Sócrates, colpi di tacco e democrazia - Zona Cesarini

Sócrates, colpi di tacco e democrazia

Nel 1980 l’allenatore del Corinthians Osvaldo Brandão dice a Sócrates: “I giocatori devono pensare a giocare, e non a parlare”. Un ordine che suona molto simile a quanto dichiarato nel febbraio 2018 dalla giornalista Laura Ingraham a proposito delle critiche rivolte da LeBron James a Donald Trump. La Ingraham ha esortato il #23 dei Cleveland Cavaliers a “stare zitto e giocare”, lui ha risposto: “Non lo farò, io sono più di un atleta”. Non sappiamo se James sia a conoscenza della storia di Sócrates ma, allora come oggi, lo sport è in grado di veicolare messaggi molto più importanti del risultato di una partita.

Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira è stato tante cose: simbolo della democrazia Corinthiana, capitano del Brasile al Mondiale del 1982, poeta, medico del popolo, rivoluzionario. Come ha detto una volta José Mourinho, “Chi è solo un calciatore non può essere un grande calciatore”, frase perfetta per descrivere cosa non è stato il campione brasiliano.

Sócrates è morto il 4 dicembre 2011, a 57 anni, a causa di un’infezione intestinale letale per un fisico debilitato dall’abuso di alcol. Anni prima aveva dichiarato che gli sarebbe piaciuto morire di domenica, con il Corinthians campione. Sarà proprio così, e i giocatori della sua ex squadra festeggeranno alzando al cielo il pugno chiuso, ricordando la sua esultanza-simbolo. Come avrebbe detto lui: “Un giorno triste così felice”, frase che è diventata il titolo del libro di Lorenzo Iervolino, uno dei testi che meglio ha saputo raccontare la storia del campione brasiliano.

La consapevolezza che il calcio sia, con le parole di Sócrates, “un microcosmo da mettere in relazione con il macrocosmo della società”, si fa strada nella sua mente nel 1964, quando ha soltanto dieci anni. Il piccolo vede il padre prendere dalla biblioteca dei libri sul comunismo e bruciarli nel cortile di casa. È l’anno del golpe militare in Brasile e il periodo in cui Sócrates scopre il desiderio di informarsi, un desiderio che lo porterà presto a definirsi “uomo di sinistra e anticapitalista”. Il suo nome, derivante dall’amore del padre per la Repubblica di Platone, è un presagio della sete di conoscenza e cambiamento che lo animerà sempre.

I primi anni nel Botafogo, la squadra della sua città Ribeirão Preto, sono segnati dalla doppia carriera: è sia studente di medicina che calciatore. Nonostante le notti passate a fumare e a studiare, il suo rendimento non ne risente: alto e solo apparentemente lento, visione di gioco senza pari, specialista del colpo di tacco, letale sui calci piazzati, Sócrates è il talento più fulgido della sua generazione. Nel 1976 si consacra capocannoniere del campionato Paulista. Tre anni prima, in cima a quella lista aveva fatto scrivere il suo nome un certo Pelé. Nella stagione successiva, il suo allenatore Jorge Vieira lo arretra dalla posizione di seconda punta a quella di centrocampista centrale, per sfruttare al meglio la sua abilità come creatore di gioco.

Incontrare il mito, diventare leggenda

Il 23 marzo 1977 allo stadio Vila Belmiro si gioca Santos-Botafogo, Sócrates ha l’occasione di ricevere un’investitura importante, quella del grande Pelé, seduto sugli spalti. Con un colpo di testa vincente e il colpo di tacco che è il pezzo forte del suo repertorio, l’asso del Botafogo rimonta i due gol subìti dai suoi a inizio partita, lo stadio è ammutolito. Qualcuno vicino a O Rei gli sente dire: “Ma chi diavolo è quello? Quell’uomo è un genio!”. Il Botafogo passa in vantaggio nel secondo tempo, Pelé nel dopo-partita elogia il migliore degli avversari:

“Quel ragazzo dovrebbe giocare di schiena, con il tacco che ha”.

O Doutor da bola, “il dottore del pallone”, soprannominato così per le sue attitudini extracalcistiche, passa al Corinthians a 24 anni, nel pieno della maturità. Il Corinthians è la squadra di estrazione popolare di San Paolo. Nelle parole del giornalista José Roberto de Aquino: “Tutte le squadre possiedono una tifoseria. Solo il Corinthians è una tifoseria che possiede una squadra”.

Per San Paolo è finita l’era pre-socratica, e si può iniziare a sognare, anche se l’impatto del Doutor con la nuova realtà non è dei migliori. Nella conferenza stampa di presentazione decide di ricordare a tutti che da quando è bambino è tifoso del Santos, e non ha intenzione di cambiare. La solita sincerità che non fa sconti a nessuno. Nei primi tempi emerge un altro problema: i suoi nuovi tifosi sono abituati a giocatori che mettono in mostra grinta e abnegazione, in un processo di fusione tra atleti strapagati e fasce popolari della metropoli. Anche il feeling con la città di San Paolo fatica a sbocciare, Sócrates si sente accerchiato e non si sente libero di vivere come vuole. Come se non bastasse, il campionato del 1978 se lo aggiudica il Santos.

Nel 1979 le cose non accennano a migliorare, il Doutor a metà stagione convoca una conferenza stampa per spiegare che quella non è la vita che desiderava, sente troppa pressione e non riesce più a giocare per “puro piacere”. “Se dovessi essere costretto a scegliere tra giocare a calcio e vivere la mia vita con la mia famiglia, non avrei dubbi. Smetterei con il calcio. Senza nemmeno aspettare la Coppa del Mondo”.

Sócrates è schiacciato dalla situazione, vince il primo campionato con il Corinthians, ma non basta a placare la sua inquietudine. Nel Paulista 1980 continua a giocare a fiammate, senza continuità. I tifosi iniziano a contestarlo, dopo una sconfitta casalinga si arriva quasi allo scontro fisico. Come abbiamo visto sopra, il rapporto con l’allenatore Brandão non è facile, l’autoritarismo del tecnico soffoca l’animo del Doutor. Qualcosa di nuovo però scatta all’improvviso in lui: comincia a pensare che quella rabbia che gli ribolle dentro può trasformarsi e diventare l’inizio di una rivolta popolare. Gioca con una determinazione diversa e dopo ogni gol esulta con il pugno chiuso, un simbolo che arriva dai guanti neri di John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 e dai guerriglieri cubani tanto amati dal Doutor in gioventù.

Sócrates ama le feste e ha sempre in mano una lattina di birra, dentro lo spogliatoio però si trasforma in esempio da seguire, il suo carisma non teme confronti. Nonostante i risultati della squadra non siano dei migliori nel 1982 prende forma un progetto che ha dell’incredibile. Con l’appoggio del presidente Waldemar Pires, dell’allenatore Mario Travaglini e dei compagni Wladimir e Casagrande, Sócrates crea la Democrazia corinthiana, la trasformazione della squadra in cellula socialista.

Le decisioni della maggioranza erano legge ma si accettava di votare e discutere qualsiasi cosa, dall’orario dei pasti all’annullamento dei ritiri, considerati dal Doutor l’estensione dell’autoritarismo della dittatura alla vita quotidiana degli atleti. Con la nuova gestione anche i risultati migliorano, ma non abbastanza per vincere ancora il Paulista. Il Flamengo di Zico è imbattibile e supera in finale il Gremio, che in semifinale aveva estromesso Sócrates e (sì, è proprio il caso di chiamarli così) compagni. Non c’è tempo per rimuginarci troppo, il Brasile vola in Spagna per vincere un Mondiale in cui è dato per favorito.

Il capitano della Seleção prende in mano la squadra già nella prima partita. Arretrato da Telê Santana di una ventina di metri per poter convivere con Zico, il Doutor si adatta immediatamente al nuovo spartito e contro l’Urss il gol del pareggio è opera sua: due finte fuori area seguite da un fulmine imprendibile che rimette in gioco i suoi. Il Brasile raddoppierà grazie a Éder e si aggiudicherà la prima partita, poi la seconda, poi la terza. La Seleção sembra inarrestabile e gioca un calcio spettacolare, senza paura. Nella seconda fase a gironi, dopo la vittoria contro l’Argentina di Maradona, l’amara sorpresa. Contro l’Italia il futebol bailado non basta, il terzo gol di Paolo Rossi e la parata di Dino Zoff su Oscar decidono la sfida. Il Brasile ha continuato ad attaccare, sicuro della sua superiorità, cercando di vincere anche quando un pareggio sarebbe bastato per qualificarsi alla fase ad eliminazione diretta. Ha perso.

L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, il Doutor commenta la sconfitta: “L’Italia ha vinto, ma noi abbiamo giocato meglio e il popolo brasiliano ricorderà questa partita come la più bella giocata dalla Seleção per molti anni”. Sócrates riesce a mettere da parte la delusione e a concentrarsi sulla prossima impresa: vincere ancora il campionato. Ci riuscirà: nel 1982 la Democrazia corinthiana si aggiudica il Paulista, anche se il trionfo più importante è un altro.

La Democrazia corinthiana è il centro nevralgico dei movimenti di protesta, delle lotte sindacali, degli scioperi, protagonista della cultura progressista insieme agli intellettuali e agli artisti dell’epoca. Barba e capelli lunghi, il capitano del Corinthians ricorda sempre di più il suo idolo, Che Guevara. Spesso, anche in Nazionale, scende in campo con una fascia bianca in testa, sulla quale si leggono le parole “Libertà e giustizia”. Banali per il resto del mondo, ma non per lui.

Vincere ancora, con democrazia

Lo storico allenatore Travaglini se ne va, al suo posto viene nominato rappresentante della squadra Zé Maria, giocatore vicino alla fine della carriera. È autogestione totale. Pur di restare a vivere il suo sogno, che descrive come “l’unica cosa importante della mia carriera, tutto il resto è stato dare calci a un pallone”, il Doutor rinuncia a ingaggi incredibili e alle proposte che gli arrivano da squadre brasiliane ed europee.

I risultati della squadra però non sono dei migliori e portano all’addio di Zé Maria e all’arrivo di Jorge Vieira, che Sócrates conosce dai tempi del Botafogo. I suoi metodi sono duri, autoritari, e non è l’unico a remare contro la Democrazia corinthiana: in squadra infatti è arrivato anche il portiere Émerson Leão, quel che si dice un controrivoluzionario. Nonostante il clima dentro e fuori la squadra stia cambiando notevolmente, il Doutor lo accetta e continua a dare il massimo.

Nella finale di ritorno del campionato Paulista del 1983 contro il San Paolo arriva un altro momento indimenticabile, la squadra entra in campo con lo striscione “Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”. La lotta di Sócrates e compagni per la democrazia in un Paese che non ce l’ha è destinata a rimanere nella storia: il Doutor è ancora decisivo e il Corinthians è campione per la seconda volta consecutiva.

La Democrazia corinthiana ha superato tante avversità: i contrasti tra i vertici della dirigenza, l’avvicendarsi degli allenatori, perfino il pestaggio dell’attaccante Casagrande da parte della polizia. Alla fine però il fuoco della rivoluzione acceso da Sócrates e dagli altri verrà spento da una decisione parlamentare: nonostante la mobilitazione popolare, il 25 aprile 1984 la Camera boccia la proposta di ripristinare le elezioni dirette per il presidente della Repubblica. Il Doutor aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe lasciato il Brasile se la mozione non fosse passata, tracciando così il suo destino. Fino a quel momento aveva rifiutato le molte offerte per non abbandonare il Corinthians e la lotta, ma dopo la grande delusione decide di andare a giocare in Serie A, con la Fiorentina.

Arriva in Italia che sa già l’italiano, dice di averlo imparato leggendo Gramsci e Giorgio Bocca. Le sue abitudini, birra e sigarette, lo rendono un bersaglio facile per la stampa, che lo vede come un personaggio scomodo, si scaglia contro di lui e lo etichetta come bohémienne scansafatiche. L’avventura europea non decolla, Sócrates è costretto a fare una preparazione massacrante a cui non è abituato, quando comincia ad ambientarsi lo scarso feeling con i compagni e le difficoltà tecniche della squadra lo schiacciano. Mal sopporta il cinismo del calcio italiano, il dover vincere a tutti i costi: non si diverte più, gli manca l’aria per poter respirare e dare spazio alla sua filosofia.

Il suo “esilio” dura soltanto una stagione, nessuno lo ha capito, non si è mai ambientato ed è stato frettolosamente messo in un angolo. Si sente diverso dai giocatori che diventano cartelloni pubblicitari ambulanti, marionette di un sistema che lui vuole provare a cambiare. Nel 1986 (l’anno del secondo Mondiale da capitano del Brasile ai Mondiali, anche stavolta senza fortuna) torna in patria, dove gioca altri tre anni con le maglie di Flamengo e Santos.

Dopo il ritiro mette su una clinica sportiva a Ribeirão Preto, casa sua, e nel frattempo tiene seminari e conferenze parlando di politica, lavora per giornali e televisioni. Per il mondiale del 2010 va in Sudafrica a parlare con la gente di discriminazione. Gheddafi chiede di incontrarlo e gli offre il suo sostegno in un’eventuale corsa alla presidenza della Repubblica, ma lui rifiuta. Continua, però, ad occuparsi di politica e a fare festa con gli amici di sempre, fino al “giorno triste così felice” che lo consegna definitivamente alla leggenda.