Pepito, a modo suo - Zona Cesarini

Pepito, a modo suo

È l’84’ di un Parma-Torino da sbadigli e battiti di denti, complici le poche emozioni in campo e il tipico freddo umido della pianura padana, quello che poco alla volta ti entra nelle ossa e ti gela le dita e che fa chiedere tra sé e sé cosa ci abbia fatto preferire il gelido seggiolino in plastica alla comodità del divano in salotto, ignari che la risposta possa arrivare entro una manciata di secondi.

Il traversone che Castellini fa partire dalla trequarti è uno di quelli senza pretese, rappresentazione esatta di un Parma stanco di attaccare senza mai trovare la via del gol. In mezzo all’area, però, c’è un ragazzino che ha fame e che vuole mettersi in mostra, pronto a trasformare un cross all’apparenza inutile in tre punti che alla fine della stagione saranno determinanti per un’insperata salvezza.

Il traversone scavalca la difesa granata e giunge fortunosamente tra i piedi del numero 8, il quale mette a terra il pallone con la suola, di controbalzo, apparecchiando la tavola per il suo mancino. Dopodiché lo controlla una seconda volta per mettere fuori tempo i difensori che accorciano su di lui, saltati come birilli da un terzo tocco, improvviso, sempre con il mancino. Giunto al limite dell’area piccola, a tu per tu con Taibi, il piccoletto con la maglia blu fa partire un missile potentissimo che piega le mani al portiere del Toro e finisce in rete, dopo aver sfiorato la traversa.

“Piacere, Giuseppe Rossi, but everybody calls me Pepito”.

Il Tardini si risveglia dal letargo nel quale era piombato ed esplode di gioia, grazie alla prodezza di quel diciannovenne appena tornato a casa da Manchester, che corre sotto la curva e si lascia andare in un’esultanza tanto spontanea quanto esteticamente rivedibile, agitando le braccia e saltando all’impazzata, quasi come se volesse spiccare il volo. Il 21 gennaio 2007 è il giorno in cui i gialloblu iniziano a credere in un sogno chiamato salvezza, ma soprattutto è il giorno in cui il mondo del calcio italiano si accorge per la prima volta di un giocatore dal talento cristallino, con un mancino magico e un futuro splendente: Giuseppe Rossi.

Chi è Pepito Rossi?

In soli tre secondi è racchiuso quasi tutto Pepito: potenza, esplosività, reattività; una rapidità – sia di gamba che di pensiero – impressionante, un mancino favoloso e la geniale capacità di inventare gol da situazioni apparentemente innocue. Ma questo non è che un semplice assaggio, tre secondi di antipasto: Giuseppe Rossi è molto altro.

È una seconda punta che agisce qualche metro oltre la linea di trequarti, che orbita attorno ad una prima punta fisicamente strutturata e che oscilla da destra a sinistra su tutto il fronte offensivo, senza mai dare punti di riferimento alla linea difensiva. Spesso si abbassa fino alla linea di metà campo per ricevere il pallone tra i piedi, in modo da creare superiorità numerica in fase offensiva alla quale lui stesso dà il via, mentre in altre occasioni detta il passaggio in profondità, scattando sul filo del fuorigioco alle spalle della linea difensiva. La rapidità palla al piede lo fa volare verso l’area avversaria e la freddezza sotto porta fa il resto: a tu per tu col portiere raramente sbaglia.

A partire da quella prodezza contro il Torino, inoltre, in breve tempo il pubblico inizia ad apprezzare anche la persona nascosta dietro al calciatore: una persona semplice, genuina e timida, come dimostrano sia l’imbarazzo che Pepito non riesce a nascondere ai microfoni ed alle telecamere durante le interviste che quell’italiano stentato ed arrugginito frutto di un’infanzia trascorsa in New Jersey, a due passi dalla Grande Mela.

Nessun tatuaggio, nessun taglio di capelli azzardato e nessuna dichiarazione fuori posto. Insomma, a vederlo sembra tutto fuorché un calciatore, o meglio, non si avvicina minimamente all’identikit stereotipato del calciatore che il calcio stesso ha plasmato negli anni. Ed è proprio quest’immagine che Rossi dà di sé che fa innamorare gli italiani: un giovane ragazzo umile e con i piedi per terra, che preferisce far parlare il suo mancino anziché le prime pagine delle riviste di gossip.

Nei soli cinque mesi trascorsi a Parma, l’italoamericano sigla 9 reti in 19 partite e, gol a parte, non è difficile intuire che la parabola di questa giovane promessa sia destinata a puntare sempre più in alto, verso un futuro ricco di soddisfazioni. Ma dopo un avvio di carriera più che promettente, qualcosa ha iniziato ad andare storto: il fisico di Pepito ha iniziato a mostrare i primi cigolii e da quel 26 ottobre 2011 – giorno in cui il suo ginocchio destro fa crack per la prima volta – ha inizio un vero e proprio calvario che, a distanza di oltre sei anni, non sembra ancora avere fine.

La parabola che puntava decisa verso l’alto ha bruscamente cambiato direzione, assestandolo nella categoria degli eterni incompiuti, in compagnia dei vari Rosicky, Redondo, Pato e Hleb, solo per citarne alcuni.

È obiettivamente impossibile affrontare l’argomento “Giuseppe Rossi” senza parlare dei suoi guai fisici, in quanto ne hanno determinato in maniera più che considerevole l’intera carriera. Allo stesso tempo, però, soffermarsi eccessivamente su di un Pepito perennemente infortunato sarebbe estremamente riduttivo ed oltremodo ingiusto nei confronti di un calciatore che nei periodi di brillante forma fisica – e mentale – ha saputo regalare giocate di rara bellezza e prestazioni da predestinato, come quella di quel freddo pomeriggio di gennaio o come quella firmata nell’ottobre del 2010, quando indossava la maglia del Villarreal.

Una perla amarilla…

Durante quella che, numeri alla mano, è stata la miglior stagione di tutta la sua carriera – 32 reti segnate e, guarda caso, zero infortuni – Rossi regala un altro gioiello ad una platea di estimatori che nel frattempo si è ampliata a dismisura, ammaliati dalla gentilezza con la quale il suo mancino accarezza morbidamente il pallone ad ogni tocco.

Al 52’ del match contro l’Atlético Madrid, dopo un uno-due con Santi Cazorla, Cani si invola verso l’area dei Colchoneros e premia il taglio di Rossi, che aggira la difesa da destra verso sinistra. Col controllo orientato Pepito punta la linea di fondo campo, proteggendo il pallone con il corpo, mentre col secondo tocco lo blocca improvvisamente con l’esterno del piede, mettendo a sedere un difensore.

Superato il primo avversario, il #22 converge verso il centro dell’area saltandone un secondo e dopo aver rapidamente toccato il pallone un altro paio di volte col mancino, sorprende tutti, estraendo dal cilindro un destro strozzato che coglie alla sprovvista la difesa dell’Atlético bucando de Gea sul suo palo per il definitivo 2-0, e per la gioia del Madrigal.

In scioltezza.

…ed una viola

Con la Viola, invece, esattamente tre anni dopo, Pepito firma la sua Mona Lisa, ossia quella che con ogni probabilità resterà la più bella prestazione dell’intera carriera, l’opera con la quale verrà ricordato negli anni a venire: la tripletta al Franchi, sotto la Fiesole, grazie alla quale la Fiorentina rimonta un doppio svantaggio nei confronti della Juventus. Il suo capolavoro.

La Juventus chiude la prima frazione in vantaggio per 2-0, grazie ai gol di Tévez e di Pogba, entrambi festeggiati con un’esultanza “alla Batistuta” con tanto di mitraglia, indigesta sia ai giocatori che ai tifosi viola. I bianconeri, però, più volte vicini al 3-0, sbagliano credendo di aver archiviato anzitempo la pratica-Fiorentina: grave errore. Nel secondo tempo, infatti, un uragano di nome Pepito si abbatte sulla difesa juventina, mandando in frantumi tutte le convinzioni avversarie.

Il primo colpo lo sferra al 66’, trasformando magistralmente un rigore che Buffon intuisce ma non riesce – e non può – parare, preoccupandosi di recuperare al più presto il pallone dal fondo della rete e di portarlo verso il centro del campo, lanciando un chiaro messaggio ai suoi compagni: “Io ci credo”.

Il secondo gioiello arriva dieci minuti dopo: Mati Fernandez cerca e trova Rossi defilato sulla sinistra, fuori area e spalle alla porta. Il n°49 arpiona il pallone con il destro e con la suola del mancino si inventa una magia, un passo di danza con il quale evita elegantemente Pogba, riuscendo allo stesso tempo a ruotare il proprio corpo di 180°, fronte alla porta avversaria. In una frazione di secondo lascia infine partire un mancino velenoso, tanto potente quanto inaspettato, che si insacca alle spalle di un Buffon non privo di colpe.

Stop, suola, controllo e tiro: 2-2.

Il Franchi esulta per un pareggio insperato, ma si trasforma in una bolgia infernale due minuti più tardi, quando Joaquín, lasciato colpevolmente libero sul lato debole, infila Buffon sul primo palo, trasformando in realtà quella che solo una dozzina di minuti prima non sembrava altro che un’utopia.

Solo pochi minuti dopo, a dieci minuti dalla fine, l’azione più bella della partita fa definitivamente esplodere la Fiesole: sugli sviluppi di un corner a favore della Juventus, un raffinato tocco d’esterno destro di Borja Valero mette in moto Cuadrado, il quale porta palla per più di cinquanta metri ad una velocità mostruosa, prima di appoggiarla d’esterno a Giuseppe Rossi, premiandone la corsa. Pepito ringrazia, apre il compasso alla perfezione e con il solito mancino batte per la terza volta il portiere della Nazionale. Gioco, partita, incontro.

“Pepito Rossi, contropiede da leggenda. Delirio incontenibile a Firenze. 15 anni dopo, la gira la squadra di Montella: tripletta per Pepito. Incredibile!”

 

My way – A modo mio

«Non penso mai alla sfortuna. Se pensi alla sfortuna parti parecchi metri indietro e non recuperi più. […] La testa è la cosa fondamentale, sempre. Senza testa non si trovano vie d’uscita».

2 dicembre 2014: Pepito Rossi alla presentazione del suo libro alla Syracuse University di Firenze.

Nel dicembre del 2014 Giuseppe Rossi ha pubblicato un libro autobiografico con un titolo molto particolare: My wayA modo mio. In questo libro, tra le altre cose, Pepito parla di come l’arte del sapersi rialzare dopo essere caduti rovinosamente ed aver toccato ripetutamente il fondo sia l’unica carta da giocare quando il destino decide di farti uno sgambetto.

Joe Red – come era stato ribattezzato dai tifosi ai tempi di Manchester – è scivolato spesso, sbattendo il muso contro una realtà durissima da digerire, soprattutto per chi ha i numeri del potenziale campione ma un paio di ginocchia che la pensano in maniera diametralmente opposta. Ma nonostante la serie infinita di infortuni che avrebbe scoraggiato qualsiasi altro atleta, lui non ha mai mollato ed ha sempre lavorato a testa bassa, consapevole che il sacrificio avrebbe ripagato tutti gli sforzi e che ogni singola goccia di sudore avrebbe dato i suoi frutti.

Il suo carattere tendenzialmente schivo e riservato nasconde in realtà una personalità da leader e una mentalità straordinariamente positiva, vincente e in un certo senso invidiabile, grazie alla quale è riuscito ad affrontare tutti gli ostacoli che durante la sua carriera si è accidentalmente trovato davanti. Una pazienza smisurata, una tenacia di ferro e una forza di volontà mostruosa lo tengono ancora aggrappato a quello che fin da bambino è stato il suo sogno e allo stesso tempo lo hanno reso un esempio: un modello da apprezzare, stimare e seguire; uno stimolo a non mollare, anche quando tutto sembra andare storto.

Rossi esulta con il numero 49 sulle spalle, data di nascita del papà Fernando.

Anche dopo la seconda rottura del legamento crociato subita nello scorso aprile a Vigo – e la conseguente sesta operazione chirurgica – Pepito ha deciso di non abbandonare, scegliendo di continuare a seguire la sua passione, mettendo persino a repentaglio la propria incolumità fisica, e si è subito messo al lavoro con l’obiettivo di tornare in campo ancor più forte. Questione di mentalità.

Ormai è francamente impossibile cercare di capire chi o cosa sarebbe diventato Giuseppe Rossi se solo Madre Natura gli avesse donato un paio di ginocchia sane. Molto probabilmente sarebbe stato uno dei top player più richiesti dell’intero panorama calcistico europeo, ma la realtà dei fatti con la quale bisogna fare i conti è che Pepito resterà il più grande what if degli ultimi vent’anni del calcio italiano. Una cosa è certa: anche a Genova, sponda rossoblu, affronterà una nuova avventura come ha sempre fatto, con la palla incollata al mancino e il sorriso stampato sulle labbra: a modo suo.