-ds Alexis Trujillo che, dopo la complicata stagione del ritorno in Liga e un oltremodo deludente 15° posto, ha deciso di ripartire con un programma inedito affidando la squadra a un allenatore dai princìpi moderni come Quique Setién. L’ex Maiorca è il dominus della rifondazione e del ritorno del Balompié su palcoscenici in odore di Europa: l’allenatore cantabrico ha da subito preso il controllo del mercato, puntando su giocatori che potessero garantirgli lo sviluppo delle sue personali idee derivate dal juego de posicion.

Nel contesto verdiblanco, a fronte dell’acquisto di Tello e della conferma del mito andaluso Joaquin (lacrimuccia da tifoso viola), c’era bisogno di un uomo di innesco, un creativo che potesse calamitare e al tempo stesso facilitare lo sviluppo del gioco: un braccio esecutore che lavorasse per ampliare le possibilità dei compagni in fase di possesso. Uno di quei centrocampisti capaci di orientare il gioco e i movimenti degli altri interpreti attorno a sé, assecondando le sue letture e i suoi tempi: come se fosse una forma d’intelligenza superiore. A questo punto, inutile sottolineare che Setién digita il numero olandese di Guardado. Una scelta lungimirante.

Conduzione palla in campo aperto dopo aver vinto un contrasto, poi apre il compasso, calcola i giri col goniometro e mette in porta Joaquín 💖 con un assist che è una sinfonia pastorale.

Guardado non è un comune regista inteso nell’accezione archetipica del ruolo, ma è un elemento ibrido che fa della qualità in impostazione e del controllo emozionale e tecnico del gioco la sua cifra stilistica, non rinunciando, però, ad una componente di intensità a discapito di una fisicità limitata. È, insomma, il decision-maker del collettivo andaluso. Capace di ripulire palloni sporchi, di regalare respiro in situazioni di apnea dettate dalla pressione avversaria, di aprire corridoi in fasi di congestione degli spazi e delle linee di passaggio. Tradotto in statistiche: 1 gol e 6 assist; 2 key passes, 1,7 cross, 4,4 lanci a partita con un 86,1% di pass accuracy.

Squarciare un quadro statico, allargare il ventaglio delle possibilità con pochi e apparentemente semplici tocchi mancini, regalare verticalità a una creatura tattica che vive di attacco degli spazi e risalite rapide di campo; farlo con un solo piede e attraverso un controllo orientato che punta a generare un tangibile vantaggio per il collettivo, rendendo dinamico l’inizio azione e facendo collassare il pressing organizzato della squadra avversaria. Attraverso il suo calcio cerebrale, Guardado è diventato di fatto il centro gravitazionale del nuovo Betis di Setién. Alla terza opportunità in carriera e superati i 30 anni, il messicano non ha mai avuto questa continuità di rendimento e questi numeri in un campionato di primo livello come la Liga.

Tra le varie statistiche spicca il secondo posto assoluto nella classifica degli assist, ben 6, e il primo nella riuscita dei cross in area, dato influenzato dalla propensione a calciare da fermo.

Quello che in Messico non esitano a chiamare Maestro è un giocatore nel pieno della maturità, sbocciato grazie alla collocazione all’interno di un sistema fondato su una precisa identità tattica e su un collettivo che, per caratteristiche tecniche, ne esalta la nobile qualità tecnica di base.

Spesso sottovalutato e addirittura finito al centro del mirino della critica per un controverso episodio con la sua nazionale – tirò e segnò il rigore decisivo dell’1-1 contro Panama in Gold Cup 2015, nonostante fosse incredibilmente evidente l’inesistenza del fallo fischiato, con epocale rissa a seguito, e poi bissò nei supplementari con un altro penalty dubbio, che fece definitivamente fuori Panama, dove, per inciso, Guardado è tuttora conosciuto con il piacevole appellativo de El hombre del robo del siglo; oggi, però, quelle tensioni, quei rallentamenti che costellano il suo percorso calcistico come pietre miliari incastonate ad ogni svolta decisiva, sembrano finalmente lasciare il campo alla purezza del suo gioco.

Forse sarà il clima secco dell’Andalucia così simile a quello di Guadalajara, o le strade di Siviglia, costellate di orpelli e decorazioni barocche a fianco di elementi moreschi che richiamano uno stile complesso e una contaminazione culturale e sociale che ha pochi eguali nel mondo; qualunque sia il motivo, Guardado pare aver trovato un equilibrio, un’appartenenza a tutto tondo, anche al di fuori di quel Messico che lo ha sempre considerato alla stregua di un piccolo profeta da venerare.

Nell’ultimo turno di Liga ha deciso di rispolverare un suo vecchio colpo: la pennellata morbida da fermo, con un solo passo di rincorsa, sotto il sette. L’equivalente calcistico di un tartufo bianco affogato al caffè.

Eppure in questo cammino sincopato, fatto di pause e rinascite, la cosa che non è mai venuta meno è stata il suo rendimento complessivo e la capacità di ergersi a leader di un team. Sia con la propria nazionale che con squadre giovani ma ambiziose come il PSV di Cocu, Guardado è stato una costante: l’elemento che riusciva a regalare sicurezze, tecniche e mentali, ai compagni. Con quell’espressione sospesa a metà fra sofferenza e concentrazione, ha sempre indirizzato il contesto agonistico assecondando il suo stile di gioco, e riuscendo a migliorare un bagaglio tecnico già ampio negli anni: al calare della frequenza e dell’intensità di corsa Guardado ha esponenzialmente affinato il suo senso del gioco e delle letture nelle quattro fasi.

Ha sempre agito da leader, lasciando, però, la copertina ai compagni più giovani o appariscenti. Come un vecchio maestro che concepisce il gioco come un insieme di dettami da insegnare per facilitare la crescita dei propri allievi, senza chiedere altro in cambio. C’è perfino qualcosa di costruttivista nel suo approccio al gioco: la vocazione ad agire per un fine comune più elevato.

Il tutto con un sinistro che “pò esse fero e pò esse piuma”, citando un super-cult di Mario Brega.

Per districarsi nelle complessità del calcio contemporaneo se è fondamentale sapere come si gioca, ancor più importante è essere consapevoli di ciò che si fa. E Andrés Guardado, come uno di quei supereroi dal cammino tormentato, ha imparato nel tempo ad acquisire un livello di consapevolezza tecnica necessario a fare la differenza in un contesto come quello andaluso.

Passando dal periodo olandese, dove ha sperimentato con successo anche la posizione di esterno sinistro basso, e assorbendo come una spugna concetti tattici e princìpi di gioco inediti, Guardado ha ampliato il suo stile di gioco, distillando con sapienza tocchi raffinati e dominando lo spazio intorno a sé attraverso un innato quinto senso e mezzo. In Andalusia, un giocatore così centrale nello sviluppo del gioco, ricercato nelle intuizioni e incredibilmente limitato all’utilizzo di un solo piede, non poteva che fare breccia nell’immaginario collettivo ed essere accolto con titoli piuttosto eloquenti come questo.

Come mandare in porta Joaquin da centrocampo senza toccare il pallone ed evitando il pressing individuale avversario. Ovvero: “Guardado viene para enamorar”.

Fluidità di gioco, visione panoramica del campo, capacità extrasensoriali nei passaggi taglia-linee, leadership naturale; Guardado, nella sua modernità di interprete versatile e adattabile a più moduli e concetti, rimane però un giocatore dal gusto classico. Come uno di quegli esponenti minori delle grandi scuole passate: un Andrea del Sarto capace di dipingere uno dei più bei quadri del Cinquecento italiano, eppure costantemente sottostimato, giudicato alla stregua di un ottimo mestierante destinato a una ristretta nicchia di appassionati e studiosi.

Forse è già troppo tardi e tutto questo non sarà sufficiente a rendergli pieno merito, ma ogni volta che il suo sinistro si accende e tratteggia passaggi impensabili per il 95% dei giocatori, fate un pensiero sulla conversione al credo di uno dei pochi giocatori di culto del calcio contemporaneo.