Ode al sinistro di Juan Manuel Vargas - Zona Cesarini

Ode al sinistro di Juan Manuel Vargas

Nel primo volume de Il Mondo come volontà e rappresentazione, Arthur Schopenhauer distingue e tratteggia la differenza tra il sentimento del Bello e quello del Sublime. Il grande filosofo tedesco, specificando come il Sublime faccia comunque parte del più ampio sentimento del Bello, distingue questa categoria “per un’aggiunta”: ci troviamo davanti a un oggetto bello, ma riconosciamo che questo oggetto è problematico oppure ostile per il nostro essere corporeo, per il nostro gradimento o per la nostra stessa incolumità, ma ciò nonostante restiamo a guardare, a contemplarlo. Scarnificando in parte il pensiero del filosofo, potremmo dire che il sentimento del Bello è semplicemente il piacere provato guardando un oggetto piacevole; il sentimento del Sublime, invece, è il piacere che si prova osservando la potenza o la grandezza di un oggetto che potrebbe addirittura distruggere chi lo osserva.

Un pensiero che affonda le proprie radici concettuali anche in opere-icona dell’arte ottocentesca: la più efficace probabilmente resta il Viandante sul mare di nebbia di David Caspar Friedrich, nel quale un uomo solitario, ritratto di spalle, contempla un paesaggio selvaggio e sconfinato, avvolto dalla nebbia. Quella contemplazione quasi mistica è la rappresentazione dello stato d’animo, misto di sgomento e piacere, percepito dall’uomo quando diviene consapevole della grandiosità della natura.

Se applicassimo meccanicamente le categorie schopenhaueriane o i dipinti di Friedrich al gioco del calcio, o meglio, alle caratteristiche tecniche di alcuni calciatori, la rappresentazione del Sublime non potrebbe che materializzarsi nelle sembianze del sinistro di Juan Manuel Vargas. Vargas el Loco, o per i peruviani el Tornado. Due soprannomi che, letti assieme come fossero una filastrocca, restituiscono quasi perfettamente le caratteristiche fisiche-tecniche e la personalità dell’esterno sinistro sudamericano. Perché messi davanti al sinistro di Vargas, la reazione che si prova è simile a quella descritta da Schopenhauer nella sua opera più importante: contemplazione e smarrimento, accompagnati da una sottile sensazione, quella di stare assistendo a uno spettacolo della natura che può travolgere e soverchiare ogni forma di vita.

Arrivato alla soglia dei 35 anni, ritornato nel suo Perù, e con una carriera alle spalle decisamente sottostimata in rapporto alle sue qualità, ho deciso di mettere in fila alcuni momenti dell’esterno peruviano per dimostrare che Vargas era una forza della natura liberata su un campo da calcio. La rappresentazione plastica del Sublime.

La rivelazione in Italia – nel 2008, ai tempi di Catania – si materializza con un collo esterno al volo direttamente da calcio d’angolo. Un missile tomahawk che incenerisce il Milan: un capolavoro di coordinazione, facilità di calcio e personalità. È la prima manifestazione di potenza del Loco, al tempo un giovane sudamericano con una vaga somiglianza col Che, e di cui si sa poco, se non che dimostra un potenziale ancora tutto da scoprire. El Loco sembra l’ennesimo abuso da soprannome made in Sudamerica perché Vargas è soltanto un 24enne che gioca assecondando la forza ciclopica che ha nelle gambe, più che l’istinto, e che si fa largo sulla fascia sinistra con la stessa grazia di una nave rompighiaccio in mezzo a un gruppo di iceberg galleggianti.

Non c’è alcuna traccia di sovrastrutture nel calcio di Juan Manuel: è pura energia scaricata in campo. Ma insieme alle capacità muscolari e aerobiche Vargas dispone di un sinistro che squarcia l’aria, sapendo dosare sia potenza che soluzioni al giro, indifferentemente con l’interno o l’esterno del piede. Negli anni di Catania mostra la sua personalità straripante, si trasforma in una locomotiva a cui avversari e compagni cercano di attaccarsi, anche se con finalità diametralmente opposte: i diretti avversari provano a limitarlo più che a fermarlo; i compagni provano a seguirlo e assecondarlo più che ad armonizzarlo all’interno di un contesto collettivo.

Il biennio catanese è un periodo caratterizzato dalla continuità: 68 presenze in due stagioni, la seconda condita da 5 gol in campionato, insieme all’avanzamento sulla linea di trequartisti dietro a Spinesi, mossa che lo esonera da un set di compiti in fase di non possesso e ne esalta la vena distruttiva entrato in possesso del pallone. L’intuizione tattica di Zenga limita alcuni difetti del peruviano e, al tempo stesso, lo lancia come padrone assoluto della fascia, elevandolo a carrillero di lunga percorrenza, laterale capace di garantire uno sfogo di gioco garantendo ampiezza e continuo attacco della profondità. È la silhouette di un calciatore in forte ascesa, verticale e dominante come pochi altri. La Fiorentina, qualificata ai preliminari di Champions con Prandelli, sborsa 12,5 milioni di euro e porta il peruviano al Franchi.

Quello di Vargas, però, non sarà un campionato semplice: fatica oltremodo ad entrare in condizione, non riesce a garantire la pluralità di compiti richiesti da un allenatore ordinato e pragmatico come Prandelli, che lo vede anzitutto come terzino; riesce a conquistarsi un posto da titolare soltanto nella seconda metà di stagione, quando la Fiorentina propone un 4-2-3-1 dove Pasqual è l’esterno basso capace di garantire copertura, ampiezza e cross, mentre el Loco diventa un esterno ibrido, portato ad attaccare in verticale e ad associarsi con i compagni di reparto per sfruttare la pericolosità del suo sinistro. Il salto in un’altra dimensione agonistica si rivela un processo fin troppo progressivo, che poggia su un momento di svolta. 25 aprile 2009, Fiorentina-Roma 4-1: Vargas esonda.

Al 6° minuto Vargas deflagra la Roma accendendo i suoi propulsori da fermo, partendo spalle alla porta, e liberando una ‘patada atomica’ che vola nell’angolino come se si trattasse di un dardo infuocato.

Dopo mesi di incomprensioni, polemiche sul prezzo del suo cartellino, passaggi a vuoto dettati sia da una ritrosia nell’assecondare un sistema tattico piuttosto rigido che da un ambientamento più complicato del previsto, Vargas si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi due mesi di campionato infila 3 gol e 3 assist, stabilendo una connessione che diverrà la principale arma offensiva dei Viola una volta superata la prima pressione avversaria: ricerca dell’ampiezza per il cross di Juan Manuel verso un accademico del taglio in anticipo sul diretto marcatore, Alberto Gilardino. Come avrebbe apostrofato il sociopatico Walter Sobchak de Il Grande Lebowski, “la sua bellezza è la sua semplicità”: uno schema essenziale e diretto, che si inserisce nella proposta offensiva della Fiorentina come la panna montata sulle fragole.

Passata dalla polvere delle serie inferiori e da una salvezza all’ultimo respiro ad essere stabilmente la quarta forza del campionato italiano, la Fiorentina di Prandelli, perso Toni, si specchia ora nei voli spettacolari di Frey, nelle progressioni furiose del Loco, nei dribbling di Mutu e nelle finalizzazioni da manuale di scuola calcio di Gilardino. Vargas è sulla bocca di tutti, e la stagione 2009/2010 serve ad irrobustire ulteriormente la fama di esterno demodé, capace di sovrastare avversari e spaccare porte. Confermato esterno alto dal tecnico bresciano, il peruviano inizia col botto: nei preliminari di Champions all’Alvalade di Lisbona segna un gol dei suoi, figlio di un’azione di forza e di un diagonale secco e velenoso, che risulterà poi fondamentale per la qualificazione ai gironi.

C’è tutta la fisicità, la personalità sfrontata e la pochissima compostezza del Loco in questo gol.

Vargas sembra uscire direttamente da un calcio lontano, per certi aspetti antitetico al periodo di appartenenza: nell’anno del trionfo del Barcellona di Guardiola e del juego de posicion come nuovo paradigma tecnico-tattico verso cui l’Europa tende, il peruviano appare come il prototipo di un calcio fisico, fatto di accelerazioni brutali e strappi violenti, dominato dalla potenza e dalla velocità nell’uno contro uno, esaltato dal duello diretto all’arma bianca col proprio avversario: più vicino alla supremazia fisica dei grandi interpreti degli anni Novanta (Roberto Carlos) che alla raffinatezza e alla pluralità di compiti dei nuovi punti di riferimento del ruolo (Lahm, Marcelo). Il Loco è inarrestabile e nell’arco della stagione è capace di tutto; sorretto da un livello atletico e psicologico che non ritroverà più, sposta – letteralmente – gli equilibri di quella squadra, per dirla con un’espressione à-la page.

È talmente in confidenza con sé e con i suoi mezzi che più che giocare a calcio sembra sfidare fisicamente gli avversari per dimostrare la sua superiorità: un bullo da partitella nel potrero.

A fine anno saranno 29 presenze e 5 gol in campionato, insieme a 7 assist, il 60% dei quali per la testa di Gilardino, e soprattutto 10 presenze condite da 3 gol e 3 assist in Champions League, manifestazione dove mette in luce tutto il suo potenziale spostando di peso i diretti avversari sulla fascia e bruciando il campo con le sue accelerazioni di pura potenza.

Fisicità, ma anche grande conduzione palla e capacità di usare il piede sinistro come un coltellino svizzero in ogni situazione: suola, esterno, tacco, interno. Gli avversari il più delle volte provano ad aggrapparsi a Vargas come potrebbe fare un fantino che ha appena perso il controllo del suo cavallo.

Ma quella che pare una parabola di ascesa e ambizioni che viaggiano in costante rialzo muta repentinamente, svelando un lato nascosto e rivelando quei demoni con cui l’uomo Juan Manuel Vargas dovrà fronteggiarsi negli anni, fino a perdere ogni credibilità agonistica spostando in avanti l’abusato concetto di “toccare il fondo”. Come se all’interno di un calciatore così istintivo ed energico si nascondesse, di contro, una personalità sopita, tormentata, un’anima autodistruttiva e sfrontata che vive sottopelle, pronta a materializzarsi nei momenti clou di un percorso professionale pronto al grande salto.

La Fiorentina, con la chiusura del ciclo-Prandelli e l’ultima partecipazione alla Champions, è una squadra da rifondare, un club che naviga a vista con la guida incerta di Sinisa Mihajlovic, mentre Vargas è un oggetto di mercato a cui s’interessano Bayern Monaco e Chelsea. Proprio nella stagione della definitiva maturità, il peruviano mette a nudo le sue debolezze e le sue inadeguatezze: è schiavo dell’alcool, del gorgo delle uscite notturne senza orario e senza scopo, se non bere fino alla nausea. Il periodo nero dell’esterno culmina con una notizia sulle prime pagine della cronaca cittadina: viene estratto ubriaco alle 6:00 del mattino dal suo Porsche Cayenne, ribaltatosi sul viale che porta al Piazzale Michelangelo – proprio là dove si gode della vista panoramica più celebre di Firenze immortalata in migliaia di opere e riproduzioni -, alla cui guida aveva lasciato il cugino – non abilitato alla guida in Italia e con un tasso alcolemico superiore al suo – procurando un serio incidente con un’altra auto di passaggio. Quella di Vargas sembra la parabola della gioventù bruciata, ma con un decennio di ritardo rispetto al ribelle James Dean arrestato a 18 anni per ubriachezza molesta. C’è disperazione e poca voglia di ripartire nel mondo capovolto di Juan Manuel. Vive gli ultimi anni a Firenze come un condannato che vede scivolare via il suo tempo tra le dita, giorno dopo giorno, senza un’effettiva chance di ribaltare la propria condizione esistenziale.

Ma se le voci, i gossip, le ironie e gli sfottò tipicamente fiorentini, un dileggio a metà tra il sarcasmo velenoso alla Amici Miei e la voglia mista a nostalgia di rivedere ancora un talento del genere arare la fascia, lasciano poco spazio alle interpretazioni – Vargas nel gergo del tifo diventa “66 cl”, in relazione alla versione extra-large delle birre in commercio – lo stesso non si può affermare per la sua eredità tecnica, assimilabile a quella di un tornado che ha spazzato via un villaggio adesso da ricostruire dalle fondamenta, così come quella fascia sinistra abbandonata d’improvviso. La narrazione di Vargas vira rapidamente verso la retorica da ex giocatore che ha commesso tutti gli errori più assurdi cedendo a futilità, vizi e sperperando un patrimonio fisico e tecnico di straordinaria consistenza. Da nuovo interprete dominante del ruolo di esterno a tutto campo si trasforma in un personaggio da tv drama, protagonista di uno di quei soggetti che tanto vanno di moda oggi nella serialità, uno con una storia larger-than-life da tramandare, un disilluso che ha toccato l’apice del successo per poi sprofondare velocemente nell’abisso: come se fosse avvolto da sabbie mobili che lo spingessero inesorabilmente verso l’acquitrino dei rimorsi, impersonificazione vivente dell’abusato concetto narrativo di what if. Un reietto col fisico segnato da vistosi tatuaggi, degno di un’amara ballata blues di Johnny Cash.

Prende peso, si allena sempre meno e con meno intensità, le sue presenze calano a dismisura, fa discutere con atteggiamenti al limite del patologico: come quel pomeriggio in cui si presenta in apparente stato di ebbrezza all’aereoporto di Lima, in attesa del volo che lo riporti a Genova. Uno scoop su cui la stampa sudamericana – peruviana in particolare – si getta con ferocia, ingigantendo titoli e calcando pesantemente la mano sugli aggettivi per un’operazione di clic-baiting che non fa altro che screditare ulteriormente il laterale di proprietà della Fiorentina, apparso più stanco, nervoso e sfinito che realmente ubriaco.

La parabola di ascesa e repentina discesa agli inferi è un copione fin troppo abusato a cui dare un ultimo scossone: un’espiazione finale. Dopo due anni di esilio a Genova in cui la domanda più ricorrente nei suoi confronti riguardava la sua massa corporea, il peruviano è tornato a Firenze, più per inerzia contrattuale che per scelta. La squadra di Montella è una delle più innovative rappresentazioni del gioco di posizione in Italia, un mix di controllo del gioco, abilità nel palleggio con cui risalire il campo creando superiorità numerica e padronanza tecnica nella gestione del possesso palla. La Fiorentina è una squadra che esprime un calcio accademico, cerebrale, perfetta espressione estetica della raffinatezza artistica cittadina, una rosa dove si usano i guanti bianchi: una squadra che, di riflesso, difetta in fisicità e potenza.

Passata un’estate dove i titoli che lo riguardavano riportavano all’unanimità la parola “invendibile”, quasi si trattasse di un vecchio relitto irrecuperabile abbandonato nelle profondità del mare, Vargas inizia ad allenarsi con abnegazione, puntando la metà della stagione come ultimo treno utile per tornare un giocatore professionista dopo la parentesi discontinua a Genova. L’1 ottobre 2013, però, accade qualcosa di strano, impensabile fino a due mesi prima. Una di quelle congiunture irrazionali che fanno le fortune di chi di mestiere racconta il calcio: Fiorentina-Parma al Franchi, con i Viola sotto alla fine del primo tempo per un gol di Gargano. È una serata strana perché si è infortunato Pepito Rossi e le alternative davanti latitano, con Wolski sottotono e il solo Joaquin a cercare lo spunto decisivo; in un’atmosfera di crescente nervosismo e in un contesto bloccato, lo stadio inizia a rumoreggiare finché Montella decide di giocarsi il jolly per sparigliare il mazzo: dopo 14 mesi dall’ultima apparizione si rivede Vargas.

Il peruviano ha un impatto devastante sulla partita, contribuisce ad alzare il baricentro della squadra piazzandosi come esterno sinistro alto nel 4-3-3 viola e inizia a scaricare cross in area come se dovesse espiare gli anni di buio e rimorsi in pochi minuti. Spinge costantemente, vince di forza i duelli uno-vs-uno, guadagna un angolo che lui stesso batte e che vale l’1-1 di Gonzalo Rodriguez; poi, al 78′, Pizarro scucchiaia un pallone d’interno in area, Vargas gioca d’astuzia con il suo corpo, agganciando di petto e facendo leva sui difensori gialloblu che lo marcano a uomo, poi si gira improvvisamente e calcia di collo con una spaccata di controbalzo, non bellissima ma tremendamente efficace: palo-gol. 2-1, Vargas inizia a correre urlando come ad esorcizzare i suoi demoni, accompagnato dal boato assordante del Franchi. Il peruviano non sarà più il treno merci visto nel triennio 2008-2010, ma è improvvisamente tornato, manifestandosi con tutte le caratteristiche che lo hanno fatto amare al grande pubblico: dominio fisico, personalità nella giocata, sinistro esplosivo come un bazooka.

Appena compiuti i 30 anni Vargas riesce nell’impresa di espiare le sue colpe, esorcizzando i suoi impulsi autodistruttivi e proponendo un rendimento sorprendente nell’arco della stagione tornando perfino a mostrare giocate degne del suo potenziale.

Sotto l’acquazzone di Udine, nei quarti di Coppa Italia, recupera lo 0-1 con un tomahawk mancino che squarcia la tempesta.

Segnerà il gol più importante della storia recente a tinte viola: il momentaneo 2-1 in finale di Coppa Italia contro il Napoli, in una serata da cancellare per motivi tristemente noti. Il gol più significativo e al tempo stesso illusorio in una notte da red carpet: una cinica sinossi della carriera del peruviano. Così come avviene nei quarti di finale di Europa League l’anno successivo, quando la Fiorentina di Montella, dopo l’1-1 di Kiev, è sopra 1-0 al Franchi ma soffre nel finale contro la Dinamo e un gol potrebbe portare ai supplementari una sfida di difficilissima gestione. Su un pallone vagante sulla trequarti, Vargas intuisce il passaggio di Mati Fernandez e, anticipando il movimento, attacca la profondità in progressione; nonostante lo svantaggio iniziale ruba tempo e spazio al diretto avversario, spostandolo di prepotenza proteggendo la palla con l’esterno sinistro, per poi incrociare di collo sotto il sette opposto: 2-0 al 93°, semifinale blindata.

Swoosh!

È l’ultima grande manifestazione del talento peruviano a Firenze, città che l’ha cresciuto, idolatrato, illuso, denigrato, esiliato e infine riabbracciato senza remore. È la chiusura circolare di una storia sghemba, sincopata, ricca di plot-twist inaspettati, l’agrodolce sipario per un talento senza compromessi. Quello che resta è il ritorno nel suo Perù, dove gode di una considerazione alla stregua di un simbolo nazionale, come il condor o le zampoñas.

Il concetto di divinità pagana in Perù: sradicare palla a Messi al 93′, partire come un folle in verticale, spaccare in due l’Argentina bullizzando Coloccini per 20 metri, servire il cross perfetto alle spalle dei difensori per l’1-1 finale dopo 65 metri palla al piede. Segue delirio sudamericano con esultanze isteriche, allenatori che invadono il campo e tifosi che si aggrappano alle recinzioni metalliche in preda a deliri di onnipotenza. 100% futbol latino <3

Intervistato di recente da una tv peruviana – occhiali scuri da pentito, seduto in mezzo ad un campo da gioco immerso nella vastità del paesaggio andino -, Vargas si è confessato con estrema lucidità – “Fui poco profesional a veces, lo sé” – facendo intravedere per la prima volta un’espressione priva di corrucciamenti e tensioni, lasciandosi andare a riflessioni su una carriera di difficile lettura. La voce profonda e il fare calmo di chi ha vissuto sulla propria pelle lo spreco di un talento puro assumendone la responsabilità, convivendo assieme ai timori, ai rimorsi e alle illusioni frantumate nel corso degli anni, ma consapevole di aver regalato momenti memorabili: squarci isolati di quel Sublime che Schopenauer considerava come rappresentazione massima a cui l’uomo potesse assistere.