Il calcio inglese è morto, viva il calcio inglese - Zona Cesarini
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Il calcio inglese è morto, viva il calcio inglese

It’s coming home. Nel senso che qualcuno tornerà a casa, qualcuno che non è il calcio, lui per ora sta bene altrove, conteso tra Croazia e Francia non lascia l’Europa dal 2006, ma di tornare a casa proprio non ha voglia.

Effettivamente la parabola del calcio rassomiglia, volendo prodigarsi in un fantasioso esperimento di allitterazione, a un romanzo di formazione con il protagonista che vede la sua nascita sul suolo inglese ma ben presto capisce che la terra natia gli va stretta. Inizia così un rapsodico girovagare conoscendo le più varie tendenze interpretative di sé, una continua scoperta di quanto siano ampie e peculiari le numerose sfaccettature che il protagonista può assumere. Una sorta di Grand Tour alla ricerca di se stesso che giocoforza lo riavvicina alla madre patria fin quando finalmente il cerchio sembra chiudersi con l’Inghilterra campione del mondo nel 1966.

Il protagonista però è irrequieto, capriccioso, bramoso di novità e il cordone ombelicale non si ricompone del tutto, anzi finisce per spezzarsi insanabilmente, con il calcio che prende una strada e l’Inghilterra che ne prende un’altra, al limite del fanatismo, appesa a quell’idea di calcio che ormai è attuale soltanto nei pub frequentati da persone piuttosto in là con gli anni.

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Walker uomo da hockey pass. Una volta tirava dritto sperando che il campo non finisse.

Una realtà incontrovertibile: il calcio è sfuggito totalmente alla matrice filosofica di chi lo ha messo al mondo, producendosi in varianti certe volte di annichilente bellezza certe altre di insipida efficacia, ma comunque distanti da una nostalgica idea che alberga soltanto nei cuori di alcuni (della maggior parte a dir la verità) dei discendenti di chi il gioco lo ha partorito.

Eppure il 2018 sembrava effettivamente un anno di rottura per un movimento calcistico ormai stanco di crogiolarsi nelle sabbie di una triste realtà e disposto a rimettere il pallone al centro per riconcettualizzare, a livello filosofico prima e pratico poi, un calcio che il tempo aveva reso irriconoscibile oltre la Manica.

La nazionale inglese presentatasi in Russia non ha praticamente gradi di parentela con quella guidata da Roy Hodgson ai deludenti Europei del 2016. Gareth Southgate, trovatosi per caso sulla panchina inglese, ha deciso di non imporre un’identità forte alla sua squadra, preferendo un melting pot filosofico con tutto ciò di buono o di cattivo la Premier League ha prodotto negli ultimi anni. Per farlo aveva bisogno di un core giovane, infatuato da un’idea di calcio non contaminato dal talebano kick and run tanto caro ai sudditi di sua Maestà.

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Con un po’ di fortuna si parlava di un risultato diverso, qui però letture ed esecuzione sono ad altissimi livelli.

Portieri-registi, difesa a 3, rombo di costruzione, compiti di regia affidati agli esterni, punte capaci di interpretare il ruolo, tutte innovazioni che sono entrate nella grammatica calcistica europea attraverso allenatori e giocatori capaci di influenzare la comunità epistemica dominante, di rompere di continuo il paradigma centrale al fine di trovare soluzioni innovative per giocare a uno sport inventato oltre un secolo e mezzo fa.

Wenger in principio, poi a seguire Mourinho, Ancelotti, Pellegrini, Pochettino, Conte, Guardiola, Klopp, la roccaforte del calcio inglese come ideologia era caduta, costretta alla resa di fronte ai migliori allenatori del mondo che continuavano a bombardare i giocatori e i tifosi di concetti estranei ma terribilmente seducenti. All’inizio della stagione 17/18 gli allenatori inglesi in Premier League erano quattro (5 con il gallese Tony Pulis). Le barriere non sono pensabili nel mondo sportivo, il know-how (in questo caso calcistico) è qualcosa di talmente volatile che soltanto per brevi periodi può essere interiorizzato da una sola nazione o da una sola figura, poi è destinato a infettare l’intero sistema, confutando una visione paradigmatica dopo l’altra. Un po’ come l’economia, se non esistessero gli economisti.

La nazionale di Southgate ha espresso un calcio multiculturale, mutuando dei concetti dal City di Guardiola, dal Chelsea di Conte, dal Tottenham di Pochettino, dal Liverpool di Klopp, una sintesi di un calcio che non può più essere ripudiato dai conservatori del pallone. Certo, il calcio inglese rimane un qualcosa di profondamente indigeno, come però lo sono anche il calcio tedesco, italiano, spagnolo, argentino, brasiliano, uruguagio, ma se la radice mantiene una sua rilevanza, l’outcome è profondamente influenzato dalle moderne filosofie del gioco.

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Pickford è stato uno dei migliori portieri di questo mondiale, non solo tra i pali.

Cercando di andare più sul pratico, Walker inserito in una difesa a tre con evidenti responsabilità di costruzione sarebbe stato un buon plot per una puntata di Black Mirror soltanto un anno fa. Così come la crescita di Stones ricorda più Space Jam, e un talento rubato a Jerome Boateng o a Bonucci, che non una maturazione tecnico-tattica così evidente (se non è il miglior centrale del mondiale poco ci manca). Che dire invece della solidità di Trippier nelle due fasi o della comprensione del gioco di Sterling, un puro sangue in grado di andare solo forte e adesso una mezza punta con un set di soluzioni con e senza palla da far invidia a molti.

L’Inghilterra non ha giocato quasi mai un calcio proattivo durante questi mondiali, non ha mai mostrato un dominio tattico evidente, l’unico aspetto in cui sono sembrati i migliori al mondo è stata l’esecuzione dei calci piazzati, eppure la sensazione di uno strappo insanabile nel modo di intendere il gioco è stato visibile a tutti.

Una squadra capace di reggere per lunghi tratti fasi di difesa posizionale, con spiccate capacità in transizione e con buoni istinti negli ultimi 30 metri. La manifestazione di un’ideale pluralista finalmente accolto da un popolo che sentiva il bisogno di riportare il tutto alla sua culla. Un risciacquo nel Tamigi che però dovrà aspettare.

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L’inesperienza della rosa faceva presagire ben altro percorso, la semifinale è stata figlia di un calendario morbido e di un’organizzazione con pochi eguali sui 90’ minuti. Contro la Croazia sono emersi i vecchi fantasmi, come succede ogni volta che un obiettivo è talmente vicino da sembrare impossibile esserci arrivati così facilmente. Il gol di Perisic ha squarciato il sottile velo di sicurezze sul quale Southgate aveva costruito la cavalcata dei suoi. Da lì in poi è stato una nostalgica attesa dell’eliminazione, una rappresentazione stanca di quello che è stata la nazionale inglese negli ultimi vent’anni. Poche idee, poca disciplina, poca dedizione, zero risultati.

La verità è che ora come ora non c’è la necessità di arroccarsi dietro certezze basate su un torneo di un mese. La nazionale inglese ha espresso un calcio diverso, ha attraversato i confini del mare e adesso non c’è motivo di fermarsi. Tra quattro anni in Qatar si presenterà una squadra con un bagaglio di esperienze molto più ricco, ma nel frattempo il calcio inglese ha il dovere di continuare a importare know-how e di procedere con la creazione di una propria via al calcio, che sia pregna delle innovazioni del gioco, che non tradisca il modus operandi anglosassone ma che abbracci nuovi paradigmi, nuovi modi di fare le cose.

La nazionale di Southgate è un ulteriore mattoncino, adesso bisogna completare la casa perché il calcio ha una gran voglia di tornarci, si è procurato una sbornia ideologica in tutto il mondo e adesso ha bisogno di ritrovarsi in quelle terre dove ha mosso i primi passi. Non è tornato a casa, ma potrebbe farlo presto.