Il riscatto del numero 9, punto fermo in un mondo fluido - Zona Cesarini
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Il riscatto del numero 9, punto fermo in un mondo fluido

Ogni grande processo di restaurazione nella storia ha segnato un punto di svolta all’interno di un contesto mutevole e turbolento, riportando in auge – quantomeno per un periodo – forze e visioni del mondo apparse improvvisamente miopi, il più delle volte inique o sorpassate rispetto allo spirito del tempo. Se catalogassimo l’evoluzione del gioco del calcio come un insieme di forze, filosofie e protagonisti che si scontrano non solo fisicamente sul campo, ma anche e soprattutto da un punto di vista intellettuale provocando – proprio come nella società – vere e proprie fratture ideologiche che segnano un “prima” e un “dopo” la propria affermazione su larga scala, oggi ci troveremmo ad analizzare un mondo calcistico diviso in una moltitudine di scuole e correnti, ma al tempo stesso sempre più incanalato nel dogmatismo della fluidità di sistemi, compiti e momenti di gioco. In questo scenario complesso ed oltremodo pregno di esempi e sfumature, il vecchio ruolo del centravanti si è progressivamente affievolito attenuando le sue principali caratteristiche genetiche come una tempera annacquata, almeno fino a questa bizzarra annata marchiata dalla pandemia e da un calcio diverso per contesto e habitat. Il 2020 è, mai come nell’ultimo decennio, l’anno del riscatto del vero numero 9.

Se prendessimo come concetto di riferimento la “selezione naturale” come espressa da Darwin ne L’origine della specie, noteremmo che gli individui di una stessa specie si differenziano l’uno dall’altro per caratteristiche genetiche e fenotipiche. La teoria della selezione naturale prevede che all’interno di tale variabilità, derivante da mutazioni genetiche casuali, nel corso delle generazioni successive al manifestarsi della mutazione, vengano favorite (“selezionate”, appunto) quelle mutazioni che portano gli individui ad avere caratteristiche più vantaggiose in date condizioni ambientali, determinandone, così, un vantaggio adattativo in termini di sopravvivenza e riproduzione. Questa descrizione, applicata oggi all’evoluto ecosistema del calcio, ci consegna l’affascinante figura del centravanti come una specie in estinzione, minacciata da più parti dalle richieste sempre più specializzate dei principi di gioco che influenzano lo sviluppo del calcio nei vari campionati europei. La “issue” principale in questo senso, il punto di non ritorno su cui si è basata buona parte della scuola europea dell’ultimo decennio, è senza dubbio quella dell’accademia catalana-olandese sublimata nel juego di posicion guardiolista contrapposta alla new-wave tedesca dell’officina-laboratorio di verticalità e pressing della Dortmund di Klopp. Ma se le due principali correnti dell’ultimo decennio si distinguono e si fronteggiano come due grandi partiti “pigliatutto” nell’arena politica, un elemento base ricorre in entrambe le visioni: semplificando un po’, l’importanza dello sfruttamento degli spazi e, insieme, la crescente influenza dell’intensità sullo sviluppo del gioco e sul fenotipo dei calciatori.

I simboli di questa evoluzione che continua nel tempo sono anzitutto gli attaccanti esterni a piede invertito, i terzini che si specializzano nella fase di costruzione come registi laterali e di attacco come ali aggiunte, i numeri 10 che – già dai primi anni Duemila – scompaiono, o meglio si adattano al contesto per divenire esterni o mezzali totali (Hazard, De Bruyne e i suoi fratelli), i portieri che si trasformano in sweeper keeper, i primi costruttori dal basso, i registi che imparano a difendere pressando in avanti e alzando i giri dell’intensità di gioco. E il centravanti? Il numero 9 old-fashioned, quell’essere mitologico a metà fra uomo e supereroe Marvel, che ha raggiunto i picchi più alti nel calcio meno codificato e più incentrato sui duelli individuali della decade dei ‘90, si è visto erodere il proprio areale di riferimento intorno ai piedi. Esattamente come quelle specie animali sotto minaccia di estinzione per i cambiamenti climatici e di habitat avvenuti troppo velocemente. Eppure, in questo contesto dove la creazione e l’attacco dello spazio, le transizioni offensive a velocità supersonica e la fluidità di moduli e posizioni in campo ha preso il sopravvento come nuovo standard da cui partire per costruire un’architettura tattica slanciata, verticale come le guglie di una cattedrale gotica, si assiste ad una piccola, perfino illusoria, controrivoluzione dei vecchi numeri 9 che si sono ripresi la scena come grandi divi hollywoodiani capaci soltanto di recitare ruoli da protagonisti meritori di un poster gigante all’ingresso del foyer del cinema.

Il sobrio ingresso di Zlatan alla prima serale a Napoli.

Ibrahimovic, Lewandowski, Haaland, Cavani, Lukaku, Calvert-Lewin. Sono tutti grandi nomi, giovani o crepuscolari, che si stanno prendendo i rispettivi campionati, dalla Premier alla Serie A fino alla Bundesliga, con l’esclusione del microcosmo chiuso della Liga, campionato culturalmente lontano dai grandi 9, patria del concetto di falso nueve. I capocannonieri e uomini simbolo dei propri club e dell’annata stessa sono indiscutibilmente loro, arrivati persino a fagocitare nell’immaginario mediatico e collettivo la propria squadra: il Bayern di Lewandowski (unico caso di #9 unanimemente riconosciuto come Pallone d’oro dell’anno dopo decenni di esterni offensivi, trequartisti, registi e perfino difensori), il Milan di Ibra, Cerbero cannibale che a 39 anni ha messo a ferro e fuoco le aree di rigore italiane, l’Inter di Lukaku a cui è impossibile rinunciare, il Borussia del nuovo prototipo di centravanti Haaland, l’Everton di Ancelotti tenuto a galla dalla sorpresa vintage Calvert-Lewin, e via così per altre squadre di medio spessore.

Anche la firma del capocannoniere della Premier nel derby di Liverpool è materiale da feticisti del ruolo. 

Abbiamo trascorso così tanto tempo nell’era de lo spazio è il miglior centravanti – come da citazione di Guardiola – con il giocatore che parte come attaccante centrale ma si muove profondo per legare il gioco in costruzione per generare tasche di spazio alle proprie spalle, che è stato facile dimenticare perfino che aspetto ha un vero centravanti. Il vecchio numero 9, il cui habitat ideale inizia sulla spalla dell’ultimo difensore e finisce a circa tre metri dalla linea di porta avversaria. Questo anche perché le aree centrali di gioco sono progressivamente diventate talmente inospitali – così ad alta densità – per gli attaccanti più dotati, diligentemente chiusi dalle linee avversarie, che sono arrivati ad occupare gli spazi esterni o arretrati per poter respirare e lavorare collettivamente, precipitandosi a colpire all’interno dei sedici metri all’ultimo istante utile.

Il fatto che molte squadre in Europa adesso giochino con linee difensive alte per accorciare il campo e difendere in avanti o che impostino fin dal portiere, significa che il numero 9 ha bisogno di passare più tempo a rincorrere la palla e in azioni di pressing o schermatura per recuperare o sporcare il possesso avversario rispetto al recente passato. Un altro aspetto più marginale, relativo al comportamento tipico del vero numero 9, è quello che lo distingue a una prima occhiata dagli altri calciatori offensivi: è a casa nel quadrilatero dei sedici metri così come potrebbe esserlo un orso polare sulla sommità di una calotta di ghiaccio. Cavani osserva la palla muoversi intorno a quel ristretto fazzoletto d’erba con la stessa abilità con cui Dennis Rodman vedeva e sentiva la palla rimbalzare dal ferro; Ibra invece la occupa con un’aura di maestosità, quasi stizzito dalla minaccia nascosta dei difensori che potrebbero violare ciò che lui vede come sua esclusività. Così come le esultanze di prime punte come queste: a volte ricordano un orso proteso in un attacco verso una preda con tanto di artigli; in un mondo di poser e riproduzione seriale non c’è (quasi) mai niente di coreografato nel loro modo di vivere l’esultanza.

Per quanto possa risultare una fase illusoria e breve, una struggente parentesi da ultimi romantici, la controtendenza a cui stiamo assistendo ai massimi livelli europei significa che il fascino glamour del centravanti è tornato, almeno per un po’, al centro del palcoscenico. Quella capacità naturale, quasi innata, di allineare e poi sfruttare il lavoro dei propri compagni in funzione del fine ultimo del gioco, il gol, resta il centro di gravità permanente di battiatiana memoria in una galassia fluida e nebulosa, che muta e si evolve ad un ritmo frenetico. Ma che tutt’oggi non è riuscita davvero a rinunciare al suo unico punto fermo. O almeno, non ancora.